Attualità

L’onnipotente Nick Cave

È passato dall'underground alla colonna sonora di Harry Potter, e ancora oggi il pubblico continua ad amarlo: ritratto della rockstar che può tutto.

di Edoardo Vitale

Su una bacheca di sughero che ho in casa è appeso un pezzo di carta con scritto «che il mondo sappia che sono morto d’amore». È il verso finale della ballata folk “The butcher boy”, citata nelle prime pagine di The Sick Bag Song (Bompiani), una specie di diario di bordo scritto durante il tour del 2014 da Nick Cave. La considero una pre-autopsia del cantante australiano, dove per amore si intende una brutale voglia di esplorare tutte le persone e le cose che incontra, concedere a tutto di penetrare all’interno della propria creatività per poter essere trasformato in arte, consumando e lasciandosi consumare fino, appunto, alla morte naturale. Una diagnosi di cui saremo già al corrente quando arriverà il momento dei coccodrilli, dei servizi in chiusura al telegiornale, dei video su YouTube condivisi su Facebook dai fan che si scontrano con l’ironia o l’astio nei commenti dei detrattori. Il test che misura il grado di celebrità di un personaggio pubblico nel caso di Nick Cave supera di gran lunga la musica, lasciandola in secondo piano e fuori fuoco rispetto alla propria iconografia.

L’unica volta che ho assistito a un concerto di Nick Cave and the Bad Seeds è stato nel novembre 2013 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. L’uomo glitterato al centro del palco non aveva inevitabilmente nulla a che fare con quello che trent’anni prima ribaltava le bettole australiane e terrorizzava i fonici di mezzo emisfero australe prima e di Londra poi, quando con i Birthday Party si trattava più che altro di fare un gran casino incomprensibile, ubriacarsi e chiudere in bellezza con una rissa mentre qualcuno del pubblico piscia sulla batteria. L’uomo glitterato al centro del palco, più che uno che ti fa cantare dei ritornelli, era un mezzo dio venerato dai presenti. Fu un concerto atipico, per alcuni tratti lo ricordo insopportabile. La musica non era assolutamente il punto della questione: dopo un paio di pezzi il pubblico ruppe l’ordine dei posti a sedere perché lo stesso Cave si gettò tra la folla per esserne strattonato e inghiottito in pochi secondi. Dopodiché trascorse il resto del tempo a bordo palco, dove una selva di braccia lo tenevano per la giacca, per i pantaloni, lo accarezzavano come un santo. Avevo già visto scene del genere in alcuni video dei concerti della band, ma vederlo dal vivo fu strano, anche perché in pochi cantavano le canzoni.

Nick CaveNick Cave non è un estroso, non ha particolari doti né come musicista né come cantante e da questo punto di vista non può essere considerato un genio, come spesso abbiamo bisogno di considerare chi sa conquistare i favori del pubblico. Ha attraversato i decenni mettendo i piedi in contesti culturali totalmente differenti l’uno dall’altro uscendone sempre indenne: muovendosi tra le linee prima del post-punk e della new wave, collaborando con artisti avversi alla celebrità come Lydia Lunch – una la cui pagina Wikipedia si apre con la citazione «voglio essere umiliata se qualcosa di quello che faccio dovesse diventare un successo commerciale» – pur non disdegnando un cameo nella scena finale de Il cielo sopra Berlino di Wenders; poi è uscito dagli anni Ottanta e dall’eroina come se niente fosse, e compare nei dischi dei Current 93 di David Tibet, nel lato pacato del calderone neo-folk, un mondo che eppure non c’entra niente con quello di Mtv dove negli stessi anni lo si vede duettare con Kyle Minogue, apparendo a proprio agio in entrambi i contesti. Così come, abbandonata l’immagine del giovane ribelle con il mozzicone di sigaretta penzolante dalle labbra, oggi appare a proprio agio nelle vesti della rockstar ai limiti del caricaturale, con i capelli tinti, appartenente a un culto della persona che quantomeno nel rock’n’roll è in via di estinzione.

