A Pitti Uomo tre brand che vogliono innovare il modo in cui si raccontano

I Guest Designer di questa edizione – Homme Plissé Issey Miyake, Niccolò Pasqualetti e Post Archive Faction – sono tre diversi esempi di come oggi i marchi, sia quelli con un heritage alle spalle che quelli di nuova generazione, provano a raccontarsi in un panorama sempre più difficile.

20 Giugno 2025

Nella nota diffusa da Pitti all’inizio di questa 108 esima edizione, che si è tenuta a Firenze dal 17 al 20 giugno, si ricordava agli addetti ai lavori quanto il momento che l’industria attraversa sia difficile. Dopo tre anni di crescita, la moda maschile italiana ha archiviato il 2024 con una flessione del -3,6 per cento, con un fatturato che si attesta a 11, 4 miliardi di euro e che copre il 19,1 per cento della fiere tessile-abbigliamento italiana. È un periodo complesso – ne abbiamo parlato anche nell’ultimo episodio di Glamorama, con Marta Casadei de Il Sole 24 Ore – e Pitti ha provato a rispondere, come da tradizione, con la formula mista che tiene insieme l’esposizione del Salone nella Fortezza da Basso e gli eventi che in quei giorni animano la città e le sue location storiche, messe a disposizione per show ed eventi. Al di fuori dello spazio fieristico, i tre Guest Designer di quest’edizione sono sembrati particolarmente azzeccati a raccontare le sfide che oggi molti brand si trovano ad affrontare. Intanto perché si tratta di tre brand molto diversi fra loro, con storie, community di riferimento e obiettivi diversi, quindi perché riassumono bene lo strano periodo in cui stiamo vivendo.

Homme Plissé Issey Miyake. Ph. Courtesy of Homme Plissé

La nuova strategia di Homme Plissé Issey Miyake

Si prenda il caso di Homme Plissé Issey Miyake, la linea che fa capo al marchio fondato dal designer giapponese Issey Miyake, scomparso nel 2022, che declina il marchio di fabbrica che lo ha reso celebre, ovvero il plissé. Come ha raccontato a Business of Fashion Satoshi Kondo, capo del design team, Homme Plissé è un «product-brand», ovvero un marchio che si concentra su quella che, una volta, avremmo definito la declinazione commerciale delle collezioni viste in passerella. «In quanto brand focalizzato sul prodotto, Homme Plissé non si concentra su moda e tendenze. Di conseguenza, ha senso per noi saltare la passerella per dedicarci ad azioni diverse: le sfilate parigine [dove il brand sfila con la collezione principale, nda] richiedono una continua innovazione, mentre Homme Plissé si concentra sul design semplice per la vita di tutti i giorni e sull’infinita messa a punto di capi pensati per l’uso quotidiano», ha spiegato Kondo. La sfilata dello scorso 18 giugno, che si è svolta nei giardini di Villa medicea della Petraia a Sesto Fiorentino, era l’avvio di una nuova progettualità che caratterizzerà Homme Plissé: da questo momento in poi, il brand viaggerà nel mondo per presentare le sue creazioni in luoghi ed eventi dove non è mai stato prima, entrando in contatto con le comunità locali e la scena creativa globale.

Firenze è la prima tappa di questo viaggio: «Lavorando in contesti culturali diversi, aspiriamo a sviluppare una gamma di abbigliamento che sia ancor più varia ma al contempo universale. Continueremo a realizzare due collezioni all’anno ma le nostre presentazioni non saranno sempre legate alla stagionalità: ogni evento sarà unico e definito dal contesto, dalla location e dall’audience», si legge nella nota ufficiale. La collezione presentata in occasione di Pitti è perciò un sunto dell’italianità, dei suoi colori e profumi, frutto delle ricerche e degli studi condotti dal team di design durante ripetute visite in diverse località del nostro Paese. Una strategia interessante, soprattutto se si pensa alla spettacolarità quasi ingegneristica che ha da sempre caratterizzato gli show di Miyake: come si traduce quell’heritage in un contesto che è non solo in una fase di congiuntura economica avversa, ma anche completamente cambiato rispetto agli anni che hanno definito e reso grande il marchio? Con una linea di diffusione, appunto, che mette serenamente al centro il cliente finale – «design semplice per la vita di tutti i giorni» – e che segue una stagionalità tutta sua, mentre insegue un mercato globale cercando di mantenere la propria identità. È l’espressione di una sensibilità differente e, allo stesso tempo, un tentativo di ridefinire il modo in cui un brand comunica con i suoi clienti affezionati e con quelli potenziali.

