Attualità

Dobbiamo essere ottimisti o pessimisti?

Due saggi a confronto: il primo dice che non siamo mai stati meglio, il secondo che gli ultimi 30 anni sono stati un’illusione.

di Christian Rocca

Eravamo ottimisti e ora siamo pessimisti. Due libri ci aiutano a riflettere sul momento globale che stiamo vivendo, su che cosa sta succedendo nel mondo, su che cosa sarà di noi. La sintesi è proprio questa: eravamo ottimisti e ora siamo pessimisti, avevamo una fede pseudo religiosa nel progresso e invece ora il futuro ci fa paura, ci mette ansia, ci minaccia. I due libri sono Enlightenment Now (Viking, 556 pagine) di Steven Pinker e L’età della rabbia (Mondadori, 348 pagine) di Pankaj Mishra. Sono due saggi a tesi opposta, il primo incorreggibilmente fiducioso e il secondo irriducibilmente catastrofista, entrambi dogmatici, entrambi esercizi di maestria intellettuale da far girare la testa.

Uno spiega che in realtà le cose vanno benissimo, l’altro si concentra sulle contraddizioni del progresso. Letti insieme i due libri funzionano bene perché fanno vacillare le convinzioni sia degli ottimisti sia dei pessimisti; sono come quegli smartphone di ultima generazione che grazie alla doppia fotocamera mettono meglio a fuoco il ritratto del nostro tempo. Pinker fa risalire la fede nel progresso all’Illuminismo, Mishra ricorda che anche allora c’era chi metteva in guardia sui costi del progresso. Gli eroi intellettuali dei due saggisti non possono essere ideologicamente più distanti: per Pinker è Voltaire, per Mishra è Rousseau. Enlightenment Now è un manifesto della ragione, della scienza e dell’umanesimo, mentre per L’età della rabbia la promessa illuminista di un avvenire di giustizia, uguaglianza e prosperità è soltanto un’illusione, se non un inganno.

Senza andare molto indietro nel tempo, siamo diventati ottimisti nel 1989 e pessimisti nel 2001. E ci stiamo accorgendo del conflitto tra i due orientamenti soltanto da un paio d’anni. In realtà gli ottimisti sono negazionisti: non credono di aver perso la battaglia e, salvo qualche rara eccezione, escono con le ossa rotte da tutte le tornate elettorali. Nel 1989 cade il Muro di Berlino, crolla il comunismo sovietico, centinaia di milioni di persone si liberano dal giogo totalitario, la democrazia si diffonde a Est, la Cina e l’India aprono le loro economie e in parte le loro società, la povertà globale inizia ad arretrare, nascono nuovi Stati liberi in Africa e in Asia, la difesa dei diritti umani plasma la politica internazionale, gli investimenti cambiano la geopolitica mondiale, scoppia la pace in Irlanda del Nord, finisce l’apartheid e Nelson Mandela esce dal carcere.

Non è stato tutto rose e fiori, ovviamente, a cominciare dalla strage di Tienanmen in Cina, ma il 1989 è l’anno in cui si è iniziato a pensare che il capitalismo liberale e i sistemi democratici potessero trionfare in modo universale e irreversibile. «There is no alternative», non c’è alternativa, al sistema politico ed economico liberale, secondo la celebre formula riscoperta da Margaret Thatcher. Francis Fukuyama aveva dichiarato «la fine della Storia» e i successivi decenni di progresso universale hanno confermato la tesi del politologo americano, grazie anche a una rivoluzione tecnologica che ha reso il mondo più colto, più connesso, più ricco. Nasce nel 1989, insomma, il culto internazionalista liberale del progresso, la certezza dell’ineluttabile vittoria della ragione sulla tradizione, la conta del numero esponenziale di persone che escono dalla povertà. Politicamente è l’era della Terza Via tra liberalismo e socialismo, con Bill Clinton e Tony Blair sacerdoti dell’idea di una crescita perpetua sia della produzione sia del consumo, e di conseguenza dell’allargamento dei diritti e del benessere per tutti. È anche il momento della despiritualizzazione della società, sempre in nome della ragione e della fede nel progresso.

