Cultura | Dal numero

Alessandro Di Pietro, ritratto d’artista con mostri

Tra una mostra a New York e una in Svizzera, l’artista classe 1987 ci ha accolto nel suo studio di Milano dove abbiamo parlato del suo lavoro, dell’importanza di lasciarsi influenzare dagli altri e dell’arte come unione di forze.

di Clara Mazzoleni

«Non so rispondere a questa domanda», dice Alessandro sorridendo, senza alcuna esitazione, se gli chiedi come e quando ha capito che “da grande” avrebbe fatto l’artista. Perché, come ripete spesso quando parla del suo lavoro e dell’arte in generale, certe cose non si possono spiegare a parole. Nato a Messina nel 1987 ma cresciuto a Como, Alessandro Di Pietro crea le sue opere utilizzando materiali e tecniche diverse, mescolando l’installazione, il video, la progettazione di ambienti, il disegno, la scrittura, mixando riferimenti al mondo del cinema, della letteratura, ma anche dei videogiochi e dei fumetti, costruendo dei “mostri”, come li chiama lui, che sembrano provenire da un futuro che ci raggiunge in forma di reperto, come se le sue opere fossero tracce di un passato non ancora avvenuto. In questo spazio/tempo inventato, l’artista si aggira come un documentarista disonesto, creando atmosfere artificiali, ricordi di eventi mai avvenuti e storie mai raccontate.

Opere come “Tomb Writer (solve et coagula)” (2016), “Downgrade Vampire” Towards Orion – Stories from the backseat” (2017) e “Felix” (2018), ad esempio, compongono una misteriosa quadrilogia, in cui sono gli ambienti espositivi e le sculture a evocare le presenze, funzionando come sceneggiature e scenografie prive di personaggi. La serie “Vampirelli” (2021) è composta dai ritratti mostrificati dei suoi amici: teste che però ci danno le spalle, possiamo soltanto intuirne i lineamenti deformati. Il suo percorso artistico recente mescola presenza e assenza, familiarità e distacco, come nell’opera “Ghost Writing  – Paul Thek Time Capsule and Reliquaries”, completamente dedicata a un altro artista (di questo e altri progetti ha parlato anche nella cover story del numero autunnale di Flash Art, “Enjoy All Monsters”). Morto di Aids nel 1988, Paul Thek è stato pittore, scultore e autore di ambienti e installazioni su larga scala. Tra le sue opere più significative ci sono le “Technological Reliquaries”, prodotte tra il 1964 e il 1967: in pratica delle “auto-reliquie”, cioè calchi in gesso e cera di parti del suo corpo (faccia, braccia, gambe) racchiuse in vetrine, tra estetica minimalista e catholic-core. Un progetto che si conclude nella definitiva “The Tomb (Death of a Hippie)” (1967), in cui Thek riproduce tutto il suo corpo, o meglio, “il suo cadavere”, in scala 1:1, rappresentandosi come un hippie, con la bocca aperta e la lingua blu, due medaglioni psichedelici sulle guance e le dita della mano sinistra amputate e disseminate in giro per il corpo.

L’opera, però, non esiste più: sappiamo com’era solo grazie alle foto di Peter Hujar (il fotografo morto anche lui di Aids, nel 1987). Di Pietro decide di riportare in vita il fantasma dell’opera di Thek: “Race of a Hippie” (2020), realizzato con il collettivo No Text Azienda nella forma di un found footage, è un video-documento sull’apparizione dell’artista (così come appare nell’opera, con la lingua blu e tutto il resto) in un bosco. C’è la letteratura, perché chi l’ha letto penserà ad Aliens & Anorexia, in cui Chris Kraus parla (anche) dell’opera di Thek ma ci sono anche i video di Mtv mescolati al cinema (l’inizio di Last Days di Gus Van Sant). E ci sono tutti i ruoli dell’artista, che allora è anche regista, biografo, ghost-writer artistico, inventore e creatore di fantasmi e spazi infestati. Quando siamo andati a trovare Alessandro di Pietro nel suo studio, però, abbiamo parlato di cose pratiche e reali: la quotidianità del suo lavoro, la città dove ha scelto di vivere, il piacere di lavorare con gli altri artisti.

ⓢ Chi sono i tuoi preferiti oltre a Paul Thek?
Mike Kelley, Rochelle Feinstein e Liliana Moro.

Il progetto su Paul Thek (supportato dall’undicesima edizione dell’Italian Council, un bando della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, 2022) è stato protagonista di una mostra al The Watermill Center di New York, ora va al CAN Centre d’art di Neuchâtel, in Svizzera, poi torna a Brescia a Palazzo Monti, a Torino uno screening alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, a Roma alla Fondazione Nicola Del Roscio, e infine verrà acquisito dal Madre di Napoli. Noi invece ci siamo incontrati a Milano, dove vivi e lavori. Perché hai scelto questa città?
A Milano ci vengo da quando ho iniziato a bigiare all’Istituto d’Arte per comprare vestiti brutti e vedere le mostre e il teatro al CRT. Poi nel 2007 mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Brera e dal 2010 ci abito, quindi più o meno sono sempre stato qua: non avevo soldi per andarmene, son rimasto (ride), ma senza troppo sacrificio, in fondo a me piace vivere qui. In futuro si vedrà.

