Attualità

La rivolta della Valley

Cambiare il mondo, che il mondo lo voglia o no. La Silicon Valley e il culto della disruption, Contro lo status quo, le tasse, le leggi, la società.

di Pietro Minto

C’è un botta e risposta che bisogna imparare a memoria per capire cosa succede nella Silicon Valley, ed è un dialogo da buddy movie di terz’ordine che svela il retroterra culturale dell’area geografica che da “hub tecnologico” si è trasformata in una filosofia di vita e in un franchising di cui tutte le nazioni del mondo vogliono fare parte, covando la loro Silicon Qualcosa come nulla osta per un futuro alla Jetsons, o per rifarsi una verginità nel campo dell’innovazione. Il botta e risposta fa più o meno così:

Il personaggio a domanda: «Ma si può fare? è legale?»
Il personaggio b, sornione, risponde: «No, non lo è. Non ancora.»

Segue una risata soddisfatta e uno sguardo d’intesa. Quando nel 2004 Google si mise a scansire libri nelle biblioteche di tutto il mondo per poi renderli disponibili online, lo fece a modo suo: ovvero, lo fece e basta. Niente trattative, concessioni, contratti – che sarebbero invece arrivati dal 2005 in poi.

«Ma si può fare? è legale?»
«Non ancora».

Col passare del tempo e delle querele, il servizio si è trasformato in un’enorme biblioteca online gratuita in cui chiunque può consultare opere non protette da copyright, o accedere a quelle protette da diritto d’autore comprandole. La condotta dimostrata dal colosso di Mountain View in quell’occasione fu la stessa delle sue origini, la stessa linfa che la tiene in vita oggi. È una linfa che come il limo nell’Antico Egitto sembra depositarsi naturalmente sulla Valle del Silicio, impregnando persone, progetti, ambizioni e assegni milionari. La chiamano disruption, indica un evento o fenomeno capace di spezzare l’ordine naturale delle cose, mettendo tutto in discussione.

Nel 1998 Douglas Edwards aveva quarant’anni, si occupava del marketing del quotidiano San Jose Mercury News e sembrava pronto per una depressiva crisi di mezza età. Un giorno sentì parlare di una nuova start up della zona dal nome strano. «Che cosa fanno questi di Google?» chiese a un amico. «Si occupano di ricerca su internet». «Ah, in bocca al lupo» rise amaramente Edwards, che conosceva lo stato della Rete d’allora in cui pagine e dati vorticavano quantisticamente da un posto all’altro, e a volte potevano sembrare vicini e altre volte svanire nel nulla, in cui le poche cose disponibili erano organizzate in “portali” o altri luoghi ostili e impenetrabili. Google voleva mettere ordine al proverbiale caos: per questo, i due fondatori Larry Page e Sergey Brin, come una delle primissime mosse d’azienda della loro carriera, assunsero uno chef. Due tipini interessanti, quelli, come Edwards avrebbe capito nel 1999, quando divenne brand manager della società: non volevano dare nemmeno un centesimo al settore “marketing” né vendere pubblicità sulla loro homepage, per non parlare di quell’idea assurda di mantenere inalterato il logo dell’azienda. Contro ogni previsione l’idea funzionò talmente bene da trasformarsi in verbo (googlare = cercare qualcosa su Internet) ed essere oggi sul trampolino di lancio per diventare una Skynet sorridente.

Apple e Google sono fatti di pura disruption: hanno cambiato interi settori in pochi anni, stravolto usi, costumi e cultura di buona parte del mondo. Per farlo hanno dovuto lottare contro lo status quo, distruggere per ricostruire. Senza Steve Jobs, fondatore di Apple, la disruption non avrebbe avuto il suo Messia, né la giusta narrazione: Jobs era il Cavaliere buono, folle e geniale che doveva scontrarsi contro i draghi del passato per salvare la sua amata. Erano avversari mediocri i suoi? No, erano Ibm e Microsoft, perdio, le aziende più ricche e potenti del settore. Non è la solita storia del self-made man: questa è epica.

«Questi ragazzi non hanno barriere creative, possono fare qualsiasi cosa spendendo pochi soldi. Ed è una cosa fantastica, davvero. Il problema è che non credono nell’esistenza di una società, pensano che le regole non li riguardino in nessun modo»

In molti hanno paragonato Jobs e la sua Mela a una religione. È necessario però allargare il campo visivo per osservare il culto nel suo insieme: quello del rischio, del progresso, della demolizione delle vecchie regole nel nome del futuro e di un’idea di business che potrebbe nascere. Jobs non è il Dio di questa religione: è stato il profeta di un ordine superiore, quello della disruption. E in quanto profeta, è stato solo un tramite, un passaggio, nonché l’anticamera del prossimo profeta che gli investitori (venture capitalist) della Valley cercano con il lanternino tra le file degli aspiranti giovani alla ricerca di investimenti milionari.

