Un'ultima festa in Spagna, un ritorno forzato a Milano, fino a un paesino in provincia di Como, in cui una famiglia si ritrova nel peggiore dei momenti.
Vedere accadere davanti agli occhi uno di quei fenomeni per cui la stampa tradizionale impazzisce, pubblicando articoli con foto stock e neologismi inglesi che indicano l’incredibile crescendo di un trend, ti fa sentire una sorta di pioniere. Mi sono sentito così quando poco meno di 5 anni fa mio padre, dopo aver passato quasi 50 anni lontano dal luogo in cui è nato, è tornato a vivere in Calabria, a Vibo Marina, anche se lui preferirebbe venisse chiamata Porto Santa Venere.
È un luogo che ha significato estate per i primi 15 anni della mia vita e che poi è rimasto un ricordo per altrettanto tempo. Superata la mia seconda metà di vita d’astinenza calabrese, come a scuola, “per motivi familiari”, mi sono ritrovato a calcare il pavimento del lungomare di questa frazione di 7 mila abitanti, con uno zero in meno nel percepito.
Come le fotografie cerebrali che ci costruiamo, mi aspettavo di ritrovarla immutata nei luoghi, nello spirito e nelle persone e, devo dire, non è andata così lontano. Vero, c’è stata una frana sulla spiaggia più esclusiva – un sinonimo turistico per dire isolata – che ne ha cambiato la composizione, la gelateria del “centro” ha cambiato nome, le altre hanno probabilmente cambiato gestione o più semplicemente dai figli sono passate ai padri. Adesso sul porto campeggia una scritta in stile Amsterdam che recita “I <3 Vibo Marina”. Ma per il resto era il posto che mi ricordavo e che, in qualche modo, mi ha cresciuto. Se non fosse per una piccola, grande, differenza.
Sta’ sira jamu u cantamu o karaoke
“Sta’ sira jamu u cantamu o karaoke” è una frase che non pensavo avrei mai sentito e che invece per me ha caratterizzato le due settimane centrali d’agosto del 2025. Per qualche motivo, in questi anni di assenza (ma più realisticamente negli ultimi due) Vibo Marina ha scoperto l’esistenza del karaoke e ne ha fatto una delle sue ragioni di vita.
La prima sera, arrivati ben dopo la mezzanotte, una voce non propriamente intonata urlava qualche canzone di Gianni Celeste, con una convinzione che non poteva che far pensare che chi teneva il microfono in mano fosse nel giusto. Milano ci ha abituato a karaoke come momenti di goliardia post-ironici in cui persone – tendenzialmente oltre il terzo o quarto gin tonic della serata – si chiudono in un locale contendendosi un telecomando collegato a un televisore con accesso a YouTube per poi cantare tutti insieme grandi tormentoni del passato o canzoni altrettanto post-ironiche, proprio come lo spirito della serata.
A Vibo Marina, o a Porto Santa Venere che dir si voglia, lo spirito è profondamente diverso. Mentre interrogavo mio padre su questa nuova usanza, nel momento in cui mi sembrava ancora circoscritta a quell’unico locale, ho scoperto che negli ultimi anni era stata una sorta di epidemia: persino il bar nella via parallela aveva installato uno schermo per il karaoke, persino la Chiesa – nelle grandi occasioni – installava uno schermo, fosse per i canti più sacri o per permettere a qualche fedele di intonare “‘O surdato ‘nnamurato”. Così, girando per le strade, capitava che delle voci ti risvegliassero dal torpore dell’ormai sputtanata vita lenta, ricordandoti che anche lì, anche in quel momento, qualcuno stava intonando, per così dire, il suo cavallo di battaglia.
In Giappone, a un certo punto, fare musica dal vivo costava troppo, ma i locali non potevano rinunciare alla musica dal vivo. Come sopperire a una necessità senza fallire? Da qui, si dice, che nasca il concetto di “vuoto” e di “orchestra” che è all’origine del karaoke. Un po’ come un mobile Ikea: vuoi qualcosa? Il capitalismo te lo dà, ma devi assemblartelo da te.
Little Tokyo
Così niente più cover band di Rino Gaetano, le giovani rock band non esistono più anche perché, onestamente, fanno troppo casino per un lungomare nel mese di agosto. Così, lentamente, Vibo Marina si è riempita di karaoke. Bar con dehor all’esterno, con quelli che un ristoratore chiamerebbe coperti, più vicini al centinaio che alle decine, che in silenzio, mentre leccano un cono alla nocciola e qualche altro gusto o si godono una granita alle mandorle, guardano (e giudicano) due malcapitati che hanno deciso di intrattenere per quei quattro minuti tutti gli avventori, in attesa di chi li seguirà. Nelle serate più importanti a volte c’è un Fiorello del posto, con un vestito con una fantasia che ricorda la via Lattea, che non solo è master of cerimony della serata, ma anche giudice ineluttabile: decide chi e quando canta, cioè chi vuole lui e quando vuole lui. A volte, senza la riconoscibile coda di cavallo, decide di diventare lui stesso mattatore e si mette a cantare Elvis, fingendo di non guardare le parole, ma sbirciando goffamente dal computer che è sorgente delle immagini che i clienti vedono nel maxi schermo. Tra una canzone e l’altra può accadere che partano balli di gruppo o piccoli stacchetti che coinvolgono le prime file.
Così accade la prima sera, poi la seconda, la terza e così via, interrotti solo dalla sacralità della festa della Madonna a mare, che per una sera spegne i led e gli schermi e ci riporta alle tradizioni che comunque, notano gli avventori, vede nella messa una parte cantata più lunga e corposa rispetto agli altri anni, che ritarda sia il momento finale della processione che soprattutto i fuochi d’artificio.
Così, mentre Tropea e Pizzo diventano dei foodpornifici per cavallette tedesche col camper, la meno quotata Vibo Marina diventa un piccolo quartiere di Tokyo, senza che nessuno sappia dare davvero una spiegazione. «È perché non ci vuole nessun talento», mi dice una delle mille persone a cui chiedo se si è fatta un’idea del perché sia esploso questo fenomeno in così poco tempo, «Non devi saper suonare, non devi saper cantare, non devi neanche ricordarti a memoria la canzone. È un’attività passiva, individuale, al massimo a coppie, come tutte quelle che amiamo promuovere».
Vennero perfino i Milano u cantanu
Non sono da solo in questa vacanza, oltre a mio padre c’è colei che è già stata definita “A cantante i Milano”, con un forte raddoppiamento fonosintattico tra la preposizione e Milano e un raddoppio sulla “elle” del capoluogo lombardo non necessario. Ha cantato, come da alias, e per farlo è stata scelta da alcuni dei numi tutelari di questa attività sacra. Come si confà a chiunqua veda una persona a cui vuole bene in difficoltà, mi sono presto affrettato a riprendere minuziosamente sia il canto (per l’occasione “Il ragazzo della via Gluck”) che il successivo momento di ballo sulle note di un’ormai vintage “Ai se eu te pego”. Il video della performance canora è stato ovviamente richiesto da chiunque avesse assistito a quell’esibizione, come un reperto storico del funzionamento di questa attività anche con chi sa cosa sia la movida. “Vennero perfino i Milano u cantanu”.
Un piccolo moto di modernità, in una realtà che da qualche anno ha scoperto l’hamburger gourmet (che da quest’estate propone una versione smash) e che ora, con microfoni, led e maxi schermi prova a essere “meno italiana”, come se fosse un personaggio di Boris. Il tutto sulle note di Tony Colombo.