Per Lea Ypi, la cittadinanza o è di tutti o non è di nessuno

Intervista con la filosofa Lea Ypi a partire dal suo ultimo pamphlet, Confini di classe, uscito giusto in tempo per il referendum dell'8 e 9 giugno.

05 Giugno 2025

L’ultimo libro, anzi, pamphlet, di Lea Ypi, filosofa e professoressa di filosofia politica alla London School of Economics, nata a Tirana nel 1979, è uscito in Italia il 13 maggio 2025. Si chiama Confini di classe. Disuguaglianze, migrazione e cittadinanza nello Stato capitalista (traduzione di Eleonora Marchiafava). Il tempismo è perfetto: in meno di un mese si terranno cinque referendum su cui il centrosinistra e la sinistra puntano molto, tra cui uno proprio per abrogare l’attuale legge sulla cittadinanza: l’obiettivo è portare da 10 a 5 gli anni di residenza necessari per poter chiedere la cittadinanza da parte di persone straniere. La prima parte del libretto si chiama “Undici tesi sulla cittadinanza nello Stato capitalista”, in cui Ypi critica qualsiasi tipo di cittadinanza assegnata con il concetto di merito, uno strumento che sarà sempre controllato da un’oligarchia di potere in senso escludente. Il merito è spesso legato a questioni di classe, come la possibilità di aver fatto un percorso di studi “attraente” per lo Stato “accogliente”, quando non è esplicitamente messo in secondo piano da un processo di acquisto vero e proprio. E se questa frase sembra scandalosa, è bene sapere che praticamente tutte le nazioni europee hanno creato procedure per vendere la cittadinanza a cittadini stranieri in cambio di ingenti investimenti. In Italia, il Golden Visa è un programma, introdotto nel 2017, per cui la cittadinanza viene venduta in cambio di un investimento di 250 mila euro in startup, 500 mila euro in aziende italiane, due milioni di euro in titoli di Stato. Nella seconda parte del libro Ypi si chiede: come sviluppare nuove solidarietà orizzontali in un mondo governato dal capitalismo globalizzato? È un libro dedicato alle sinistre, per superare quello che viene chiamato “il dilemma progressista”: il presunto – in realtà fasullo, scrive lei – contrasto tra l’apertura verso le migrazioni e il welfare interno.

ⓢ Parto con una battuta, anzi un meme: l’analisi del conflitto tra lavoratori di diverse provenienze nazionali creato ad arte dalle classi dominanti mi ha ricordato uno dei miei meme preferiti, che mostra una figura di Gesù, indicato con il classico font Impact usato dai meme come “miliardari”, che “benedice” un fedele inginocchiato attraverso un raggio di luce. Il “fedele” è indicato come “persone che difendono i miliardari” e il dono di luce è: “niente”. Ti sembra un buon riassunto?
Mah, non saprei. Mi sembra un po’ ingiusto verso la figura di Gesù e a quello che rappresenta filosoficamente. Dubito che si schiererebbe dalla parte degli oligarchi oggi.

ⓢ Come forse sai, il weekend dell’8 e 9 giugno in Italia si vota per abrogare una legge sulla cittadinanza che fissa in 10 anni il limite minimo di anni di residenza che un “migrante” deve attendere per poter chiedere la cittadinanza. In virtù di quello che scrivi nelle tue tesi, ti sembra un voto utile, o superfluo in quanto incluso in dinamiche di “merito” che sarebbe auspicabile superare in un solo balzo?
È sicuramente un voto utile, ma resta assolutamente insufficiente se vogliamo davvero trasformare il modo in cui pensiamo la cittadinanza. Può servire come punto di partenza per una mobilitazione più ampia, che metta in discussione l’idea stessa della cittadinanza come privilegio da meritare. In una democrazia, chi è soggetto alle leggi dovrebbe anche avere il diritto di contribuire alla loro creazione. La cittadinanza, in questo senso, dovrebbe essere obbligatoria per tutti i residenti, non condizionata come era una volta da criteri meritocratici di proprietà, censo, livello culturale e quant’altro.

ⓢ In Italia, ma credo anche in altri Paesi europei, si è parlato un po’ del caso di Malta, che vende passaporti comunitari in modo legale in cambio di grosse somme di denaro, e credo che ci sia stato anche, nelle fasce “progressiste” della popolazione, una certa indignazione. Eppure nessuno conosce, come scrivi tu, i programmi che sono anche italiani come il Golden Visa o l’Investor Visa. È interesse dei Paesi tenerli nascosti alla popolazione?
Sono programmi che rivelano in modo lampante il carattere di classe dello Stato: non un’istituzione democratica fondata sull’ideale di rappresentanza di gruppi diversi, ma uno strumento che serve gli interessi dei più ricchi. La cittadinanza smette di essere un diritto politico universale e diventa una merce acquistabile, riservata a chi possiede capitale. Questo smonta ogni lettura “culturale” del conflitto in tema migratorio e smaschera le radici economiche dell’esclusione. L’opacità di queste leggi non è casuale, ma funzionale a preservare un ordine sociale profondamente oligarchico, nel senso classico greco del termine di “regime dei pochi ricchi”, travestito da democrazia.