Il “culto” della disruption ha più di una Mecca di riferimento, luoghi cui fedeli devono recarsi per guadagnarsi un posto in paradiso. Uno di questi è South By South West (Sxsw), l’annuale festival della tecnologia di Austin, in Texas. Come ogni Medjugorje che si rispetti, anche Sxsw ha i suoi pulmini carichi di fedeli, gli «start up bus», pieni di giovani promesse intente a sgranare rosari pregando di dare vita al nuovo Facebook-Twitter-Instagram. Fedeli che vogliono diventare profeti: strano, se non si parlasse di disruption universale: distruzione creativa, anche e soprattutto dei propri Idoli. Lo scorso anno il giornalista del sito The Verge Nilay Patel, invitato a uno dei panel della manifestazione, ha detto la sua sulla subcultura dello Sxsw: «Questi ragazzi non hanno barriere creative, possono fare qualsiasi cosa spendendo pochi soldi. Ed è una cosa fantastica, davvero. Il problema è che non credono nell’esistenza di una società, pensano che le regole non li riguardino in nessun modo». O per dirla con Sam Biddle di ValleyWag, blog dedicato agli eccessi della Silicon Valley, «mentre i giovani tecnocrati sono sempre più convinti d’essere a un passo dal migliorare del tutto la condizione umana, si rendono conto che la società non è all’altezza del suo ruolo».

La cosa migliore di tutto questo è che le persone che odiano la tecnologia, non ci seguiranno. Dobbiamo fare questo esperimento per dimostrare come sarebbe una società guidata dalla Silicon Valley senza disturbare quelli che vogliono vivere sotto la Cintura della Carta

La potremmo chiamare hybris ma forse non sarebbe sufficiente a spiegare l’ultima trovata di Balaji Srinivasan, imprenditore impegnato nel campo della genetica, che all’ultima conferenza degli sviluppatori di Google ha aspramente criticato il sistema-Paese statunitense per poi vagheggiare di «tecno-utopia», un nuovo mondo, una nuova società per sognatori e disruptor, un’Arcadia lontana da tutto, lontana da leggi e regole e per questo libera di fare la sua missione. «La cosa migliore di tutto questo è che le persone che pensano che ciò sia assurdo, […] che odiano la tecnologia, non ci seguiranno. Dobbiamo fare questo esperimento per dimostrare come sarebbe una società guidata dalla Silicon Valley senza con questo disturbare quelli che vogliono vivere sotto la Cintura della Carta». Soffermiamoci su quelle due parole, paper belt, neologismo ispirato alla bible belt, la “cintura della Bibbia” con cui si indicano i cristianissimi Stati del sud degli Usa. I tecno-utopisti non sembrano mirare a una secessione basata sul territorio (nord contro sud, est contro ovest) quanto sull’adesione ai principi figli dell’era di internet. Da una parte la società liquida fatta di BitCoin, stampanti 3D e macchine auto-guidanti, dall’altra la carta – Tutto Ciò Che È Vecchio – e la noiosa giungla delle regole e delle leggi. Che danno fastidio, giusto? E allora basta liberarsene.

Il fricchettonismo zen che trasudava dalle foto a piedi nudi di Steve Jobs ha lasciato spazio (oppure ha sempre nascosto?) una visione liberista e libertaria del mondo in cui ogni forma d’autorità è il Nemico: può essere un colosso del settore (Microsoft, Ibm, Facebook, Google) e le sue imposizioni nel mercato. O può essere il Governo degli Stati Uniti.

«Ma è legale?» continua a chiedersi il malfidente, scemo.
«Non ancora» sorride sempre l’eroe disrupter.

In un saggio pubblicato dalla rivista NsfwCorp, il giornalista Paul Carr ha analizzato il vero sottofondo culturale della Valley, spiegando che la filosofia dominante in questi anni Dieci è ispirata a una vecchia conoscenza, l’Oggettivismo, un sistema filosofico fondato da Ayn Rand nel 1943. Rand è una scrittrice e filosofa russa naturalizzata statunitense che ha finito per influenzare il movimento libertario statunitense con i suoi elogi dell’«egoismo etico», della ragione e il sogno del puro laissez faire economico. Il suo primo romanzo, La Fonte Meravigliosa (The Fountainhead, 1943), racconta la storia di Howard Roark, architetto libero e dalla mente florida, circondato da personaggi “secondari” che gli vorticano attorno come satelliti. Cercano favori, cercano carriere facili: sono parassiti che seguono la scia luminosa del self-made man. Rand li chiama «second-hander», persone «di seconda mano», calcando sulla differenza antropologica tra gli esseri umani: gli eletti da una parte e tutto attorno uno sciame di personaggi secondari condannati a vivere degli avanzi dei primi o, se fortunati, a provare a instaurare un regime simbiotico sempre ai danni degli eletti.

