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La storia infinita dell’indignazione dell’Italia sulla sua cucina

Un’intervista del Financial Times allo storico Alberto Grandi in cui si confutano alcuni falsi miti della tradizione italiana ha generato le solite prevedibili polemiche.

di Davide Coppo

La tradizione più radicata d’Italia è da sempre quella di offendersi. Il tema preferito sul quale offendersi è, naturalmente, la cucina. Per colpa o merito di questa reattività siamo diventati anche un meme, ci sono pagine che catalogano e analizzano questi scatti pavloviani. Una pagina Facebook ma anche Instagram e Twitter li raccoglie puntualmente. Si chiama: Italians Mad at Food. Fa molto ridere. Fa anche un po’ piangere.

Il 23 marzo il Financial Times ha pubblicato una lunga intervista con lo storico dell’alimentazione Alberto Grandi, autore del libro e dell’omonimo podcast DOI: Denominazione di Origine Inventata. Nell’articolo Grandi va all’origine di diverse ricette dela tradizione culinaria italiana: la carbonara, la pizza, il Parmigiano. È un viaggio interessante e soprattutto curioso, fatto con leggerezza e senza ideologia, anche se Grandi parla di cibo seguendo le orme di Hobsbawm, storico di formazione marxista. I giornali italiani si sono accorti dell’articolo, si sono fregati le mani intuendo il potenziale di indignazione che avrebbe suscitato, ne hanno storpiato il senso e l’hanno rilanciato. Repubblica titola: “Il Financial Times contro la cucina italiana”. Coldiretti fa meglio ancora: “Attacco ai simboli della tradizione italiana”.

Non c’è niente, nell’articolo firmato da Marianna Giusti, che Alberto Grandi non avesse già detto o scritto da anni. Non c’è niente, nemmeno, di scandaloso. Lo storico si limita a raccontare che la carbonara, intesa come intuizione primigenia di unione tra maiale, uovo e formaggio stagionato, nasce negli anni del Dopoguerra, in un reggimento di soldati americani. Che il panettone come oggi lo conosciamo è una recente invenzione industriale, e che “l’artigianalizzazione” è un processo arrivato solo successivamente. Che il Parmigiano Reggiano, poco meno di un secolo fa, era poco stagionato e molto più leggero di quello di oggi, e che quel tipo di lavorazione si è mantenuto ancora così in una particolare provincia del Wisconsin, dove si stabilirono  nei primi mesi del Novecento alcuni emigranti parmigiani nei primi mesi del Novecento, e dove la ricetta non si evolvette come invece in Emilia. Un po’ come il portoghese di Capo Verde è rimasto più simile al portoghese del 1700 rispetto a quello europeo, che ha seguito strade diverse nell’evoluzione.

Coldiretti scrive, per la precisione: «Sulla base di fantasiose ricostruzioni si contestano le tradizioni culinarie nazionali più radicate. In sostanza la carbonara l’avrebbero inventata gli americani e il panettone ed il tiramisù sono prodotti commerciali recenti ma soprattutto si arriva addirittura ad ipotizzare che il parmigiano reggiano originale sia quello che viene prodotto nel Wisconsin in Usa, la patria dei falsi formaggi made in Italy». Non va nel merito, insomma: si offende. Anzi, si indigna. Mi ha ricordato una puntata di Porta a Porta sulle foibe, nel 2012. In quell’occasione Vespa mostrò sul maxischermo la foto di un plotone di esecuzione intento a fucilare cinque uomini di spalle, e sostenne che fossero italiani giustiziati da soldati jugoslavi. Un’ospite esperta del tema, la ricercatrice Alessandra Kersevan, specificò invece che conosceva quella foto, e che quella ritraeva, al contrario, soldati italiani pronti per ammazzare prigionieri sloveni. Bruno Vespa impazzì di indignazione, e accusò la professoressa di negazionismo, di tradimento patrio, e così via. Aveva ragione lei.

Per riassumere molto, la ricerca sulla storia culinaria italiana di Alberto Grandi gira intorno a un evento storico preciso: la fine della Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento il benessere che arriva sull’Italia stravolge completamente le abitudini alimentari di un popolo fino ad allora estremamente povero. Arriva “per tutti” la possibilità di sedersi davanti a un primo, un secondo e un contorno. Si codifica anche popolarmente il momento del pranzo e quello della cena. Racconta Grandi, tra le altre cose curiose, che il prosciutto crudo era meno pregiato, decenni fa, della mortadella, con l’esotico e costoso pistacchio incastonato. Che la pizza ha origini mediterranee e parentele d’altra parte strettissime con diversi panificati mediorientali e balcanici. Il pomodoro di Pachino non è un’antichissima varietà siciliana, ma un ibrido creato nel 1989 dalla multinazionale israeliana HaZera Genetics. E così via. È un’enciclopedia di bizzarrie e “strano-ma-vero”, da ascoltare a bocca aperta e pieni di meraviglia. Invece no.

Alberto Grandi, come detto, è un devoto di Eric Hobsbawm, lo storico che scrisse il libro L’invenzione della tradizione. È un saggio del 1983, considerato un classico della sociologia e dell’antropologia, che testimonia come le tradizioni siano spesso elaborazioni non veritiere di pratiche o rituali antichissimi. Non c’è niente di male, in questo, in linea teorica: sono reazioni “naturali” di tutte le società umane per creare coesione sociale, identità e appartenenza. Sì, hanno prodotto talvolta effetti mostruosi, e talvolta no. L’invenzione della tradizione culinaria italiana, arrivata nel Dopoguerra per cementificare l’identità di un popolo che non era mai stato davvero unito in passato, ha creato una certa coesione sociale, e una permalosità unica nel mondo.

Per rimanere in tema di Seconda guerra mondiale, mi è tornata in mente una delle scene più celebri del libro La pelle di Curzio Malaparte. Si tratta di un grande banchetto che Malaparte offre, a Napoli, a certi soldati e altri ospiti americani influenti. Nel particolare e sarcasticissimo realismo magico malapartiano, al pranzo “in stile rinascimentale” ordinato da Mrs Flat, Generale in capo della Wacs della V Armata americana, viene servito un pesce che assomiglia in tutto e per tutto a una sirena. L’ospite d’onore è scandalizzata: così antropomorfa è la creatura bollita che Mrs Flat ordina di seppellirla immediatamente, con tutti i crismi cristiani. Malaparte, caustico, pensa: se Mrs Flat si commuove così per un pesce, forse riuscirà a provare qualche pietà per le sofferenze del popolo italiano. Ecco cosa ce ne facciamo, di tutta questa tradizione culinaria: ci facciamo ribollire il sangue, e gridiamo all’ingiustizia, all’invasione, al martirio. Chissà se, a differenza di Mrs Flat, riusciremo mai a guardare oltre la forma di un pesce.