Attualità

Andrea Pirlo

A 34 anni il centrocampista di Brescia è ciò che ogni giocatore vorrebbe essere. E anche i suoi errori sono da applausi: Andrea è tornato umano.

di Giuseppe De Bellis

Il caso Pirlo si chiude con una punizione imperfetta. L’unica parabile che invece va dentro. La risposta a tutti quelli che hanno fatto la stessa domanda negli ultimi giorni: perché non spiega? Non serve parlare quando sai giocare a pallone. Gol. Brutto, non alla Pirlo, quindi, appunto, imperfetto, errore grosso di Abbiati. Però gol, cioè di più della perfezione che invece finisce sull’incrocio dei pali. L’utilitarismo nel calcio batte la pignoleria. Gol, allora. Il caso che c’era improvvisamente non c’è. Pirlo scrive ancora coi piedi: fondamentale nella Juventus, indispensabile per il calcio italiano. Il resto è bar sport, non calcio. Il problema è che eravamo stati abituati troppo bene, tutti: tifosi, avversari, appassionati, curiosi. E lui stesso. Pirlo non sbagliava, Pirlo non usciva, Pirlo giocava 38 partite su 38, più la Champions, più la Nazionale. A 34 anni non potrai mai essere come a 28. Negli ultimi giorni l’ha accettato lui, ora tocca a noi. Ci tocca per onestà e per opportunismo. Perché il vero e unico caso che riguarda Andrea Pirlo è questo: non c’è ancora il suo erede. Non esiste uno che gli si avvicini. Verratti è un’altra cosa e Pogba, che molti vedono come suo prossimo aguzzino, è proprio un altro tipo di giocatore. Pirlo è Pirlo, anche se dicono che non sorrida più e lo dicono come se prima invece lo facesse. Pirlo che segna il primo goal contro Milan e fa segnare il terzo a Chiellini basta, il resto è un avanzo di psicologia da panchina ai giardinetti.

Gol. Brutto, non alla Pirlo, quindi, appunto, imperfetto, errore grosso di Abbiati. Però gol, cioè di più della perfezione che invece finisce sull’incrocio dei pali. L’utilitarismo nel calcio batte la pignoleria.

Perché una certa idea di calcio si aggrappa ai giocatori così. Quelli che marcano la differenza tra sé e gli altri, tutti gli altri, anche i campioni. C’è una frase detta da Daniele De Rossi qualche tempo fa: «In Nazionale al centro c’è Pirlo, io per giocare devo adattarmi a fare un altro ruolo: mezzala destra, mezzala sinistra, a volte anche difensore. Lo faccio volentieri perché Andrea non si può toccare». Il riconoscimento dei tuoi simili vale di più dell’approvazione di massa. Ecco: Pirlo rappresenta ciò che molti giocatori avrebbero voluto essere. Il pubblico ha il diritto di non capirlo, i calciatori hanno il dovere di accettarlo: è il tempo, il ritmo, le pause. Si passa da lui. E’ il genio della semplicità. Gattuso riassunse così: «Io vedo giocare Andrea, lo vedo col pallone tra i piedi e mi chiedo se io posso essere considerato davvero un calciatore».  Corre la palla, non gli uomini. Chi ha giocato almeno una volta, anche in qualsiasi squadra giovanile, avrà sentito un allenatore gridare ossessivamente: «Quando ti arriva la palla devi aver già visto a chi darla». Provateci, dai. Abbiamo tentato tutti, quelli che sono rimasti amatori e quelli che sono diventati miliardari col pallone. Anche tra questi, quella cosa lì la sanno fare in pochi. E nessuno come Andrea.  È così che deve andare ed è così che va, con un tocco o con due, non di più. Con il passaggio in profondità che sembra una cosa tramontata e che riappare improvvisamente quando lui stoppa e poi mette dentro in verticale. Il professore, come lo chiamò Ancelotti la prima volta che lo provò in quel ruolo. Fu Pirlo a chiederglielo: «Entrai nel suo spogliatoio e con molta franchezza gli esposi il mio piano. Lui mi disse: ‘Ok, proviamo. Ma ricordati che qui al Milan, in quel ruolo hanno giocato grandi campioni. Anche io’. Ci facemmo una risata e andammo a lavorare. Poi, dopo la prima partita al trofeo Berlusconi, Ancelotti mi fece un complimento incredibile. Disse che avevo giocato come un professore: diventai tutto rosso». Ora arrossiscono gli altri, che di Andrea sono avversari o compagni. È imbarazzante, per loro. Imbarazzante marcarlo ogni volta che tu gli vai addosso e lui s’è già liberato del pallone. Imbarazzante pensare che sono in pochi a poter fare quello che fa lui. Tipo il cucchiaio dell’Europeo dell’anno scorso. Tipo Germania-Italia 0-2, a Dortmund, il 4 luglio del 2006. Minuto 118: stop di petto, destro, sinistro, sinistro, tiro, deviato in corner. E subito dopo angolo, respinta, a lui: controllo di sinistro, poi destro, destro, destro, testa alta, gli occhi che guardano a destra e il piede che tocca verso sinistra, primo caso di finta fatta con lo sguardo anziché coi piedi. Mezzo tacco-mezzo interno dentro per Grosso. Quel gol che ha spinto l’Italia in finale è suo quanto del terzino miracolato: Fabio ha calciato quello che Andrea ha inventato. Perché non si spreca nulla quando si passa dalle parti sue. Se lo ricorderanno i compagni, ma difficilmente lo farà la gente che a quelli come Pirlo presta davvero attenzione solo quando mettono la palla a terra prima di una punizione.

