Attualità

Super Bowl XLVI

Stanotte Super Bowl fra Giants e Patriots. Che si sono già incontrate in finale. Andò così...

di Cesare Alemanni

Questa notte (a partire dalle 00: 30, ora Italiana) a Indianapolis si gioca il quarantaseiesimo Super Bowl della storia NFL. Nel numero di Studio attualmente in edicola, il sesto, all’interno di una cover story dedicata al 2012 americano sospeso tra elezioni, crisi e proteste, trova spazio anche un pezzo firmato dal sottoscritto in cui si racconta proprio la genesi storica della passione statunitense per il football e per il Super Bowl. È difficile spiegare il come e il perché mi sono avvicinato, ormai molti anni fa, a questo sport/spettacolo che una volta qualcuno ha, mi pare, definito una via di mezzo tra gli scacchi e una simulazione di guerra. È semplicemente capitato e non voglio star qui a biasimare chi, invece di vederci quello che ci vedo io – ovvero un gioco estremamente tattico e multisfaccettato dove a ogni azione può letteralmente succedere tutto e il contrario di tutto – ci vede uno sport violento e pieno di pause; un chiassoso carrozzone le cui componenti principali sono quelle di contorno: gli spot da milioni di dollari, lo spettacolo di metà partita (quest’anno ci sarà Madonna) etc. È comprensibilissimo che il football non attecchisca più di tanto in Europa dove abbiamo tradizioni sportive e culturali molto diverse da quelle in cui questo sport ha trovato i suoi presupposti, ovvero nella pancia dell’America più profonda e rurale (basti pensare che la squadra più titolata non sta a New York, Boston o Los Angeles ma a Green Bay, una cittadina di 100.000 abitanti nel Wisconsin). Nel pezzo che trovate nel numero 6 di Studio, nel mio piccolo, ho comunque cercato di accorciare queste distanze raccontando come, nel giro di cinquant’anni dal dopoguerra in poi, il football sia passato da essere uno sport quasi minore a essere quello più amato, diventando The America’s Game. Nel farlo, nelle ultime righe dell’articolo – che trovate di seguito a questa introduzione – mi soffermavo su uno dei Super Bowl più incredibili dell’era moderna (nonché l’ultimo dell’era Bush proprio come questo potrebbe essere l’ultimo dell’era Obama): il Super Bowl quarantadue, giocatosi quattro anni fa tra New York Giants e New England Patriots. Le stesse squadre, pensa un po’, che, a sorpresa, si affrontano questa sera in una rivincita epocale. (ca)

 

[…] il picco massimo di ascolti toccato dalla Fox durante il Super Bowl XLII, il 3 febbraio 2008, è stato di 148 milioni di americani. Una cifra impressionante per una partita incredibile che spiega tutto dei motivi per cui l’America ama questo sport e di come esso sappia, talvolta, anticipare la narrazione dell’America stessa. A Phoenix, nel nuovo stadio progettato appositamente per l’occasione da Eisenman (l’architetto che tra le altre cose ha disegnato il Memoriale alla Shoah, nel cuore di Berlino), quel giorno si affrontavano i New England Patriots di Boston e i Giants di New York. Da una parte i Patriots, la franchigia dominante degli anni 2000 con tre Super Bowl all’attivo – reduce da una stagione perfetta da 18 vittorie e zero sconfitte – la quale, vincendo il titolo, avrebbe messo il proprio sigillo su un record senza precedenti. Dall’altra i Giants, la cenerentola dei Playoff, arrivata non si sa come alla finale tra mille polemiche circa il rendimento altalenante del giovane quarterback Eli Manning, rimasto per tutta la stagione in bilico tra la casella delle promesse e quella degli scarti. Il quarterback dei Patriots invece era Tom Brady, il marito di Gisele Bundchen, il giocatore più glamour, pagato e regolare del decennio. Il pronostico, prima della partita, era talmente sbilanciato che alcune agenzie avevano smesso di accettare le scommesse. I Patriots erano così convinti di vincere che erano entrati in campo con la disinvoltura con cui Alì saliva sul ring. Dall’altra parte però trovarono una difesa che per tutta la gara si dimostrò capace di assorbire i colpi come Frazier e – a meno di due minuti dalla fine – inaspettatamente il vantaggio dei Patriots ammontava ad appena 4 punti (14 a 10) con i Giants in possesso di palla a 50 yard dalla linea di meta avversaria e con due soli possessi da giocare. Fu a quel punto che accadde un miracolo e, in una delle azioni più rocambolesche della storia di questo sport, Eli Manning riuscì a evitare il placcaggio non di uno ma di sei difensori avversari, restare in piedi e trovare un’incredibile ricezione, 30 yard più avanti, di David Tyree, un assoluto comprimario del quale i suoi stessi tifosi faticavano a ricordare il nome. Era la ricezione che teneva viva la partita con un solo minuto sul cronometro. Un minuto sufficiente a Manning per coprire le restanti 20 yard con un passaggio a Plaxico Burrees, un talentuoso renegade, una nota testa calda dai molti talenti sprecati che, a 25 secondi dalla fine, si ritrovò tra le mani la palla della vittoria in piena area di meta. I Giants, gli outsider, avevano vinto. I Patriots, l’establishment, aveva perso. Il giovane Manning aveva sconfitto l’ammirato quanto odiato Brady. Per gli americani questo significava una cosa sola: che allora era davvero possibile credere che la forza di volontà e il talento dei comprimari potessero affermarsi sull’arroganza delle dinastie e del potere. Era possibile credere a quello che in quei giorni iniziava ad andare in giro a dire quel tizio, quel candidato alle primarie democratiche. Quello di Yes We Can.

 

(Illustrazione di Alessandro Maida dal numero 6 di Studio)