Attualità

Affittasi Honduras

Uno stato dell'America Centrale sta pensando di affittare parti del suo territorio a entità straniere per rilanciare l'economia e tenere sotto controllo il crimine. Un geniale caso di economia creativa o un ritorno all'epoca coloniale?

Anno: 2009. Luogo: una conferenza del TED a Oxford, Inghilterra. Sul palco del più celebre evento di divulgazione al mondo sale Paul Romer: 54 anni, economista all’epoca di stanza a Stanford (oggi alla New York University). Quel giorno, lubrificata da quel mix di maieutica e umorismo tra eletti tipico dei TED Talk, Romer introduce all’auditorium un’idea che ovunque, fuori dal contesto del TED, sembrerebbe una provocazione ma che, nel contesto per l’appunto del TED, suona invece come una soluzione. L’idea è questa: dal momento che molti paesi in via di sviluppo sono affetti da problemi strutturali, instabilità, violenza e corruzione, perché – si e ci domanda retoricamente Romer – non “affittare”, a tempo determinato, la sovranità su porzioni territoriali di quei paesi a entità esterne, “garanti” della costituzione di aree d’investimento e di business (lui le chiama charter cities) ben amministrate e libere dalle piaghe sistemiche di cui sopra?

Segue coro di “già, perché no?” dalla platea.

Romer non è l’ultimo arrivato, peraltro. È sia l’autore di una serie di paper che hanno rivoluzionato il modo di pensare la crescita economica sia uno dei primi imprenditori a investire nell’e-learning (nel 2001 con Aplia, una società dalla cui vendita ha ricavato abbastanza da non dover più lavorare per vivere). Non uno che se ne sta con le mani in mano, insomma. E infatti Paul è subito andato in cerca di un’occasione per passare dalla teoria alla pratica. Il che equivale a dire: di un paese-cavia su cui testare l’efficacia della sua cura.

Dopo un promettente ma poi sfumato abboccamento con il governo del Madagascar, di recente l’idea di Romer è approdata sulle coste della repubblica più povera, instabile e violenta (70 omicidi ogni 100.000 abitanti) di tutte le Americhe: l’Honduras. È lì che, dall’inizio del 2011, il governo locale, presieduto prima dal golpista Porfirio Lobo Sosa e poi da Juan Orlando Hernandez, sta pensando di costituire delle “Zonas de Empleyo e Desarrolo Economico” (zone di impiego e sviluppo economico). Acronimo: ZEDE.

L’idea alla base delle ZEDE è semplice: assegnare aree del paese fortemente sottosviluppate a enti esteri che provvedano, con investimenti, al loro rilancio traendone come benefici fiscalità agevolata e posizioni strategiche per i loro affari.

L’idea alla base delle ZEDE è fedele alle linee guida teoriche di Romer: assegnare aree del paese fortemente sottosviluppate a enti esteri che provvedano al loro rilancio, traendo come benefici fiscalità agevolata e posizioni strategiche per i loro affari e restituendo in cambio opportunità d’impiego e di benessere per la popolazione. Oltre all’usufrutto del territorio, tra le prerogative concesse agli enti esteri eventualmente interessati (si parla molto di KOICA, l’agenzia per la cooperazione internazionel del governo Coreano), ci sarebbe anche la facoltà di dettare e fare rispettare le regole sul territorio, sostituendosi dunque quasi interamente allo Stato Honduregno sia per l’attività legislativa sia per quella coercitiva. In breve: leggi speciali e polizia privata. A fronte di tutte queste concessioni, la principale, se non unica, condizione posta dal governo locale agli investitori sarebbe di utilizzare manodopera locale per il 90% della forza lavoro oltre che, ovviamente, di restituire l’area dopo il tempo pattuito.

Dopo essere inciampate su alcuni intralci costituzionali, le ZEDE in Honduras sono attualmente allo stato di work-in-progress. Negli ultimi mesi però l’intero programma ha subito un’accelerazione e, secondo fonti del governo locale, la prima potrebbe vedere la luce entro il decennio. E in effetti KOICA sta già conducendo uno studio di fattibilità per costruire una charter city a Valle, un piccolo e spopolato dipartimento a sud-ovest del paese, anche se al momento manca ancora un vero e proprio progetto che dia un volto all’idea. Quelle che non mancano sono invece le perplessità da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale.