Post Archivio Faction. Ph. by Giovanni Giannoni

Il post-streetwear di Post Archive Faction

Le difficoltà di oggi non sono nate nell’ultimo anno, come sa bene Doongjoon Lim, che nel 2018 ha co-fondato insieme a Sookyo Jeong Post Archive Fiction (PAF), marchio made in Korea che non è sbagliato descrivere come “post streetwear” e che è arrivato per la prima volta in Italia proprio grazie a Pitti. «Abbiamo sperimentato gli effetti collaterali del Covid fino al 2023 circa. Poi, dal 2023 al 2024, l’inflazione è stata pessima; le economie sono impazzite e le persone non spendevano più come prima. E poi i ricavi all’ingrosso sono crollati. Il commercio all’ingrosso rappresentava la metà della nostra attività, ma l’anno scorso si aggirava intorno al 35 per cento. L’anno prossimo potrebbe scendere ancora. Quindi, nei primi anni del mio percorso, non ho vissuto molti momenti positivi in ​​termini di economia. Detto questo, stiamo ancora crescendo. Abbiamo avuto una crescita del 20 per cento nel 2024. E dopo il Covid, le nostre vendite sono cresciute del 39 per cento dal 2021 al 2022 e del 75 per cento dal 2022 al 2023», ha raccontato Lim a Vogue Business (nel 2024, il fatturato annuo di PAF si è attestato a 5 milioni di dollari; il marchio dispone di 75 rivenditori in tutto il mondo, tra cui Dover Street Market, Slam Jam, Ssense e LN-CC). Lim ha anche specificato come PAF sia un qualcosa che, sin dagli esordi, vuole posizionarsi al di fuori del circuito della moda tradizionale. Perché è figlio delle esperienze di Virgil Abloh e dell’onda lunga dello streetwear, tanto per cominciare, e perché ha saputo costruire la sua community di riferimento pensando in maniera alternativa, attraverso collaborazioni (come quella, molto fortunata, con le sneaker On e quella con Off-White nel 2022) ed eventi mirati.

Quando lo incontriamo la mattina dello show per l’anteprima stampa, Lim sembra imbarazzato dalla formalità del rituale e dopo le veloci introduzioni invita i giornalisti a guardare quello che è esposto della collezione che sfilerà alla Leopolda nel pomeriggio e, nel caso, a fargli delle domande. «Non ho studiato moda, non sapevo neanche benissimo cos’era Pitti ma quando ci è stata offerta quest’opportunità abbiamo capito che poteva essere giusta per noi», racconta dopo essersi un po’ rilassato, «Abbiamo pensato che questa potesse essere l’occasione per riflettere sui classici del guardaroba maschile e sul senso dell’uniforme, un concetto che per PAF è molto importante. Come coreani, la nostra vita è spesso scandita dalle uniformi – a scuola, al servizio militare per gli uomini, sul luogo di lavoro – quindi per noi era importante liberarci da quella, di uniforme, e crearne un’altra». Il risultato è una collezione che gioca con i classici, sbrindellando cravatte, camicie e giacca che rimangono comunque estremamente precise nei tagli, con un focus su scarpe (stivaletti, sneaker, ciabatte) e accessori, combinando i chiari rimandi al menswear del primo Raf Simons e a quello di Yohji Yamamoto con un’attitudine, dicevamo, da post streetwear. È facile immaginare giovani uomini nelle grandi città del globo vestire così, perché il prodotto di PAF visto in passerella non è così diverso da quello che, poi, si trova in negozio: «A volte penso che mi sto ancora barcamenando tra cose diverse, mi sento quasi trascinato dalla corrente», dice Lim, «Non so se faremo un altro show come questo in futuro, perché all’inizio le sfilate non volevamo proprio farle perché la nostra idea è che sia il nostro prodotto a parlare per noi ed è questa la cosa più bella del concetto di “post archivio”, e cioè che il creatore non dice nulla ma è il lavoro a parlare, un lavoro che è sempre collettivo. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio», conclude con un sorriso.

Niccolò Pasqueletti. Ph. Courtesy of Niccolò Pasqualetti

Anche Niccolò Pasqualetti non è interessato alle categorie tradizionali, soprattutto quelle di genere, e nell’assolato terrazzo del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha presentato una collezione dove a mescolarsi erano tanti elementi differenti, se non opposti, tra loro: uniformi militari e abiti da lavoro, abbigliamento sportivo e sartoriale, seta, lino e cotone accostati a camoscio e anime, maschile e femminile. «Ogni giorno è una negoziazione tra formalità e disinvoltura», si legge nella nota ufficiale, una descrizione efficace della moda di Pasqualetti, designer che ha scelto il cursus honorum classico dello stilista, lanciando il brand che porta il suo nome ma partendo, saggiamente, dai gioielli. È interessante guardarlo crescere: il talento è indubbio, ma il sistema di oggi può ancora supportare la sola visione di un autore? Una delle tante domande che quest’edizione di Pitti ci ha lasciato.

In apertura: Post Archive Faction. Ph. by Vanni Bassetti

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