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Carrozzeria Orfeo, come essere pericolosi e pop a teatro

In occasione dell'inizio del tour del suo nuovo spettacolo, Salveremo il mondo prima dell’alba, il drammaturgo e regista Gabriele Di Luca ci racconta cosa vuol dire fare teatro oggi in Italia.

di Michele Bonucci

Popolari e poetici, divertenti e tragici. Gli spettacoli di Carrozzeria Orfeo hanno conquistato il pubblico e la critica nei quindici anni di attività della compagnia fondata e diretta da Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti. Un teatro pop dal ritmo cinematografico. La scrittura di Di Luca è brillante, spregiudicata e cruda. I mondi che crea sono intrisi di filosofia, psicologia e poesia. Un punto di osservazione sulla realtà ironico e drammatico che fa ridere e riflettere sulla nostra società “socialmente instabile”. Il loro nuovo spettacolo (l’undicesimo della compagnia): Salveremo il mondo prima dell’alba, indaga le miserie delle persone più ricche del mondo. Di Luca (drammaturgo e regista) ci rivela alcune anticipazioni e affronta con schiettezza il tema controverso del politicamente corretto nel mondo dello spettacolo. Salveremo il mondo prima dell’alba andrà in scena al teatro Bellini di Napoli dal 9 al 18 febbraio 2024, al teatro Modena di Genova dal 20 febbraio al 3 marzo 2024, al teatro Vascello di Roma dal 5 al 17 marzo e al teatro Elfo Puccini di Milano dal 9 al 28 aprile.

Nei suoi spettacoli lei è solito raccontare la realtà degli ultimi, questa volta invece ha scelto il mondo dei ricchi…anche loro possono diventare “ultimi” a loro volta?
Possono eccome. In Salveremo il mondo prima dell’alba i protagonisti, tra i più ricchi del pianeta, si ritrovano tutti in una clinica per disintossicarsi dalle dipendenze. In questo spettacolo va in scena il mondo del capitalismo, del benessere e del successo con tutte le sue idiosincrasie. Abbiamo spostato lo sguardo sul mondo dei ricchi per trovare le loro fragilità, perché in qualche modo sono il frutto dell’educazione di un sistema e di un processo storico.

Il filo rosso che lega questo spettacolo al precedente: Miracoli metropolitani, è uno sguardo critico verso il capitalismo?
C’è una critica molto forte e molto ironica al capitalismo ma anche a chi lo combatte. Ho provato a raccontare quali sono i nostri atteggiamenti rispetto alla ricchezza e a svelare le ipocrisie che stanno dietro a determinate battaglie.

Anche le serie e il cinema hanno indagato la vita e le debolezze dei più ricchi con The White Lotus e Triangle of Sadness, ad esempio. Nella scrittura del nuovo spettacolo lei si è lasciato contaminare da queste opere?
Mi ritrovo spesso a scrivere qualcosa e a vedere che qualcun altro più celebre di me lo sta scrivendo in altre parti del mondo. Dopo Miracoli metropolitani è uscita la serie The Bear. Entrambi esplorano la realtà delle cucine e dei cuochi, quel mondo basso e anche faticoso. La grande vittoria dal punto di vista intellettuale è il tentativo di essere sempre collegato e connesso con ciò che accade.

Successe qualcosa di simile anche nel 2012 con Robe dell’altro mondo, se non sbaglio.
In quello spettacolo c’era una sorta di invasione di alieni, il Vaticano li perseguitava perché venivano a screditarli e c’era il papa che dava le dimissioni… vagava per un parco dicendo «che bel temporale, oggi non ci torno più a casa» e poi c’è stata la rinuncia di Ratzinger nel 2013.

ⓢ In Salveremo il mondo prima dell’alba ci sarà qualche nuova “rivelazione”?
Questo spettacolo è pregno del tema dell’ intelligenza artificiale.

