After the Hunt di Luca Guadagnino è come una lunghissima conversazione che non porta a nulla

Il suo nuovo film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e nelle sale dal 16 ottobre, è la sua opera più politica. Oltre che quella meno riuscita.

22 Ottobre 2025

La rilevanza è una questione di tempismo, dire una cosa, qualsiasi cosa, al momento giusto conta molto di più che dire la cosa giusta. È per questo che in quest’epoca è così difficile conservarla, la rilevanza: è impossibile tenere il tempo sempre e per sempre, prima o poi arriva per tutti il momento in cui ci si scopre fermi a un punto mentre il mondo se ne è andato avanti. Se da questa definizione di rilevanza se ne trae una uguale e contraria di irrilevanza, allora After the Hunt di Luca Guadagnino è uno dei film più irrilevanti usciti negli anni Venti. Fosse uscito nel 2006, all’inizio del movimento MeToo. Fosse uscito nel 2016, dieci anni dopo l’inizio del movimento MeToo. Fosse uscito prima della seconda venuta di Donald Trump. Fosse uscito in uno di questi momenti, o in uno qualsiasi dei momenti in mezzo, After the Hunt almeno avrebbe potuto giustificarsi, quantomeno avrebbe avuto una scusa: sto partecipando alla discussione che stanno facendo tutti, anche se non ho niente di interessante né di intelligente da dire.

Parole, parole, parole

Durante la conferenza stampa di presentazione di After the Hunt alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, una stizzita Julia Roberts aveva risposto ai critici, tanti, del film sostenendo che «l’umanità sta dimenticando l’arte della conversazione». Uno dei più gravi problemi di After the Hunt, se non il più grave, è proprio questo: la convinzione di essere la soluzione a un problema, la certezza che quello che dovremmo fare in questo momento storico per risolvere i guai è discutere, discutere di più, discutere ancora, discutere sempre, discutere tutti, come se il mondo non stesse finendo schiacciato sotto il peso della discussione che non finisce mai. Proprio come fanno i protagonisti di questa storia, intrappolati in una chiacchierata infinita, evidentemente intontiti dal ronzio della loro stessa voce, rumore dal quale è impossibile estrarre qualsiasi segnale.

È stupefacente constatare la quantità di parole che in After the Hunt vengono impiegate per dire nulla o quasi, per dire che c’era una volta a Yale un professore di filosofia (Hank, interpretato da Andrew Garfield) che viene accusato di molestie sessuali da una studentessa (Maggie, interpretata da Ayo Edebiri); che questa storia diventa inevitabilmente una di he said she said, la parola di lei contro quella di lui; che dovremmo essere tutti garantisti, perché si crede alla verità e non alle sorelle; che non dovremmo fare come l’altra professoressa di filosofia protagonista di questa storia (Alma, interpretata da Julia Roberts), che si sforza di credere a lei più che a lui, e che finisce infilzata dalla stessa spada che ha trafitto il collega. Una delle storie più vecchie del mondo, ormai, come la morale squisitamente Gen X Twitter che Guadagnino ne trae: nessuno ha ragione, tutti facciamo schifo (a questo ammontano gli archi narrativi di tutti e tre i protagonisti, a giungere alla conclusione di far schifo e ad acquisire la capacità di intellettualizzare anche questo), è sempre stato così, non rompete troppo i coglioni, soprattutto voi ragazzini «che avete avuto tutto», sostiene il dimenticabilissimo personaggio interpretato da Chloe Sevigny. Una discussione trita e ritrita, e qui tritata veramente finissima, quasi polverizzata, tanto che è difficile trattenerne anche solo una traccia nella mente.

Un giorno discuteremo di questo desiderio, un po’ patetico, un po’ patologico, della Gen X di ritrarsi come una sorta di Greatest Generation forgiata nel fuoco di indicibili peripezie collettive (la morte di Kurt Cobain, forse?), in contrasto soprattutto a una Gen Z alla quale, appunto, il mondo avrebbe dato tutto (cosa, esattamente? La fine di se stesso?). Ma non è questo il giorno.