ⓢ La destra, in tutto l’Occidente, cavalca il tema della natalità. Eppure l’invecchiamento generale dei Paesi è un problema effettivo, e quindi, come scrivi tu, è un dato di fatto anche la necessità a livello di welfare di nuovi cittadini giovani. È un tema che la sinistra globale si è dimenticata?
Più che una dimenticanza, il problema della sinistra è la mancata critica al criterio stesso con cui si affronta il tema della natalità. Non credo che la risposta sia strumentalizzare gli immigrati e discuterne solo come risorse o come soluzione ai problemi dell’Occidente. Il problema è che si dà per scontata una visione etno-centrica della cittadinanza, di chi appartiene e chi no, come se la comunità politica dovesse essere sostenuta dai legami di sangue. Questo modello reifica la comunità politica, alimenta una falsa idea di omogeneità, fondata sull’appartenenza, la tradizione e la superiorità naturale dei nativi a chi viene dopo. Si ignora che la democrazia non nasce da una cultura condivisa, ma dal conflitto, dalle interpretazioni del conflitto basate su principi diversi, e da una solidarietà costruita politicamente, sempre aperta e sempre in mutamento.

ⓢ Come scrivi, un partito che oggi proponesse un programma di solidarietà di classe internazionale non prenderebbe molti voti. Pensi che la forbice economica tra le classi debba crescere ancora perché ci sia più possibilità che attecchiscano queste idee?
Prima di tutto, credo che la democrazia perda sostanza quando il confronto politico si riduce a semplice competizione elettorale. E poi, non dobbiamo aspettare che la disuguaglianza peggiori per mobilitarci: il problema non è solo materiale, ma riguarda anche le categorie attraverso cui leggiamo la realtà, e le narrazioni che normalizzano l’ingiustizia. Serve una nuova analisi dei conflitti globali che non li riduca a scontri culturali, ma che rimetta al centro la questione di classe, il capitalismo, e la costruzione di soggetti politici collettivi radicati nelle contraddizioni del presente. La crisi è già qui, e credere che il peggioramento delle condizioni porterà automaticamente a una presa di coscienza è ingenuo: l’estrema destra offre già le sue “soluzioni” e nulla ci assicura che non continui a capitalizzarle.

ⓢ Eppure mi sembra che, fuori dalla politica, nella cosiddetta società civile, dal 2020 in poi ci sia sempre più sfiducia nella globalizzazione capitalistica. Come se le idee che erano state quasi date per morte dopo il G8 del 2001 stiano tornando anche a far presa sulle masse, piano piano. Compresi i concetti di decrescita. Vedi anche tu questo cambiamento?
Sì, c’è certamente un ritorno della critica alla globalizzazione, ma in larga parte ha assunto una forma nazionalista e populista, spesso guidata dalla destra. Anche in Europa questa critica si manifesta come attacco alle istituzioni europee, con la Brexit che ha rappresentato uno dei primi esempi emblematici. Quello che manca è una visione internazionalista alternativa che sappia coniugare giustizia sociale e solidarietà globale, senza cadere nei miti identitari o protezionisti, e senza distruggere i progetti di superamento del nazionalismo, ma piuttosto criticandoli in modo costruttivo. Il discorso di un’Europa sociale, dei popoli, alternativa al modello neoliberale si è quasi completamente perso: oggi si parla solo di riarmo e di guerra e la sinistra è completamente spiazzata.

ⓢ L’Europa, alla fine di maggio 2025, ha finalmente fatto dei timidi passi indietro nel suo incondizionato sostegno a Israele, e ha iniziato a parlare di sanzioni. È la dimostrazione, come ha scritto la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati Francesca Albanese, che la pressione dal basso funziona? Possiamo vederlo come un segnale positivo di movimento transnazionale nell’ottica di un nuovo internazionalismo di classe, come scrivi tu?
La questione dell’internazionalismo di classe e dell’autodeterminazione dei popoli è molto complessa e attraversata da contraddizioni storiche. In questo caso, si tratta di qualcosa di più elementare: violazioni egregie del diritto internazionale, commesse da uno Stato che continua a godere di un trattamento di favore da parte di attori che si proclamano difensori di valori universali. Per ora non vedo segnali particolarmente incoraggianti da parte dell’Unione Europea nel suo insieme. Piuttosto è un gruppo di Stati all’interno dell’Unione ad aver preso l’iniziativa e fatto qualche timido passo. È ancora molto presto per parlare di pressione che funziona.

Foto di David Levenson/Getty Images

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