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Vita e morte della cucina romana

La notizia poi smentita della chiusura della trattoria Settimio a Campo de Fiori ha riaperto il dibattito più sentito della città: quello sui piatti e i luoghi della tradizione e sul terrore all'idea della loro scomparsa.

di Francesco Longo

Foto di Marco Di Lauro/Getty Images

Il documentario sulla decadenza di Venezia I love Venice testimonia le conseguenze dell’emorragia di abitanti di una città e quindi la sua morte. Un gruppo di veneziani resiste al dominio del turismo e stabilisce che quando il numero dei residenti scenderà sotto i cinquantamila insceneranno il funerale della città. Il numero cala quotidianamente, un conto alla rovescia verso l’abisso finché, raggiunta la quota, celebrano in acqua il funerale di Venezia. Tutte le città, si sa, attraversano cicli di vitalità e decadenza, lo sapeva bene Jane Jacobs che nel 1961 scrisse Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, un classico della sociologia urbana. Ogni città muore per scomparse diverse, residenti, fabbriche, simboli. Il funerale di Roma è diluito, polverizzato, se ne celebra una pezzetto a ogni chiusura di bottega o negozietto, a ogni chiusura di libreria si piange un po’, sebbene lo strazio assoluto sia riservato all’addio di trattorie storiche, pasticcerie aperte da sempre, baretti imbalsamati. Quando cala la saracinesca su polpette, gelati, trippa e pajata, supplì o fiori di zucca fritti è lutto da bandiere a mezz’asta. L’ultima pugnalata è stata la notizia (poi smentita) della chiusura della trattoria Settimio a Campo de Fiori, “amata da Sordi e Tognazzi”. Spadellava piatti della tradizione romana dal 1932, attiva in via del Pellegrino 117. Il primo ad annunciare la sciagura su Twitter è Andrea Salerno, direttore di La7: «Mario e Teresa hanno mollato. Un pezzo di Roma che se ne va. Le polpette più buone del mondo». Nel settembre 2020 l’apocalisse sembrava arrivata con l’annuncio della cessazione di attività – poi ritirata – di Cavalletti, tempio del millefoglie aperto al quartiere Trieste dal 1951. Alla notizia i giornali titolano “Rivolta sui social, parte la raccolta firme”. Il millefoglie era così tanto espressione e vanto della città da ricordare l’estensione dell’Impero romano: veniva chiesto e inviato anche alla Regina Elisabetta (alla morte della regina Elisabetta, Repubblica è tornata in questi giorni proprio a intervistare chi guida oggi l’attività di Cavalletti: «Con la regina Elisabetta perdiamo la nostra cliente più affezionata e prestigiosa»).

Le conversazioni tra romani – in cene, spiagge, rifugi alpini, ma anche sale d’aspetto o riunioni – avvengono spesso su un piano inclinato in cui è molto facile che si finisca a discutere su dove si mangiano i supplì più buoni di Roma, la pizza bianca più buona di Roma, la granita di caffè più buona, etc. Ci si divide sempre in fazioni e in tifoserie e gli elenchi di forni e bettole vengono snocciolati come costellazioni che disegnano una carta gastronomica della città, mappa di cui ognuno ritiene di possedere l’unica copia originale. I punti cardinali sono il tiramisù di Pompi, il “quagliaro” del Quarticciolo, i filetti di baccalà vicino Campo de’ Fiori, la crostata ricotta e visciole al Ghetto, la pizza dell’obitorio a Trastevere. Pare che gli unici monumenti apprezzati dai romani siano grattacheccari, cornettari, cocomerari. Il più delle volte, per questi paradisi tanto decantati, si tratta di locali angusti, privi di insegne esterne, con nomi che non coincidono mai con i veri titoli commerciali, con arredi spartani, camerieri sfrontati se non burberi, gestiti di solito da proprietari decrepiti, con foto di attori ormai deceduti, luoghi riconoscibili solo per la fila fuori, la folla in perenne attesa del momento d’estasi collettiva in cui si sforna un calzone o un pomodoro col riso. Eppure ognuno di questi ristori è emblema della romanità, e questo basta.

Raccontava con precisione questa mania romana dell’attaccamento ai sapori e agli spazi di questi piatti e alla loro tremenda scomparsa una pagina del romanzo La casa di Roma di Pierluigi Battista. A proposito del quartiere Prati, disseminato di caffetterie con tavolini all’aperto, li descriveva «frequentati con la stessa devozione riservata ai pellegrinaggi a un santuario, che per noi hanno quasi formato una ideale geografia del gusto e dei sapori attraverso le specialità da tutti conosciute e apprezzate, una mappa di delizie destinata a restare nostalgicamente nella memoria di chi prima o poi è costretto dalle circostanze della vita ad allontanarsi da quei luoghi: le tartine di Antonini, i cornetti di Faggiani, la granita di caffè con panna di Pontisso, i calzoni fritti di Franchi su via Cola di Rienzo, i gelati di Giolitti (ora sparito) a via Settembrini, i tramezzini di Vanni, i salumi di Ercoli, i marron glacé artigianali di via Paolo Emilio». Di questa religione ognuno conosce le sue preghiere e le sue chiese.

Anche ora che la città è foderata di pokerie, anche oggi in cui le strade sono invase da raider per il sushi da asporto, per hamburger o piatti vegani, ora che in pausa pranzo vengono presi d’assalto kebabbari e raviolerie cinesi, il romano non si vergognerà di confessare che darebbe tutta la cucina internazionale in cambio di una carbonara, e nonostante l’amore per piatti thailandesi e giapponesi a mezzanotte e tre nessuno rifiuterà mai una spaghettata aglio olio e peperoncino. Le città vivono e muoiono, come i re e le regine, ma se Carlo III decidesse di voler conquistare i romani non dovrebbe fare altro che confermare l’ordine del millefoglie di Cavalletti. C’è sempre un posto libero – un posto a tavola – per l’ottavo re di Roma.