Il suo capolavoro è La rivolta di Atlante (Atlas Shrugged, 1957), vera base del pensiero randyano. Si tratta di una distopia in cui gli Stati Uniti sono regolati da un governo becero dal retrogusto comunistoide, un apparato ipertrofico fatto di leggi, divieti e paletti. Il regime costringe un gruppo di imprenditori illuminati ad andare «in sciopero» e ritirarsi tra le montagne, per cercare un nuovo inizio nel nome dello spirito americano e riscoprire insieme il piacere voluttuoso del libero mercato. Una secessione che John Galt, protagonista del romanzo, ritiene possa essere in grado di «fermare il motore del mondo».

Prima di cadere in una profonda depressione e morire nel 1982, Rand si dichiarò «la pensatrice più creativa del mondo» e inanellò molte gemme ripiene di quello che oggi definiremmo disruptive thinking: «Forza e mente sono all’opposto; la moralità finisce dove inizia la pistola», «Preoccuparsi è uno spreco di risorse emozionali», «La domanda non è chi mi permetterà di farlo ma chi mi vuole fermare».

Ayn Rand è molto apprezzata nella Valley, il suo Oggettivismo viene citato da personalità come Travis Kalanick, Brad Feld, Fred Wilson, e viene spesso messo in pratica nella realtà. Per esempio, quando il tecnocrate Peter Thiel, co-fondatore di PayPal, decise di investire sulla società, lo fece perché «voleva creare una valuta online che permettesse di bypassare il controllo statale». O pensiamo ai palloni di Google Loon prendere possesso dell’atmosfera terrestre nel nome dell’Internet per tutti creando un notevole panico tra gli abitanti ignari della contea di Pike, nel Kentucky, alle prese con degli Ufo dei quali non erano stati avvisati e che si rivelarono invece dei sofisticati impianti wi-fi; o ancora ricordiamo il candidato democratico Ro Khanna, che in questi giorni si presenta agli elettori californiani come «il prescelto della Silicon Valley» con tanto di sostegno di star come Sean Parker.

Qualora le tasse riuscissero a stringere il loro giogo anche nel mezzo del Pacifico, Elon Musk, co-fondatore di eBay ed ex collega di Thiel, passerebbe all’azione, novello Noé, con la sua SpaceX, azienda leader nel campo del turismo spaziale dato per prossimo all’esplosione

Non c’è solo protesta e teoria: c’è anche l’azione, la “rivolta di Atlante” sognata da Rand. E qui torniamo al citato Peter Thiel, membro del Seasteading Institute, una non profit libertaria fondata nel 2008 con l’obiettivo di fondare nuove «città-stato» su piattaforme marine in acque internazionali, un progetto che sembra uscito dalle pagine di Atlas Shrugged, come quello dell’“incubatore” di start up da costruire a circa 20 chilometri dalle coste della California. Ma lo Zio Sam è uno zio potente, oltreché il Cattivo di questa storia, e può far valere la sua autorità su imbarcazioni americane, senza nazione di riferimento, o straniere se battono bandiere “amiche”. Ha tentacoli lunghi che arrivano anche offshore. La pratica dello seasteading (reclamare una proprietà per viverci in maniera autosufficiente) predicata dall’istituto, è quindi un esercizio d’equilibrio geopolitico: «sarebbero posti in cui imprenditori alla ricerca di profitto» si legge sulla rivista Kyklos, «potranno stabilire basi permanenti regolate da norme proprie», ma sarebbero anche dei piccoli corto-circuiti burocratici, facili da smantellare per gli Usa.

«Ma si può fare? è legale?»
«Non ancora».

Forse proprio per questo c’è chi ha già pensato alla via d’uscita estrema e definitiva: qualora le tasse riuscissero a stringere il loro giogo anche nel mezzo del Pacifico, Elon Musk, co-fondatore di eBay ed ex collega di Thiel, passerebbe all’azione, novello Noé, con la sua SpaceX, azienda leader nel campo del turismo spaziale dato per prossimo all’esplosione. Musk dice che le sue astronavi riusciranno a spingersi fino al pianeta rosso nel corso dei prossimi 20-30 anni.

Sconfitta la società e le sue paturnie, manca comunque l’avversario ultimo: la morte. Il mostro finale. Che non può essere annientato ma solo ritardato, ingannato. Anche in questo campo è Peter Thiel a farsi notare: dice che grazie al progresso tecnologico e ai suoi investimenti nella Singolarità, potrebbe vivere facilmente fino a 120 anni, quindi avere altri 76 anni di tempo per vedere coronato il suo sogno, liberarsi dal giogo statale e farsi trascinare dalla disruption, per vedere l’effetto che fa. O forse si unirà a Musk e insieme raggiungeranno il pianeta rosso, dove troveranno un’atmosfera finalmente senza tracce di società, perfetta per innovatori forse un po’ distratti, che non vedranno nulla di sbagliato nel voler cambiare il mondo così tanto da doverne invadere un altro per poterci riuscire.

 

Dal numero 17 di Studio, in edicola e libreria

 

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