Con queste premesse, e con la minaccia di sputtanarsi dietro ogni angolo, Nick Cave appare come un’entità non umana che passa in mezzo alla sparatoria immune ai proiettili, il pubblico continua ad amarlo e rispettarlo, nonostante appartenga a un mondo passato di continuo sotto al vaglio della coerenza come valore inestimabile. Come fa a essere attendibile uno che prima cantava «my blood was blacker than the chambers of a dead nun’s heart» e poi cede un pezzo alla colonna sonora di Harry Potter? A maggior ragione perché Nick Cave non ha per niente l’aria di essere uno che si cimenta in quello che ha voglia di fare, senza curarsi delle conseguenze e senza artifici: la risposta sta nel mantenere intatto il bisogno primordiale d’esibizionismo di un qualsiasi tredicenne che si fa espellere da scuola e decide di mettere su una band.

Riecco l’amore e la predisposizione a esplorare tutte le persone o le cose che incontra con curiosità e egocentrismo: Nick Cave è il primo ad ammettere di “cannibalizzare” qualsiasi momento della propria vita privata per metterlo nei suoi testi, ancora in The Sick Bag Song racconta di una notte passata a comporre, si direbbe morbosamente, canzoni dopo una chiacchierata con un Bryan Ferry che gli aveva confessato di non riuscire a scrivere una canzone da tre anni, per poi scoppiare in lacrime sentendosi un vampiro delle vite altrui.

Se nei primi dischi di Nick Cave emerge più che altro il magma di una personalità angosciata, guidato dalla fidanzata musa ispiratrice (e sovente autrice) Anita Lane, a partire dagli anni Novanta i testi e le vicende personali si legano indissolubilmente: scappa in Brasile e nasce il primo figlio dall’amore con Viviane Carneiro, tutto riscontrabile nei dischi The good son e Henry’s dream. Nick Cave è un uomo che ama, che soffre, che non dorme, che prende costantemente appunti e ci tiene a fartelo sapere. Può essere piantato come tutti e finire con il cuore spezzato, ma non tutti possono farci un disco intero da ricamare con livore e passione sfrenata come The boatman’s call nel quale in almeno un paio di pezzi (“West Country Girl” e “Black hair”) si racconta della storia d’amore finita male con PJ Harvey. Cosa ama di più il pubblico se non la messa in mostra della vita di una rockstar? Certamente elaborata in chiave artistica e narrata attraverso una lirica raffinata come quella di Cave, non di certo uno qualunque con carta e penna.

Nick Cave al Coachella

Poi il matrimonio con l’altra musa, Susie, e altrettanti dischi che raccontano del loro amore – su tutti No more shall we part uno dei più autobiografici, quasi delle vere e proprie cronache in pezzi come “Oh my lord” – fino a farla comparire sulla copertina di Push the sky away e coinvolgerla in prima persona nel documentario di prossima uscita One more time with feeling nel quale i due raccontano la tragica morte del figlio sedicenne, caduto da una rupe imbottito di lsd nell’estate del 2015, mentre Cave registrava l’ultimo disco con i Bad Seeds, Skeleton Tree.

In mezzo a questo forse l’apoteosi di questo darsi in pasto al pubblico senza risparmiarsi, il documentario 20.000 days on Earth nel quale si racconta una giornata del cantante durante le registrazioni di un disco, una giornata che comprende una seduta dallo psicologo, con annessi racconti sull’infanzia e il rapporto con il padre, un salto nel proprio archivio personale, pieno di foto e oggetti conservati negli anni, fino alle inquadrature nell’ufficio, di fronte alla macchina da scrivere, circondato da scartoffie Nick Cave appare come un impiegato qualsiasi mentre scrive e compone musica e testi, poi in studio mentre registra si fa operaio e si sporca le mani, agisce, mostra le proprie insicurezze, finge spudoratamente, recita, oppure no, tira fuori i propri diari, è la celebrità che fa il suo dovere come un lavoro e con estremo impegno, appare nella vita di tutti i giorni che ci mostra mentre mangia una pizza sul divano con i due gemelli come un padre qualsiasi, ma tutto il mondo piange la morte del figlio se lui piange la morte del figlio. È umano nei suoi turbamenti, è dio perché può tutto.