Attualità

Miralem Pjanic

Il goal-capolavoro contro il Verona, ma soprattutto gli assist e la semplicità che nessuno sembra vedere: era ora che Roma si accorgesse di Pjanic.

di Giuseppe De Bellis

Tutti in piedi: forse Roma ha capito che Miralem Pjanic è un campione. L’Olimpico che si alza al minuto 72 di Roma-Verona e lo applaude come un re in passerella è la speranza che finalmente sia stato compreso. Non bastava sapere che Barcellona, Borussia Dortmund, Bayern Monaco, Manchester United hanno cercato di prenderlo in questi ultimi due anni. Non bastava sapere che a 23 anni uno che ha più di duecento presenze in Ligue 1, Champions League, Serie A ed Europa League non è uno normale. Non bastava il gol con la Lazio da 45 metri, né tutte le volte che, senza segnare, Pjanic ha dimostrato di essere un genio del pallone. Destro-sinistro-testa alta-un tocco-profondità. Serviva un gol come quello col Verona. Qualcosa fuori dal comune, più bello e più difficile dei cucchiai di Totti.

Eccolo, sbattuto in faccia a criticoni e scettici a prescindere. Ai delusi perché niente e nessuno sarà mai come Totti. Roma a volte teme di trovare i campioni, per provare a convincersi che l’era del suo capitano non debba mai finire. Pjanic non sarà mai Francesco. È, però, un talento che in troppi non hanno avuto voglia di vedere, del quale in troppi hanno avuto finora quasi paura. Perché non ha né il fisico, né il carisma del numero uno. Ma ha i piedi e il cervello, il che basta per garantire a lui e al suo calcio di essere speciale.

In quella parabola c’è una storia. C’è la frase che ha detto neanche un mese fa Rudi Garcia: «Pjanic è fondamentale». La Roma giocava la tournée estiva negli Stati Uniti: Miralem sembrava uno dei primi a poter essere ceduto, fino a quella sentenza di Garcia. Fino all’anno scorso era considerato un mezzo mistero per colpa più delle incomprensioni con Zdenek Zeman che delle sue prestazioni. Perché così funziona, certe volte: tu sei quello che un allenatore vede. Uno solo. In quel caso tutto dipende da chi è l’allenatore: se è uno come Zeman, con l’ascendente sul tifo e sulla critica che aveva (e ha) un giocatore rischia di essere bocciato senza possibilità d’appello, di promozione successiva. Qualcosa tipo: «Se Zeman lo mette in panchina vuol dire che non è niente di che». A Pjanic è successo per tutta la prima parte del campionato scorso. Era arrivato con Luis Enrique, come parte fondamentale di quel progetto che non è mai partito davvero per assenza di pazienza e per pregiudizio contro l’allenatore spagnolo. Per vederlo, Zeman ha dovuto aspettare quel gol contro la Lazio da metà campo e soprattutto il gesto rivolto proprio all’allenatore. C’è quell’immagine di Zdenek che guarda il suo secondo e dice: «Ma con chi ce l’ha? Con me?». Sì, mister, ce l’aveva con te che lo trattavi da panchinaro, che non t’eri accorto di avere uno con due piedi meravigliosi, con le idee, la visione, l’evoluzione. Uno di quelli che da bambino era la gioia del mister: guardate Miralem, prima di ricevere la palla sa già che cosa fare.

Guardatelo ora, Pjanic: testa alta sempre. Chiede palla e mentre gli sta arrivando lui guarda a destra, a sinistra e in avanti. Via, un tocco e si va. In profondità o in orizzontale. Uno che sa calciare da ovunque. Uno che può fare qualunque ruolo dal centrocampo in su: ha giocato davanti alla difesa, interno destro, interno sinistro, esterno, trequartista, seconda punta.

Altro? Ai ciechi serviva qualcosa di straordinario. Lui sarebbe un tipo contrario: si possono trovare fenomeni appariscenti e bellissimi da vedere che sembrano cloni di altri giocatori che li hanno preceduti. Poi ci sono quelli che sanno essere il centro del mondo anche facendosi vedere il meno possibile. È il protagonismo dell’essenzialità che s’oppone a quello dell’elaborazione a ogni costo. Lui sarebbe così, però ha bisogno di cose uniche per farlo capire agli altri. Totti un giorno ha detto: «Pianic ha tutto. Dribbling, tiro, lancio, tecnica, inserimento, visione». Sa segnare, sa soprattutto mettere gli altri in condizione di segnare. L’assist man è un genere che non passa, ma viene sconfitto dal pallone. Perché la forza del gol è infinitamente maggiore a quella, per esempio, di un canestro. Conta solo chi la butta dentro, non chi ti permette di farlo. È un destino che non disturba Miralem. Piano, come lo chiamano nello spogliatoio, per assonanza con la prima parte del cognome e per la melodia che passa dai suoi piedi. Guarda quella palla con il Verona, è come se suonasse, come se ti raccontasse che il tocco del piede è solo lo sviluppo di un’idea che ha avuto il tuo cervello. Saperla trattare così è un regalo: Pjanic l’ha avuto e lo condivide con chi lo capisce. A Lione, nel Lione che per cinque anni di seguito ha fatto la Champions ad alti livelli, Miralem era il cocco di Juninho Pernambucano. Uno che ha inventato un modo di calciare le punizioni che hanno preso in prestito anche Pirlo, Cristiano Ronaldo e Gareth Bale. Pjanic sa tirare anche così e ha fatto gol così. Ora, però, se batte una punizione la tira a modo suo. Non ha bisogno di imitare qualcuno, è diverso da molti, a cominciare dal fisico: le spalle strette, l’aspetto da ragazzo ancora immaturo. Dategli una palla in mezzo ai piedi, però. Prima che arrivi ha già visto che cosa accadrà. Per tirare, per passarla a tre metri, per lanciarla con un cambio di campo, per metterla in verticale sui piedi di un compagno. Cose semplici. Cose efficaci. Lo straordinario ha due scopi: è l’accessorio che serve a zittire una folla che ancora non ha capito quanto possa valere Miralem. Oppure è l’unica alternativa per la palla da giocare. Pjanic è uno di quei giocatori che preferiscono questo: il mezzo per raggiungere uno scopo. Gol. Oppure assist: è un gol a metà che nessuno gli riconosce, ma lo fa sentire alla grande.