In che misura la sua poetica è influenzata da linguaggio cinematografico?
Molto, ma non solo dal cinema. Anche dalla poesia, dalla filosofia. Più in generale sono influenzato da un modo di vedere la scrittura e la vita più aperto di quello un po’ manicheo che abbiamo in Italia, dove ci sono sempre un grande protagonista e un grande antagonista, il buono e il cattivo, il bene e il male, la luce e l’ombra. Vedo in giro spettacoli teatrali molto belli ma di cui ho l’impressione che non affondino mai il coltello, che non abbiano mai il coraggio di provare anche con grande ironia a essere pericolosi fino in fondo. C’è sempre questo volersi fermare un gradino prima perché chissà cosa dirà il pubblico, chissà cosa diranno gli abbonati e i giornalisti. E invece mi piace la purezza e la spavalderia della scrittura di alcuni prodotti d’oltreoceano o della scrittura teatrale nord europea.

Quali sono i suoi autori di riferimento?
L’autore che mi ha ispirato più di tutti e in qualche modo mi ha fatto iniziare a scrivere è Martin Mc Donagh, che ora noi tutti conosciamo per i film Tre manifesti a Ebbing, Missouri e Gli spiriti dell’isola. Lui nasce come autore puramente teatrale, scrive testi meravigliosi caratterizzati da un modo di vedere le cose che vanno oltre il politicamente corretto, con personaggi tridimensionali in cui il bene e il male convivono. In questo modo, implicitamente, pure nell’esasperazione c’è una forma estrema di perdono e di tolleranza verso i personaggi. Ci mostra come tutti possiamo essere diversi da noi stessi da diversi punti di vista, in tutte le nostre triangolazioni. Questo mi interessa molto. Mi interessa che l’arco della trasformazione del personaggio non sia sempre da cattivo a buono.

Il politicamente corretto rischia di limitare in qualche modo la sua drammaturgia?
Il politicamente corretto mi ha “rovinato la vita”, tra tante virgolette. A partire dal mio film prodotto anche da Rai cinema, Thanks! che ha subito quello che potremmo definire delle dolcissime censure. Parti di testo sono state tagliate, la Rai non ha voluto il titolo completo perché Thanks for vaselina era respingente. Nel corso degli anni i più importanti produttori cinematografici italiani sono venuti a teatro e mi hanno commissionato soggetti di serie tratti dai miei spettacoli. Li ho scritti ed erano molto entusiasti ma poi le due più grandi piattaforme streaming ci hanno detto che in Italia non è possibile realizzare prodotti del genere.

Come mai?
Ci hanno risposto che è una scrittura troppo forte, preferiscono puntare su prodotti per teenager. Le piattaforme nel nostro Paese fanno concorrenza alle tv generaliste e il rischio, purtroppo, non è visto come una forma di investimento. In Italia non potrebbe mai nascere un Martin McDonagh e non potrebbe mai nascere un Quentin Tarantino perché il sistema non glielo permetterebbe. Questo sistema non riesce a capire che se attraverso il cinema e le serie riesci a creare una reale restituzione affettiva della violenza hai fatto gol. Perché le persone vogliono vedere qualcosa che li metta di fronte a sé stessi e in questo senso il teatro è diventato l’unico luogo dove questo mi è possibile.

Nel teatro trova uno spazio di libertà?
Nel nostro nuovo spettacolo vedrete una popstar contro il femminismo e che ce l’ha con le donne. È difficile raccontare un personaggio del genere in altri “palcoscenici”. Questo vale anche per la tv. Ad esempio in passato ho scritto dei testi che avrebbero dovuto essere recitati da un’attrice in una nota trasmissione tv che fa satira politica, ma anche in questo caso il contenuto è stato ritenuto eccessivo.

Temevano che i telespettatori non avrebbero apprezzato?
Credo che lo stesso star system abbia una percezione completamente errata di quelli che sono i criteri di sopportazione del pubblico rispetto a certi temi. Si pensa che il pubblico non sia in grado di tollerare e apprezzare determinate tematiche, si pensa che si scandalizzerebbe. Quindi si abbassa il livello e si fanno prodotti sempre meno scandalosi. In Miracoli metropolitani scrivevo: «Se la scrittura non è pericolosa, se quando scrivi non hai la morte che ti cola sulle dita allora cazzo non scrivere». Il pubblico vede prodotti in cui si abbassa sempre di più lo standard della pericolosità, ma poi le opere straniere di valore vengono apprezzate. Come Shameless, una serie in cui il protagonista è un padre alcolizzato che abbandona i figli e ci sono personaggi vanno in direzioni molto forti.

