Attualità

Dove vuole arrivare Spotify?

Gli ambiziosi progetti del player musicale che entro marzo sarà quotato in Borsa e venderà le azioni direttamente agli investitori.

di Luca D'Ammando

I visionari che hanno stravolto il mondo hanno diritto a un racconto mitizzato delle loro vite, delle loro origini. Incomprensione e smarrimento, genialità e metodo, cadute e grandi risalite. E poco importa se la leggenda corrisponda in pieno alla realtà. Quello che tutti raccontano di Daniel Ek, il trentaquattrenne svedese creatore di Spotify, è che da studente del college inviò un curriculum a Google e fu scartato. Che in seguito fondò l’agenzia pubblicitaria Advertigo, la rivendette diventando milionario, si comprò una Ferrari, cominciò a darsi alla bella vita, salvo cadere in depressione. E che quindi si rinchiuse in uno scantinato nei sobborghi di Stoccolma in cerca dell’idea giusta per sfruttare la sua vera passione, la musica, e combattere la pirateria online. Insomma, un eroe buono. Da qui nel 2006 la creazione di una start up con Martin Lorentzon e nel 2008 il lancio di Spotify. Gli elementi per un biopic di successo ci sono tutti.

Ora, saltando le considerazioni su come lo streaming abbia modificato il nostro rapporto con la musica, l’interrogativo del momento è dove vuole e può arrivare Spotify, che entro marzo sarà quotata in Borsa. Visto il personaggio, non potevano che essere insolite anche le modalità scelte per la quotazione. Prima di tutto avverrà al New York Stock Exchange e non al Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici. Inoltre Spotify venderà le azioni direttamente agli investitori senza intermediari. Nessuna nuova azione emessa e nessuna raccolta di fondi tra banche sottoscrittrice, tagliate fuori dal processo. Una procedura più snella con costi e tempi più contenuti, una rottura delle convenzioni dell’alta finanza che potrebbe stimolare altri grandi gruppi a seguirne l’esempio, da Airbnb a Uber.

Mentre presentava alla Sec (l’autorità mobiliare americana) la documentazione necessaria per la quotazione, Spotify ha raggiunto i 70 milioni di abbonati a pagamento su un totale di 140 milioni di utenti attivi in sessantuno Paesi. Con un catalogo di trenta milioni di canzoni, nato come semplice player musicale e ampliatosi con i video, ora Spotify ha deciso di offrire anche podcast audio e video d’informazione e di approfondimento politico. Al nuovo progetto, chiamato Spotlight e attivo dal primo febbraio solo negli Stati Uniti, lavorano tra l’altro BuzzFeed e Refinery29, le quali produrranno contenuti giornalistici sotto forma di “newscast” lunghi dai quattro ai sette minuti. Per questo Ek ha strappato alla Disney Courtney Holt, che dopo aver gestito i Maker Studios, ora si occuperà della parte video di Spotify. I nuovi contenuti dovrebbero aiutare la società svedese a conquistare parte degli oltre 18 miliardi di dollari spesi ogni anno in pubblicità dagli investitori sulle radio americane. Un passaggio cruciale per una compagnia che, pur avendo scardinato le logiche del business musicale, deve ancora trovare il modo di capitalizzare in pieno il suo prodotto. In una delle rare interviste concesse, Ek ha tracciato chiaramente il campo di gioco: «L’intera industria musicale conta fra i quattordici e i quindici miliardi di dollari in vendite. Ora guarda alla radio: negli Stati Uniti da sola ha un fatturato di circa sedici miliardi e globalmente è di circa ottanta miliardi. Trasferisci il comportamento della radio all’online e avrai un settore musicale che è molto più grande di quanto sia mai stato. Se poi aggiungi gli abbonamenti si arriva a un’industria da cento o centosessanta miliardi».

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Valutata quasi 20 miliardi di dollari da Gp Bullhound, Spotify ha registrato nel 2017 entrate per circa 3,3 miliardi di dollari, in crescita del 52 per cento rispetto all’anno precedente. Ma il costo delle licenze musicali continua a essere gravoso e il rosso è cresciuto a 600 milioni. Allo stesso tempo, grazie all’intervento della cinese Tencent, la società di Daniele Ek è riuscita a sanare il debito di un miliardo accumulato con i fondi Dragoneer e Tpg. Un ostacolo sulla via dei profitti è quello delle cause legali. Da ultimo a fine dicembre la Wixen Music Publishing, che gestisce le licenze per le canzoni di circa 200 artisti (da Neil Young ai Doors fino  a Janis Joplin) ha fatto causa per 1,6 miliardi di dollari accusando Spotify di aver utilizzato migliaia di canzoni senza avere le licenze adeguate per farlo. Il problema riguarda il sistema con cui Spotify identifica i diritti per ogni canzone, necessari per il riconoscimento degli stessi ai compositori e agli artisti. Non è il primo problema legale in materia di licenze: nel maggio scorso la compagnia di Stoccolma si è accordata per un pagamento da 43 milioni di dollari, evitando così una class action capitanata dagli autori David Lowery e Melissa Ferrick.

In tribunale è finita anche la sfida con Apple (accusata di concorrenza sleale), l’avversario numero uno che è stata costretta a rincorrere Spotify affiancando a iTunes Apple Music. Al momento Ek tiene a distanza il colosso guidato da Tim Cook: con i suoi 70 milioni di abbonamenti Spotify detiene il 40 per cento del mercato degli ascolti a pagamento, contro i 30 milioni della Apple, che dalla sua ha i 700 milioni di iPhone utilizzati nel mondo. Il terzo incomodo è Amazon Music Unlimited, che non fornisce numeri ufficiali ma si stima abbia venti milioni abbonati. Mentre apparentemente giocano una partita diversa Facebook e Youtube, almeno per il momento. A cavallo della fine del 2017 infatti Zuckerberg ha siglato accordi con Universal Music e Sony – e presto lo farà anche con Warner – permettendo così agli utenti del social di usare legalmente la musica del catalogo nei loro video. Che sia solo il primo passo per fagocitare prima o poi Spotify? Intanto Youtube si prepara a lanciare Remix, un servizio di streaming a pagamento per video e musica. Un piccola rivoluzione in arrivo che si pensa che oggi l’85 per cento di visitatori italiani di Youtube sfrutta il portale per ascoltare canzoni e che, secondo Cisco, nel giro dei prossimi tre anni l’82 per cento del traffico internet sarà video.