Tre personaggi in cerca d’autore

Guadagnino ha raccontato che una delle cose più interessanti che si è sentito dire su After the Hunt è che il vero protagonista del film è Frederik, il marito sottomesso e servile di Alma, interpretato da un brillantissimo Michael Stuhlbarg. Chiunque abbia detto questa cosa a Guadagnino, ha perfettamente ragione. Magari Frederik non sarà il protagonista del film da un punto di vista drammaturgico – anche se sono sue le scene davvero memorabili, rese tali anche dagli impeccabili gusti musicali del personaggio, autore di una playlist che spero venga prestissimo pubblicata – ma lo è certamente da quello emotivo, vero e unico surrogato in cui lo spettatore può sciogliere la rabbia e la frustrazione e l’esasperazione accumulata contro i tre insopportabili, veri protagonisti di After the Hunt.

La cosa che Frederik fa più spesso nel corso del film è rifiutare la discussione (l’unica trovata davvero brillante, autenticamente alleniana, della sceneggiatrice Nora Garrett è questa, inventarsi un analista che rifugge la discussione), abbandonare la conversazione all’ennesima citazione ingiustificata di Foucalt o Agamben, aprire e chiudere le porte rumorosamente per sabotare i discorsi altrui, mettere la musica a volume altissimo per ostacolare il piacere che gli altri tre evidentemente ricavano dal suono della loro stessa voce. Frederik è ammirevole per questo e anche per un altro motivo: è l’unico personaggio del film capace di provare dei sentimenti – perché ama Alma che si rifiuta di far sesso con lui e lo costringe a servirle fredde delle leccornie da lui cucinate che andrebbero mangiate calde? – l’unico dotato di un’interiorità, di un monologo interiore misterioso e incomunicabile al prossimo e inesprimibile a parole, un commovente controaltare all’invadente e perpetua e petulante autoesposizione degli altri.

Chi c’è al potere adesso

Guadagnino ha detto in più e più occasioni che After the Hunt non è un film sul MeToo ma è un film politico, che il suo messaggio si legge nel finale in cui il potere viene concesso (restituito, sarebbe più corretto dire) a chi non dovrebbe maneggiarlo mai (più). Proprio come sta succedendo nel mondo vero, sostiene Guadagnino: «Guardate chi c’è al potere adesso», ha detto in un’intervista concessa a Vanity Fair, facendo ovvi riferimenti. Viene da chiedersi, allora, perché non abbia fatto un film su questo, Guadagnino, su chi è al potere adesso, su quello che sta succedendo ora, se è di questo che voleva davvero parlare. Viene da chiedersi perché fare un film sul MeToo (una discussione che, adesso possiamo ammetterlo, è diventata quasi subito molto meno interessante e molto meno rilevante del “movimento” che l’ha generata, tendenza di cui questo film è l’ennesima conferma) per poi rinnegarlo, aspettandosi che chi lo guarda capisca che il senso di tutto sta in quei cinque minuti finali – o pre finali – e non nelle quasi due ore e mezza che li precedono.

Ma non mi stupisce che Guadagnino abbia questa pretesa, in fondo riflessa in tutte le conversazioni di questo film che vorrebbe essere sull’arte della conversazione o, forse, proprio arte della conversazione: non ce n’è una di quelle, numerosissime, in cui i personaggi si avventurano che non potrebbe essere ridotta di almeno il 99 per cento della durata. Una lunghezza effettiva ulteriormente aggravata da una pigrizia registica mai vista in nessuno dei precedenti film di Guadagnino, qui convinto che bastino i primi piani sui volti ad accrescere l’intensità, le inquadrature strette sulle mani a costruire la tensione, i fiati della colonna sonora piazzati un po’ a casaccio, qua e là, per far entrare aria di thriller (prima o poi Guadagnino dovrà iniziare a preoccuparsi del fatto che la cosa più commentata della sua messa in scena stanno diventando i costumi, qui soprattutto Celine e Toteme scelti da Giulia Piersanti).

Ma bisogna anche ammettere che, una volta che si accetta il consiglio del regista in fatto di interpretazione del suo film e si inizia a lavorare al “restringimento” dello stesso, After the Hunt diventa facilissimo da raccontare e da spiegare. Delle quasi due ore e mezza, ho trovato due battute che bastano a dire tutto quello che c’è da dire di questo film. Una la pronuncia la Maggie di Ayo Edebiri, durante un bisticcio con l’Alma di Julia Roberts: di fronte alla patologica intellettualizzazione di qualsiasi cosa operata da quest’ultima, Maggie sbotta dicendo «possiamo smetterla di essere sempre così intelligenti per un cazzo di minuto?!». E l’altra, invece, la pronuncia Alma, commentando la disgrazia in cui è incappato il già ex collega, a quel punto, Hank: «È tutto così disperatamente banale».

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