Stili di vita | Dal numero

Anche il cibo è camp

Ha definito la moda, il cinema, la musica, l’arte e la letteratura ma non è mai stato accostato al mondo del cibo, un luogo in cui si manifesta in continuazione.

di Arianna Cavallo

courtesy TOILETPAPER, The New York Times Magazine

È il primo lunedì di maggio e sono incollata a Instagram per l’arrivo degli ospiti del Met Gala, la festa che inaugura la mostra di moda più importante di tutte, quella del Costume Institute di New York, quest’anno dedicata al camp. Gli invitati sono tenuti ad agghindarsi a tema, che a questo giro è quanto mai sfuggente, aperto alle interpretazioni e agli errori, anticipato da articoli di giornali che provano a definirlo quando si tratta, come scrisse nel 1964 Susan Sontag nelle 58 Note ovunque citate, di un sentimento, di una sensibilità estetica, di un atteggiamento festoso verso la vita e i suoi fallimenti. Sfilano i costumi esagerati di paillettes e piume di pavone, Jared Leto con la testa mozzata sottobraccio, Ezra Miller con sette occhi, Cher si esibisce nel suo regno con parrucca blu; poi spunta la comica Tiffany Haddish che schiude la borsetta e lascia intravedere – anzi esibisce compiaciuta – tra i lustrini d’argento una coscia di pollo unta, fritta e incellofanata, giustificandosi così: alla festa dell’anno prima era morta di fame. Anche il cibo, quella sera, ha così avuto un inaspettato e trionfale momento camp.

Il camp ha definito la moda, il cinema, la musica, l’arte, la letteratura e le cattive maniere dell’ultimo secolo, ma non è mai stato accostato al mondo del cibo. Eppure mi pare un luogo in cui si manifesta in continuazione, sia perché quello che mangiamo è un’espressione quotidiana dell’umano, sia per la centralità che il cibo ha guadagnato nel nostro tempo, diventando quasi un’arte che si interseca con altre, trattata con la testa e gli occhi e non solo con la pancia. E l’approccio che abbiamo verso il cibo è sempre più camp: nel modo in cui ne parliamo, come lo cuciniamo e nello spirito con cui lo serviamo, per non parlare della preminenza estetica che ha acquisito grazie a blog e social network, soprattutto Instagram, che ha visto il fiorire di fenomeni culinari inquadrabili nel genere.

Lo sono il foodporn e le leziose mode millennials di pietanze rosa, color arcobaleno o a forma di unicorno, così come il loro opposto: gli account dedicati a piatti disgustosi, alle schiscette tristi e ai repellenti ricettari anni Settanta, con i loro trionfi di torte in gelatina, pesci finti e cespi di lattuga farciti di carne. Sono camp – in una forma più alta e raffinata – il libro fotografico Real Food di Martin Parr, tra panini strizzati da unghie luride, sinfonie di salsicce, ravanelli intagliati e toast rinsecchiti, e le copertine di TOILETPAPER con gli spaghetti al sugo, uno scheletro umano riempito con costate e costolette crude, l’uovo fritto inchiodato al tavolo. Anche le riviste e i programmi tv gastronomici ingessati e di buon gusto hanno ceduto il passo a pubblicazioni dissacranti, nerd, strabordanti, nelle immagini, nei temi, nel modo di trattarli. Penso a Put A Egg On It e a Lucky Peach, che ebbe il merito di pubblicare “America, your food is so gay”, un articolo del critico James Beard che ricostruiva l’influenza del mondo Lgbtq+ nell’invenzione del cibo americano e quindi, aggiungo, di un’innata propensione al camp, nato come espressione del mondo queer. Peter Meehan, uno dei fondatori di Lucky Peach e ora critico gastronomico del Los Angeles Times, mi convince a non cercare di stabilire se un piatto sia camp in sé: «Penso che sia un bersaglio mobile.

Mi viene in mente la Barbecue Chicken Pizza, una pizza con salsa barbecue e tocchetti di pollo inventata nel 1985 dallo chef Ed LaDou per il ristorante losangelino Spago, e poi distribuita e resa famosa negli Stati Uniti dalla catena California Pizza Kitchen. «Ora sembra un piatto datato, retro e direi campy, ma resta delizioso!», aggiunge. Al di là delle ricette più ostentate, lo stesso piatto può essere quindi raffinato o camp a seconda del contesto in cui viene servito: un menu di vol-au-vent, pennette alla vodka e profiterole non ha lo stesso valore presentato oggi o negli anni Ottanta, e mi chiedo se tra vent’anni organizzeremo una cena, o meglio un brunch, in onore dei vecchi tempi, accozzando ciotoline di hummus, bowl di granola, avocado toast e cupcake.

Fabio Cleto, curatore della raccolta di testi, saggi e racconti PopCamp e massimo esperto italiano dell’argomento, mi fa notare che il catalogo della mostra del Costume Institute «sembra un macaron rosa, evoca lusso, piacere. Non credo sia casuale», e in effetti ricorda le confezioni color pastello e oro di Ladurée. Cleto è d’accordo sulle molteplici manifestazioni del camp nel cibo: «Si può riscontrare nella mise en scène» e «nell’atteggiamento verso la cucina: memorabile la dieta di Ronald Firbank, maestro del camp, che viveva mangiando solo una pesca a pasto, sia pur accompagnata da abbondante champagne, e che in un’occasione dichiarò di aver soddisfatto l’appetito con un solo pisello». La cosa fondamentale, puntualizza, è che non si può stabilire a priori se qualcosa è camp ma è necessario che «una determinata circostanza produca una risposta emotiva, un entusiasmo complice, che ci fa dire “sì, assolutamente, questo è Camp”». Il Camp innerva gesti, atteggiamenti, intenzioni. Lo abbiamo visto spuntare nel 2014 quando Ellen De-Generes si mise a distribuire la pizza nei cartoni agli Oscar, con Brad Pitt che azzannava il suo trancio gocciolante su un piattino di plastica. L’anno dopo l’abito dall’esorbitante strascico giallo indossato da Rihanna al Met Gala venne trasformato in frittata in centinaia di meme entusiasti, aprendo le porte a un nuovo genere estremamente camp, le combo fotografiche di oggetti di alta moda e i piatti che ricordano: un modello di Nike e le fette di bacon, una pochette di Louis Vuitton e un cosciotto.

Meme, parodie, derisione ricadono sotto l’etichetta del camp solo se lontane da cinismo e disprezzo: è la festosa rivalsa degli esclusi che accolgono quel che li rifiuta e si divertono a dissacrarlo con gioia, è la celebrazione delle cose inappropriate, misere e malviste, «è un sentimento tenero», scriveva Sontag, che scova il successo nei fallimenti appassionati. È qualcosa che ha fatto il giro e che si guarda non con scherno ma con ammirazione, quasi gratitudine. Lo troverete negli ospiti che vi fanno trovare un porcospino finto all’aperitivo a patto che voi portiate le tartine di uova di lompo; nelle creazioni di insospettabili chef stellati, come l’orripilante shawarma di sedano rapa e le gelatine a forma di scarafaggio di René Redzepi, il fondatore del Noma; in voi stessi, quando cucinate il piatto migliore della nonna sbagliando apposta e di gran lunga un ingrediente, o quando lo cucinate perfettamente, travestiti con la sua collana di perle.