Cultura | Architettura
La Biennale Architettura 2021, soluzioni per vivere insieme
Resoconto dalla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia dal titolo How Will We Live Together?, la prima in presenza durante la pandemia.
Foto Marco Zorzanello courtesy La Biennale di Venezia
Tornano le prime Camper sul selciato davanti alle colonne bianche del Padiglione Centrale, i pantaloni verde acido, i tailleur rossi postmoderni, le Reflex, i Persol e una collezione di tote di stoffa (Museo Reina Sofia, Actes Sud, New Yorker…) che a breve si riempiranno di pamphlet, plaquette e cataloghi. Per i prosecchi inaugurali con i curatori e i diplomatici si abbassano le mascherine e si sorride. È la prima Biennale Architettura dell’era Covid-19 (dal 22 maggio al 21 novembre) e il titolo non è mai stato così adatto: How Will We Live Together? Come vivremo insieme?
La scelta di porre questa domanda ai partecipanti nasce però prima della pandemia, nasce dall’incapacità che sta avendo la comunità globale ad affrontare i rapidi, se non irreversibili, cambiamenti climatici. L’architettura può essere uno strumento per proporre un dialogo, sul ruolo degli spazi pubblici, dei materiali, delle tecniche di costruzione e ricostruzione. «Con la politica che continua a dividerci e isolarci, possiamo offrire dei modi alternativi di vivere insieme attraverso l’architettura», ha detto Hashim Sarkis, architetto libanese e curatore di questa 17esima edizione. Ma cosa ci possiamo aspettare da una domanda che abbraccia ogni aspetto dell’esistenza umana? Quanto ottimismo può esserci in un titolo che finisce con un punto interrogativo?
Da un lato le risposte sono quelle “ambientaliste”: piante, mappature, animali, ingegneria, sacchetti di plastica, acqua. Gli esempi sono molti. Creare un World Park, un «habitat ininterrotto su scala planetaria», con aree contigue per permettere agli animali di migrare «tra Alaska e Patagonia, tra Australia e Marocco e tra Namibia e Turchia». Resuscitare l’odore di fiori estinti per «sperimentare di nuovo qualcosa che abbiamo distrutto», come la pianta Hibiscadelphus wilderanus Rock delle Hawaii. Distribuire consapevolezza ricreando una grotta del Mbai usata per pianificare la resistenza anti-colonialista. Analizzare la storia della coscienza green dagli anni ’70 a Greta Thunberg con dei fogli A4 appiccicati a una parete. Il Padiglione Centrale propone poi l’istituzione della mostra Future Assembly, un’Organizzazione delle Nazioni Unite poliedrica che possa «rappresentare spazialmente diverse agenzie non umane», «i nostri immaginari del futuro devono includere il più-che-umano», invitando a proporre nuovi stakeholder per quest’assemblea multiforme di materia gassosa, abeti e pipistrelli. L’eco è quello della Nazione delle Piante di Stefano Mancuso che già avevamo visto a Milano alla XXII Triennale, Broken Nature.
Ci sono, nei Giardini della Biennale, soluzioni più interessanti, forse perché più realistiche, circoscritte a dei luoghi, a delle vite precise. Nel padiglione Ungherese la mostra Othernity – ripristinare il nostro retaggio moderno cerca di aprire un dialogo con edifici costruiti per un mondo passato che funzionava in modo diverso, quello del regime socialista. Cosa ci facciamo oggi con questi palazzi di Budapest eretti per delle necessità sociali che oggi sono cambiate? Le soluzioni portano a volte a modifiche strutturali della planimetria, altre volte a punti di partenza per discorsi concettuali, come quella di Ultra Water Magic: l’edificio brutalista viene infilato in una scatola per action figures e diventa un gioco/icona. «Ogni edificio è un prodotto commerciale in sé? Possiamo prendere l’architettura fuori dall’architettura?», si chiede l’autore.
L’Austria fa chiarezza sul Platform Urbanism, il modo in cui stanno cambiando le strutture delle città a causa delle piattaforme digitali che creano una realtà in cui tutto è sempre disponibile su richiesta. Un sistema esclusivo che produce un nuovo classismo. “Access is the new capital” c’è scritto in lettere gigantesche. Monopattini elettrici, hot desk, street furniture, pop-up shop: le grosse foto appese mostrano i paesaggi di un futuro on demand. Nell’altra sala la scritta “The platform is my boyfriend” vuole sottolineare la dipendenza emotiva da questi meccanismi che iniziamo a considerare “normali”, automatici.
L’astrattismo di certi opprimenti quesiti globali viene battuto, almeno emotivamente, dalle storie. L’esposizione Fading Borders si chiede come stanno i cinque milioni di romeni che hanno lasciato il loro paese da quando sono entrati nell’Unione Europea con fotografie di lavoratori e lavoratrici che raccontano la loro fuga. E cosa fare con le città che restano vuote, centri urbani “in restringimento” che affrontano diversi tipi di declino: demografico, socioculturale, architettonico? Ci si sforza di vedere nella desolazione dei vettori per «la modernizzazione e l’innovazione, la creazione artistica e la rivalutazione delle relazioni interpersonali».
I confini giocano un ruolo chiave in tanti dei progetti presentati. Senza confini non esisterebbero i rifugiati. Fa effetto la ricostruzione di un muro di un campo profughi con l’elegante targa marrone-oro dell’Unesco sull’intonaco scrostato. L’opera “Stateless Heritage”, accompagnata da una video installazione dello studio DAAR (Decolonizing Architecture Art Research), si chiede: cosa accadrebbe se il campo profughi di Dheisheh, a sud di Betlemme, venisse riconosciuto come Patrimonio dell’Umanità? Vorrebbe dire adattare l’idea di patrimonio a qualcosa che nasce non solo per essere distrutto, ma per essere dimenticato.
Le fluttuazioni del perimetro di Israele dal ’48 a oggi hanno un impatto anche sulla natura. In “Border Ecologies and the Gaza Strip” seguiamo l’adattarsi a queste modifiche da parte di una piccola fattoria di Khuza’a che nei decenni ha subito bombardamenti e attacchi e dove non si spreca niente, non per ideologia ma per necessità. La guerra e l’assenza alle risorse obbligano a una sostenibilità quasi totale. L’installazione palestinese – tavola da pranzo con piatti vuoti, una tovaglia ricamata con le storie di una famiglia – non è l’unica che ruota intorno all’agricoltura: quella del padiglione d’Israele si chiama “Terra. Latte. Miele”. Da un lato l’assenza e dall’altra l’eccesso. Si guarda con occhio critico il modo in cui, con investimenti e tecnologia, negli anni si è deciso di «trasformare il paesaggio locale in modo da assecondare gli ideali europei di abbondanza», spiega. Qui le vittime sono gli animali: mucche modificate per produrre più latte – le hebrew cows – e fauna locale pressoché estinta; da dei cassetti di metallo lucido escono scheletri e corpi impagliati di pellicani, orsi, lontre.
C’è qualcosa d’esaltante nel tornare a confrontarsi davanti a degli oggetti fisici, che siano i modellini che odorano di compensato e colla del padiglione belga o le travi di una casa giapponese smontata e portata a Venezia o la maquette della doghouse del cane di Tom&Jerry del padiglione USA (il più pulito, bianco e nazionalista). Tanto legno e tanta scienza, tanti esperti e tanta utopia in questa Biennale, in cui si cerca di vedere da una certa distanza l’Antropocene, un’era in cui però siamo ancora ben infilati. L’uomo e le sue forme di resistenza restano la cosa più interessante.