L’11 settembre 2001, però, il mondo si è accorto che la storia non era affatto finita. Il vuoto è stato colmato dal nichilismo, da un ritorno preponderante di Dio o da una combinazione delle due cose. Lo scoppio della bolla digitale, appena precedente, e la successiva crisi finanziaria del 2008 hanno fatto il resto e scatenato una serie di eventi che ci ha portato all’età della rabbia di cui scrive Pankaj Mishra. Secondo Mishra, gli ultimi trent’anni sono stati un’illusione, l’esito obbligato dell’ideologia neoliberale e la causa primaria delle rivolte populiste e antiliberali (l’elenco del rancore antisistema si aggiorna di mese in mese: Brexit, Trump, No alle riforme italiane, diffusione di sovranismi ed estremismi di ogni tipo).

Innovazione e creatività hanno migliorato il mondo: un operaio di oggi sta molto meglio di un super ricco di due secoli fa. L’Economist si era chiesto se fosse meglio essere un monarca medievale o un umile impiegato in unuffi cio moderno. Il Re, ha ricordato il settimanale britannico, aveva un esercito di schiavi, vestiva le sete più pregiate e mangiava il cibo più buono, ma non aveva rimedi contro il mal di denti, impiegava settimane per muoversi da un palazzo all’altro, poteva morire a causa di una banale infezione e non ne poteva più di sentire sempre gli stessi buffoni di corte. La vita dell’impiegato moderno improvvisamente appare straordinaria se si pensa a dentisti, antibiotici, aerei, smartphone e YouTube. La globalizzazione non è un’ingiustizia, è un’ingiustizia essere esclusi dalla globalizzazione, aggiungo io. Ma non si può negare, come ricorda Mishra, che l’automazione abbia ridotto i posti di lavoro e aumentato l’insicurezza globale. Le diseguaglianze sono, o appaiono, maggiori di prima; le informazioni circolano più liberamente e penetrano la società fino a raggiungere sacche ignorate dai canali tradizionali dell’opinione pubblica; il progresso tecnologico disintermedia, cioè indebolisce le organizzazioni politiche e sociali (i partiti, i sindacati, i giornali e le famiglie) che facevano da flltro e garantivano la mediazione tra le istituzioni e il Paese reale. Ecco spiegata la rivolta degli esclusi contro gli inclusi, dei non protetti contro i garantiti, dei molti contro l’élite.

Lo sconfinato ottimismo di Pinker ha il difetto di essere fideistico e per certi versi ridicolo. Lo dico pensando che il professore di Harvard in realtà non abbia torto, perché i progressi compiuti dall’umanità sono formidabili, perché non si può tornare indietro e perché è molto probabile che le cose continueranno a migliorare. Ma allo stesso tempo non è razionale sostenere, come si legge in Enlightenment Now, che le ingiustizie della società contemporanea si risolveranno da sole, semplicemente continuando ad avere fiducia nella ragione e nel progresso. David Cameron, Hillary Clinton e Matteo Renzi potrebbero testimoniare che non è così.

Non credo però che il quadro pessimista fornito da Mishra nell’Età della rabbia sia quello corretto, anche se oggi è certamente maggioritario. La sua analisi è molto realistica, un colpo dritto al cuore di chi crede nella ragione e nel progresso, ma non offre un’alternativa al sistema democratico, liberale e capitalista, probabilmente perché un’alternativa seria non c’è o, nei casi in cui c’è, moltiplica le contraddizioni, come vediamo in Venezuela, Corea del Nord, Cina, Russia e nei Paesi che si affidano alla sharia. Ed eccolo il punto cruciale della nostra epoca: sbiadito il vecchio ottimismo occidentale, non sappiamo ancora dove ci condurrà questo nuovo pessimismo antioccidentale.

 

Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Studio, ora in edicola.