Citando Pasolini e guardando a quello che succede nel mondo fuori, alla fashion week di Parigi Michele ha regalato uno degli spettacoli più emozionanti visti sulle passerelle negli ultimi anni.
Quando si conobbero, poco prima del 1910, Arthur “Boy” Capel era un ex giocatore di polo e industriale del carbone. Gabrielle Chanel era una 26enne che aveva iniziato a produrre cappelli per le signore della buona società parigina. In quella ragazza smilza, dai capelli corti, che sapeva andare a cavallo come il peggior maschiaccio e con opinioni su qualunque argomento dello scibile, Boy vide già il futuro, un futuro nel quale le donne si erano liberate dalle palandrane alle quali erano costrette e decise di finanziare l’apertura della prima boutique Chanel, quella che ancora oggi risiede in Rue Cambon a Parigi. Con Boy – al quale poi fu dedicato l’omonimo profumo della maison – Coco Chanel visse una storia d’amore assoluta, anche se ben più complessa di come la racconta chi vuol ridurre Coco Chanel a un’eroina da romanzo rosa.
I due condividevano interessi e passioni, uno su tutti quello sulla numerologia: da lì arriva, probabilmente, la scelta di attribuire ai profumi numeri, invece che nomi soffusi di romanticismo dolciastro, com’era in voga all’epoca. La loro relazione durò anni e poi proseguì anche quando Capel si fidanzò (per obbligo o per opportunità) con una donna del suo ceto sociale, l’aristocratica Diana Lister Wyndham, dalla quale ebbe due figlie. Non era una relazione ordinaria, o strettamente monogama, e si concluse con la morte di lui, in un incidente stradale, nel 1919. E però fu senza dubbio Capel a ispirare Chanel molto quando iniziò a disegnare un guardaroba per le donne, prendendolo a prestito da quello ben più pratico, degli uomini. È il caso dei blazer chiaramente ispirati a quelli maschili e sportivi che sfoggiava Boy, che era sempre rimasto, nel guardaroba, l’ex ragazzo prodigio del polo anche quando era divenuto stimato industriale.
E Coco Chanel i vestiti di Boy li indossava spesso: tra i suoi capi preferiti, tra quelli che prendeva in prestito da lui, c’era una camicia. Ed è da questa camicia con il nome ricamato sul lato – realizzata in collaborazione con Charvet, che aveva prodotto il modello originale di Capel – che parte Matthieu Blazy nella sua esplorazione dell’universo di Coco Chanel. Un’archeologia romantica – e un po’ romanzata, considerando il rapporto amoroso reale, ben più complesso – che però ha il coraggio di rivoluzionare una maison che negli anni era rimasta troppo simile a se stessa, senza registrare mai il cambio dei tempi.
Dopo l’infusione di pop culture di decenni di Karl Lagerfeld, che ha studiato a menadito la grammatica di Chanel e ha selezionato quanto poteva risuonare maggiormente agli occhi dei compratori – le camelie, il bouclé – ci sono stati gli anni di Virginie Viard, che ha raccolto quell’eredità senza aggiungervi molto del suo.
Reinventare Chanel
Ieri sera, all’interno di un Grand Palais decorato da globi che ricordavano le costellazioni, Blazy ha fatto sapere al mondo che lui intende seguire una strada molto diversa. Re-immaginarsi l’universo di Chanel vuol dire rischiare tutto, come lui stesso ha affermato in un’intervista a Business of Fashion, al quale ha detto: «Potevo decidere di realizzare una collezione da manuale, che raccontasse una versione moderna, pulita, di Chanel. O realizzare questa sfilata come se fosse l’ultima. Io ho scelto la seconda opzione». E in effetti alcuni classici canoni di Chanel sono qui dissacrati, per tornare a essere moderni: le gonne si portano sopra il ginocchio (Coco detestava quella parte anatomica in senso generale, e tendeva a coprirla); i blazer in tweed cambiano volumi, diventando crop; c’è di certo l’attitudine sportiva e pratica sinonimo del brand, ma unita a un nuovo gusto per la sensualità, con gonne in tessuti da sartoria maschile dalla vita bassa e sinuosa, corredate da profondi spacchi diagonali chiusi da tre bottoni dorati, dove non si ravvede nessuna presenza del logo con la doppia C; i cardigan morbidi che sembrano essere passati da una generazione all’altra, con generosi scolli a V, si portano sulla pelle nuda; i vestiti see-through con ricami floreali hanno il fondo della gonna con decorazioni che ricordano le camelie.
Una collezione con molte – forse troppe – idee sul piatto, ma mostrare al compratore una vasta gamma di opzioni, e capire solo dopo, effettivamente, cosa funziona nei negozi, e affinare di conseguenza l’offerta, può anche essere una strategia commerciale con un senso, ed è pratica sempre più usata negli ultimi tempi.
Idee molte e confuse
Non tutto è riuscito alla perfezione: certe gonne voluminose e piumate devono troppo al suo passato da Bottega Veneta, ad esempio, e il lavoro sugli accessori – la 2.55 su tutti – è ancora confusionario, in itinere. Ma è forse un intento preciso di Blazy, che ha ammesso di non essere interessato alla chiarezza, e che trova molto più attraente, nel 2025, il fascino dell’ambiguità, la sensazione di straniamento che si prova quando non si è capaci immediatamente di decifrare una situazione (o, in questo caso, un abito). Con una loro ironia dadaista e obiettivamente pratici sono gli abiti, i trench e i completi optical in stile Art Deco, rimando alla confezione dei profumi del brand. L’approccio alla sera rispecchia l’idea di facilità d’utilizzo che promulgava Coco. Anche agli eventi più formali, ci si presenta con camicie e gonne a balze corredate dai sandali bicolor del brand, che qui hanno subito un pesante e forse necessario lavoro di ripensamento. Infine, i tailleur in lana bouclé rossa e nera con le minigonne guardano a una generazione che non è necessariamente cresciuta con il mito di Coco, ma che, da ieri sera potrebbe trovarlo nuovamente rilevante, e innamorarsene. Sognando un guardaroba nuovo con il quale immaginarsi sì, nella contemporaneità del 2025, ma soprattutto libere (dai legami e dagli stereotipi), che poi è sempre stato l’aggettivo che ha definito meglio di ogni altro Mademoiselle Gabrielle Chanel, dal 1910 in poi.