Vorrebbe tornare a cimentarsi con il cinema o il mondo della serialità?
Ho tanti progetti potenziali. Almeno 3 serie e 2 film. Una scritta tanti anni fa insieme a Luca Infascelli, sceneggiatore che ha lavorato con me anche per Thanks!. Si chiama Night club ed è uno scontro tra una setta religiosa e un night club appunto, parla di sessualità e religione. Poi ci sono stati Cous cous clan e Miracoli metropolitani. Gabriele Salvatores nel 2016 ha comprato i diritti di Animali da bar per farne un film che non è ancora stato realizzato. Alcuni mi hanno proposto di scrivere una commedia leggera “per partire”, ma se mi togliete la cosa più preziosa che ho ovvero la mia diversità nel percepirmi come autore io non sono più niente. Se devo scrivere una commedia “leggera” penso ci siano autori che sono capaci di scriverla molto meglio di me.

In primavera partirà anche un nuovo e importante progetto di Carrozzeria Orfeo: Giving back, un’attività di tutoring per giovani compagnie. Le candidature sono state tante: 100, e sono arrivate da tutta Italia. Quali sono le difficoltà che incontrano oggi le realtà più giovani?
La prima è il tempo. Tempo per mettersi alla prova, sbagliare e iniziare a confrontarsi con il pubblico e sbagliare, sbagliare ancora fino a trovare il proprio modo di fare teatro.

Il sistema dei festival non aiuta?
In quel caso fai uno spettacolo, giri in estate e magari fai delle repliche. Poi ti richiamano l’anno dopo e ti dicono: hai qualcosa di nuovo? Se non ce l’hai sei fuori dal giro dei festival. Così le persone vanno in iper produzione, ma quando vai in iper produzione e sei ancora giovane, fragile e non hai una poetica forte rischi di schiantarti, uno perché ti pagano pochissimo per fare quello che fai – se ti pagano – due perché tutti sono attratti dal mito del successo e del denaro e dopo un anno un attore la compagnia la molla se gli propongono una pubblicità, quattro pose per Don Matteo… e quindi le compagnie si disintegrano, perché non ci sono percorsi generalizzati. Il progetto Giving back è un misero tentativo di far vedere al sistema che forse ci può essere solidarietà e reciprocità con le nuove generazioni. Ci può essere un passaggio dolce del testimone che superi la dinamica concorrenziale del lupo mangia lupo, che non sia un passaggio generazionale violento in cui una generazione deve distruggere quella precedente.

C’è anche il tema della formazione di un nuovo pubblico che è sempre al centro del dibattito culturale… ma chi dovrebbe occuparsene secondo lei?
I teatri e i circuiti, e chi sennò? Ma non vorrei che questa sembri la critica di un’artista alle istituzioni teatrali. Il meccanismo è molto più complesso, anche i teatri nazionali sono a loro volta delle vittime, perché devono sottostare a delle regole ministeriali che premiano certi tipi dinamiche piuttosto che altre. Come io devo stare all’interno di uno schema anche i teatri devono stare all’interno di uno schema, il grande problema sono le istituzioni. Il problema è che i grandi nomi possono andare nei grandi teatri e la drammaturgia contemporanea è spesso esclusa. Ci sono degli esempi illuminati come il teatro Elfo Puccini di Milano che costruisce tutta la sua programmazione sul ricambio generazionale. È incredibile come la storia del teatro sia una storia anche di spazi teatrali che condizionano anche le poetiche e viceversa. L’Elfo ha tre sale: la Shakespeare da 500 posti, la più grande, per nomi più conosciuti che possono riempirla, la sala Fassbinder da 210 e la Bausch da 100 posti, in modo che diverse offerte culturali possano trovare il loro spazio. Ma le produzioni in sala Bausch, quella più piccola, non sono produzioni minori dal punto di vista artistico. Se non si vuole che il pubblico finisca nel teatro italiano bisogna cominciare a dargli qualcosa di diverso.