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La storia eccezionale di Alexandria Ocasio-Cortez

Qualche buona ragione per vedere Knock Down The House, il documentario Netflix che ha seguito AOC e altre tre candidate alle primarie Democratiche.

Alexandria Ocasio-Cortez si prepara a parlare alla National Action Network, il 5 aprile 2019 a New York (foto di Spencer Platt/Getty Images)

Il documentario di Netflix su Alexandria Ocasio-Cortez non è soltanto un documentario su Alexandria Ocasio-Cortez. Per due ragioni. La prima è che, tecnicamente, non parla soltanto di lei, è la storia di quattro candidate, di cui una soltanto viene eletta. La seconda è che solleva questioni più ampie, dal rinnovamento della sinistra al ruolo delle donne in posizioni di potere, dalla contrapposizione tra popolo ed élite al sistema di finanziamento dei candidati, passando per l’eccezionalismo americano. Tutti lo chiamano “il documentario su Alexandria Ocasio-Cortez”, ma il titolo è Knock Down The House, in italiano Alla conquista del Congresso. Disponibile su Netflix dall’inizio di maggio, era stato presentato al Sundance a gennaio, dove ha vinto due premi. La filmmaker, Rachel Lears, ha seguito quattro candidate underdog alle primarie Democratiche in vista delle elezioni di mezzo termine. Sono Paula Jean Swearengin, mamma single e figlia di un minatore della Virginia, Cori Bush, un’infermiera afroamericana di St Louis, Amy Vilela, una ex CFO di Las Vegas, e appunto Alexandria Ocasio-Cortez (d’ora in avanti AOC), che non ha bisogno di presentazioni: la più giovane donna mai eletta al Congresso, ventinovenne del Bronx socialista, oggi uno dei volti più riconoscibili della politica americana, fino all’altro ieri una sconosciuta che spillava birre in un bar.

Le quattro protagoniste sono accomunate, oltre dall’essere donne e underdog, anche dal fatto di essere state reclutate e sostenute da Brand New Congress e Justice Democrats, due organizzazioni votate a trovare nuovi candidati, più a sinistra rispetto alla vecchia guardia e non legati ai tradizionali sistemi di finanziamento. Tra i loro obiettivi non c’è soltanto spostare a sinistra il baricentro del partito, ma soprattutto cambiare il meccanismo di raccolta fondi: non più soprattutto gruppi di pressione e grandi donatori, ma fundraising dal basso, un metodo, quello delle piccole donazioni, già utilizzato da Obama.

Paula Jean Swearengin, la figlia dei minatori, e Amy Vilela, l’ex donna di affari, sono accomunate anche dall’essere entrate in politica in reazione a un dramma famigliare: la prima ha perso dei parenti per il cancro ai polmoni causato dal lavoro in miniera in una città dove non c’era altro lavoro; Vilela ha perso una figlia che non ha avuto accesso alle cure perché priva di assicurazione; dunque una si batte contro l’influenza dell’industria del carbone in politica, l’altra per la sanità pubblica. Dispiace che queste due storie vadano quasi perse, a parte qualche momento-lacrimuccia. Perché fin da subito è chiaro che AOC è l’unica star. Del resto, lei è l’unica che ce l’ha fatta, e come ce l’ha fatta!, battendo uno degli uomini più potenti della macchina Democratica, Joe Crowley, che era alla Camera dei Rappresentanti dal 1999, quando lei aveva dieci anni. Per uno spettatore non particolarmente innamorato di AOC, ma neanche ostile, l’esperienza di guardare Knock Down The House potrebbe articolarsi nelle seguenti fasi: l’ammirazione sconfinata per quanto preparata e stilosa è questa AOC; il dubbio lancinante che sia soltanto una versione più preparata e stilosa di Luigi Di Maio; la realizzazione, consolante, che per fortuna è qualcosa di molto meglio, anche se qualche punto di contatto c’è.

AOC dice cose come «dicono che fare la cameriera non è un vero lavoro, però quest’esperienza mi ha preparato su molte cose», oppure «non è la sinistra contro la destra, è il basso contro l’alto», e ancora «un distretto working class deve avere un rappresentante working class». Che non è poi così diverso da quello che dicono certi grillini, quando rivendicano l’inesperienza come un valore, oppure che la contrapposizione tra gente ed élite ha sostituito destra e sinistra. Un altro dubbio riguarda la personalizzazione della politica: perché Alexandria Ocasio-Cortez ce l’ha fatta, mentre Paula Jean Swearengin, Amy Vilela e Cori Bush non ce l’hanno fatta? Il sospetto è sia anche un fatto d’immagine: non solo l’aspetto fisico, perché, vabbé, è giovane e carina, buon per lei, ma il punto è che ogni cosa in AOC, il modo di parlare e vestirsi, la cadenza, il rossetto, il bomberino, quell’essere sofisticata e insieme from the block, ogni cosa in lei trasuda coolness, un qualcosa che rimanda a una certa idea di contemporaneità e che, in un posto come New York, deve avere aiutato. Questa marcia in più le altre tre non l’avevano, eppure anche loro erano toste e preparate: forse significa che è la coolness a fare la differenza; o forse significa, come dice qualcuno nel documentario, che «affinché una sola di noi passi, devono provare in cento».

AOC parla con un collega durante il sorteggio per gli uffici del Congresso il 30 novembre 2018 a Washington (foto di Win McNamee/Getty Images)

Insomma, un po’ di populismo, anzi di gentismo, c’è, però c’è anche molto altro. C’è pure un po’ di identity politics, in senso buono, dove l’identità è un mezzo e non il fine: come nota Teen Vogue, il documentario «esplora come delle candidate alle miderm hanno usato l’identity politics per battersi per migliori condizioni materiali nelle loro comunità». E, soprattutto, ci sono differenze con la glorificazione dell’inesperienza cui siamo abituati in Italia. Quando AOC dice che ha imparato molto facendo la cameriera, non intende dire “basta con i plurilaureati”, anche perché lei una laurea ce l’ha; quello che intende dire è che essere stata costretta a fare un lavoro umile per sbarcare il lunario l’ha aiutata a capire quanto possa faticare un americano comune a pagare le bollette, quanto sbagliata sia la retorica dell’indebitamento come irresponsabilità, e comunque questi temi li ha anche studiati, dati alla mano. L’avere lavorato in un bar non è un sostituto alla preparazione culturale, ma uno strumento che si aggiunge ad essa: se avete tempo, leggete questo thread, che rende l’idea. Più in generale, l’impressione è che la pars construens sia dominante rispetto alla pars destruens, e scusate se è poco.

Infine, c’è qualcosa che ispira nell’Ocasio-Cortez raccontata da Knock Down The House, la convinzione, granitica e quasi naif, che le cose possono davvero cambiare se ti batti al tuo meglio, se non ti dai per vinto davanti alla prima sconfitta, e come questa visione accompagni la consapevolezza, tutt’altro che naif, di quanto male siano messe le cose. E allora viene da pensare che in effetti c’è qualcosa di eccezionale nell’America, qualcosa di difficilmente replicabile in Europa e che consiste non nell’essere “meglio” o “peggio”, ma nella possibilità di cambiare le cose, anche radicalmente, senza cedere alla tentazione di sfasciarle.