Pirlo non è ciò che un bimbo vuol essere quando comincia a giocare, ma è ciò che sogna di essere qualunque giocatore quando sta per finire.

Andrea è diverso. È un talento che non nasce per strada, ma su un campo di calcio. Genio e regolatezza lo abbiamo definito l’anno scorso sul Foglio. Allora abbiamo raccontato quelle stesse giocate, con le stesse parole. Ecco: non ci si stanca di rileggerle, esattamente come non ci si stanca di guardare quelle stesse giocate. Perché sono belle, perché sono semplici. Perché sono semplicemente belle, la fusione delle due cose che però assume un significato maggiore.
Pirlo non è ciò che un bimbo vuol essere quando comincia a giocare, ma è ciò che sogna di essere qualunque giocatore quando sta per finire. È il rimpianto di non poter essere stato come lui. Vuoi uno che si faccia il campo da solo, superi tutti e vada a segnare? Ce ne sono tanti. Vuoi uno che ti controlli un pallone in mezzo al campo e tra cinque uomini? Lo sa fare lui e prima di lui Rivera e Cruyff. Calma e classe. È l’invidia del resto del mondo. L’anno scorso, all’Europeo, i giocatori della Spagna che ci spianò in finale s’inchinarono alla sua grandezza. Piqué, Fabregas, Xavi, Iniesta inondarono Twitter di messaggi tipo: «Un genio». Anche qua poche parole, come pochi sono i tocchi che servono per essere fondamentali. A 34 anni non si cambia solo perché una volta vieni sostituito. Non sei un caso perché a quaranta minuti dalla fine di una partita qualunque esci dal campo. Alla prossima metti una palla a terra, la studi, la colpisci e fai gol. Il tiro non è dei tuoi: centrale, non particolarmente forte, neanche tanto effettato. È una punizione diversa dal solito. È come quella volta che a San Siro sbagliò un passaggio e l’intero stadio si mise ad applaudire perché l’errore era un evento e perché Andrea era tornato umano. La punizione contro il Milan, la prima, è così: un errore da applausi. Imperfetta e vincente. Qualcosa che non gli appartiene, ma che diventa sua.

 

Nella foto, Andrea Pirlo durante la Confederations Cup del 2013. Michael Regan/Getty