Dopo essere andato a cercare i nomi dei sostenitori stranieri delle ZEDE, nonché di quelli che dovrebbero essere i garanti della trasparenza dell’intera operazione, Fernando Garcia, un economista di Tegucicalpa, la capitale del paese, ha espresso i suoi dubbi a Foreign Policy. Si aspettava di trovare i nomi di «persone di grande prestigio e rilevanza internazionale» e invece ha scoperto che questi garanti sono, perlopiù, iperliberisti di varie estrazioni e provenienze: crociati del movimento antitasse americano, dichiarati anarco-capitalisti europei e persino un membro della casa degli Asburgo.

Non proprio il genere di compagnia a cui si affiderebbero le chiavi di casa propria a cuor leggero. Il che ha fatto venire a qualcuno il sospetto che, alla fine dei conti, gli unici beneficiari delle eventuali ZEDE sarebbero gli investitori esteri e non certo le popolazioni locali. Anche Russel Shepak e Rosemary Joyce (co-curatori del blog “Honduras culture and politics“) hanno confidato, sempre a Foreign Policy, le loro riserve in merito alla gestione della vicenda; dato che, almeno per come sono state presentate le cose finora, pare proprio che gli investitori esteri potranno «stabilire qualunque regolamento che i vertici ritengano giusto senza doverlo sottoporre ad alcuna forma di approvazione popolare». E persino lo stesso Romer è intervenuto, per dirsi preoccupato di come l’ampia concessione a entità stranieri di poteri propri dello Stato stia «avvenendo senza sufficiente dibattito» tra il governo dell’Honduras e i critici delle ZEDE. In fondo, a ben vedere, al cuore dell’intera questione sembra esserci il classico paradosso di Giovenale, e ovvero: se tra i principali problemi dell’Honduras si contano la corruzione, il crimine organizzato e la cattiva politica, chi o cosa garantisce che corruzione, crimine organizzato e cattiva politica non inquinino a monte – cioè ben prima che esse passino di mano alle famigerate entità straniere – anche la gestione e l’assegnazione delle future, eventuali ZEDE?

Al cuore dell’intera questione sembra esserci il paradosso di Giovenale, e ovvero: se tra i principali problemi dell’Honduras si contano la corruzione la cattiva politica, chi o cosa garantisce che queste non inquinino a monte anche la gestione delle ZEDE?

Oltre a queste perplessità, contingenti al modo in cui si sta cercando di realizzarle in Honduras, il modello delle charter cities se ne è attirato numerose altre. Tra cui, pressoché dall’inizio, quella di essere una forma di neo-colonialismo mascherata da cooperazione. Una critica a cui peraltro Romer sembrerebbe ideologicamente immune dato che, a quanto riporta un pezzo dell’Atlantic, è il primo a usare un pezzo di storia coloniale per corrobare le sue teorie: nello specifico il caso del “prestito” forzoso di Hong-Kong agli inglesi e come esso abbia aperto la strada al libero mercato in Cina, ispirando la costituzione della prima Zona Economica Speciale, a fine anni ’70, a Shenzhen.

Ma, anche mettendo tra parentesi il dibattito sul carattere neo-coloniale delle charter cities, una piccola provincia dell’Honduras non è Hong-Kong e l’America Centrale non è la Cina. Secondo alcuni critici locali dell’iniziativa, ammesso che le ZEDE non siano solo una copertura per aumentare i profitti dei loro investitori, la percentuale di popolazione coinvolta sarà ben al di sotto del 90% pattuito e, in ogni caso, sarà quasi interamente occupata in attività di semplice manovalanza. Al momento infatti il tessuto sociale esistente offre troppo poco in termini di personale qualificato e non è ancora del tutto chiaro se, tra i diritti/doveri dei finanziatori della ZEDE, ci sarà anche quello di alzare il livello dell’istruzione locale, presupposto indispensabile per un reale beneficio a lungo termine.

A fronte di vantaggi per ora incerti e nebulosi, accettare o meno l’azzardo di una (o più) charter city sembra insomma un dilemma di difficile soluzione per l’Honduras. D’altra parte però, rivendicano i sostenitori locali della proposta, la situazione del paese è critica a tal punto, e il degrado così apparentemente inarrestabile, da richiedere misure drastiche, anche se sperimentali e potenzialmente velenose. Ragioni, queste ultime, per cui quanri si sono opposti alle ZEDE, senza proporre alternative percorribili, sono stati finora più o meno facilmente liquidati come critici sterili, difensori di uno status-quo rovinoso, tristemente sintetizzato dalle parole dell’economista Fernando Garcia: «Quando uno stato dichiara di aver bisogno di un’autorità speciale per legislare, di una polizia speciale per perseguire il crimine, non ammette solo di essere uno stato degradato, ma uno stato fallito».
 

Tutte le immagini della gallery sono tratte da “Violence and Grief Define Life In Honduran Capital” (Spencer Platt/Getty Images).