ⓢ Il lavoro dell’artista è un lavoro rischioso e, almeno all’inizio, privo di certezze (soprattutto economiche). Come hai gestito lo stress nei primi anni della tua carriera?
Io mi sono formato nel 2008, in un contesto artistico senza soldi. Ma non volevo che fosse la scusa per non fare ciò che volevo, anzi. Lo stress è una costante per me pressoché impossibile da arginare, quindi tanto vale cercare dei modi per utilizzarlo.

ⓢ Vedi il lavoro dell’artista come uno sforzo solitario o come un’unione di forze?
Ho iniziato lavorando da solo ma negli anni ho capito che unire le forze mi piace molto. Dai video, alle performance, alla produzione tecnica di una scultura, è sempre uno sforzo collettivo. Amo l’idea di avere un ruolo registico ma per esempio, riguardo il progetto su Thek non avrei potuto far molto senza Ginevra D’Oria , Paola Clerico, Cornelia Mattiacci, Edoardo Monti, Peter Benson Miller, i No Text Azienda per non parlare di tutte le maestranze tecniche come per esempio Patrick Vaghi della fonderia dove realizzo i bronzi o Anna Grassi e il team di GR10K che mi aiutano sempre con i tessuti. Gli studi di architettura Armature Globale e KärlandrÆ. Milano è sempre stata individualista ma negli ultimi 10 anni la scena si è molto condensata. Mi capita spesso di parlare della vita e di arte coi miei “colleghi” e con le mie amiche e i miei amici, ma anche di collaborarci come nel progetto performativo “Mostri contro Fantasmi” con Enrico Boccioletti nel 2018.

ⓢ Da cosa prendi ispirazione per le tue opere?
Ispirazione non mi piace come parola… la mia ricerca è informata, diciamo così, da diverse discipline come il cinema, bello e brutto, i fumetti di Daniel Clowes, un certo tipo di letteratura americana tipo Chris Kraus ma anche Dodie Bellamy, i Sonic Youth e i Placebo, un po’ anche la moda. Ma soprattutto l’arte stessa, questa è l’influenza più importante in realtà. Nonostante sia legata a doppio nodo con il dibattito sulle tematiche contemporanee, l’Arte rivendica sempre la sua autonoma linguistica. Anche l’artista, nonostante sia immerso nello Zeitgeist particolare di un’epoca, ha sempre la libertà di aderire o resistere al suo contesto storico, culturale e politico.

ⓢ Quanto è importante, soprattutto per un giovane artista, riuscire a mantenersi fedeli a se stessi e sviluppare il proprio tipo di arte senza farsi influenzare dagli altri?
Penso che in realtà sia importantissimo farsi influenzare dagli altri. Non credo sia possibile evitarlo. Però esiste un nucleo imprescindibile dal quale appena ci si discosta ci si sente male: una sensazione che è difficile tradurre a parole (ma ognuno di noi sa di cosa stiamo parlando) che ti ricorda che sei un po’ lontano da quello che dovresti fare, che dovresti essere. Il tuo senso critico è sempre sociale, ed è quello che hai imparato, da qualcun altro che hai amato quanto odiato, ed è ciò che ti rende unico e collettivo allo stesso tempo,  proprio perché, se lo tieni a mente, qualche altra persona te lo ha dimostrato.

ⓢ Cosa accomuna i materiali che scegli per costruire le tue opere? Sembrano accomunati da una certa “durezza” e trasmettono sensazioni un po’ sinistre, perturbanti.
Sono sempre stato un grande fan dei materiali asciutti, infatti l’unica tecnica in cui si impiega il colore che utilizzo sono le matite (colorate) , quindi niente che abbia a che fare con l’acqua. I materiali che scelgo per la scultura sono sempre materiali arsi, disidratati. Poi mi piace quando qualcosa può essere un materiale di uso comune, come un tessuto riflettente un laminato che si usa per una scrivania, o anche un materiale classico come il bronzo, insomma materiali che mantengano la loro familiarità con lo spettatore, però allo stesso tempo, per il modo in cui sono utilizzati, diano l’idea di qualcosa di anomalo, che sembra un ready-made ma non lo è. Qualcosa di mostruoso che non si riesce a decifrare completamente. E quando parlo di mostri non intendo strettamente in senso ottocentesco, mi interessano di più i mostri del nostro tempo, tipo noi.

Fotografie di Claudia Ferri
Con il sostegno di Dr. Martens