Attualità

La fine della coda

Approfittando dell'uscita dell'Apple Watch, Cupertino ha deciso di mettere al bando le lunghe attese fuori dai suoi negozi.

di Pietro Minto

L’eta d’oro di Apple, quella in cui ogni nuovo prodotto cambiava un pezzo di mercato e una decina d’abitudini collettive, ha coinciso con l’età d’oro delle code, quelle di migliaia di persone disposte ad accamparsi per giorni fuori da un Apple Store per mettere le mani sul nuovo gadget prima del resto del mondo. Un rito collettivo degno del culto pagano e capitalistico fondato dall’azienda di Cupertino, una sorta di via Crucis del fan boys: l’attesa, il dolore, l’incertezza e infine la luce ben impacchettata. Proprio come in un rito religioso, poi, solo ai più fortunati – i primi della fila, altro che gli ultimi – spettava una grande festa e un girotondo con i dipendenti Apple. È stato così per anni, un’assurdità alla quale ci siamo abituati ben presto. E che Apple vuole concludere per sempre.

In un comunicato aziendale pubblicato dal sito Business Insider Angela Ahrendts (ex Ceo di Burberry, ora responsabile delle vendite e dei punti vendita Apple) ha annunciato «un notevole cambio di mentalità» nei confronti della questione: gli acquirenti devono essere spinti ad «evitare l’Apple Store» in occasione di nuove uscite preferendogli l’acquisto online; la disponibilità di prodotti nei negozi verrà quindi «limitata» e la prenotazione o ordine online sarà sempre più prioritaria (com’è successo per il lancio dell’Apple Watch nel Regno Unito, dove la trafila online era obbligatoria). Il memo inizia proprio con queste parole: «I giorni delle attese in coda e delle dita incrociate per avere un nostro prodotto sono finiti». È quindi un tramonto, la fine dell’epoca in cui scene come queste erano considerate “inevitabili”:

Ma se davvero si tratta di un tramonto, che cosa l’ha provocato? Le cause sono almeno due e le vediamo subito di seguito. Prima però un dato: nel primo giorno di vendite Apple ha venduto quasi un milione di esemplari di Apple Watch, la cifra totale si aggira attorno ai 2,3 milioni.
Il primo problema, logistico, è la maggiore efficienza garantita dall’acquisto in rete, al quale Apple ha sempre prestato attenzione – è bene ricordare che il primo “Apple Store” voluto da Steve Jobs, nel 1997, fu quello digitale – e che non conosce problemi di rifornimenti, turni e saracinesche abbassate. È semplicemente sempre lì, febbrilmente monitorato. Questo è il nuovo corso di Apple: si va sul sito dopo aver visitato un negozio “fisico”; quest’ultimo, quindi, dovrà diventare più simile a uno showroom, un luogo in cui informarsi, provare dispositivi per poi pensarci su. E, nel caso, comprare online.

Il secondo motivo si discosta dal freddo calcolo logistico e si insinua in quel torbido mondo tanto caro ad Apple e che chiamiamo user experience. E qui una constatazione è d’obbligo: le code davanti agli Apple Store, per quanto note (famigerate) e spesso sintomo dell’opulenza di Apple, fanno schifo. Hanno sempre fatto schifo. E non solo a me! Anche ad Apple, che da quest’anno ha portato la sua immagine di azienda “di lusso” a un livello superiore mettendo in vendita uno smartwatch che può costare dai 350 ai 17mila dollari. E sono soprattutto agli acquirenti della versione Deluxe (prezzo di partenza: 10mila dollari) che Ahrendts aveva in mente mentre metteva al bando le file: l’user experience per un prodotto simile dev’essere lussuriosa ed esclusiva come il gadget a cui si riferisce. Gli emiri che compreranno un orologio da 17mila dollari (non devono per forza essere emiri ma nella mia mente sono tutti emiri) non sono abituati alla folla: vogliono un prodotto unico, desiderano un trattamento personale, avere un Apple Genius come spalla amica per tutto il pomeriggio. E infatti proprio a questi acquirenti Apple ha deciso di offrire appuntamenti privati e una notevole assistenza 24 ore su 24. Con un trattamento del genere la tempistica con cui si compra un prodotto non è più importante: conta il prodotto e come ce lo si procura.

Apple ha assunto, oltre alla citata Angela Ahrendts da Burberry, personale da Yves Saint Laurent e altri marchi d’alta moda.

Il 2015 sarà un anno di svolta per il colosso californiano, cominciato con l’uscita dell’orologio (primo prodotto totalmente post-Steve Jobs e fortemente voluto dal responsabile design Jony Ive), un prodotto che mira ad avere un successo enorme e per cui è stata prevista una fascia d’acquirenti altissima e inedita. Per realizzarlo hanno assunto, oltre alla citata Angela Ahrendts da Burberry, personale da Yves Saint Laurent e altri marchi d’alta moda. Per affinare la versione Deluxe dell’orologio, certo. Ma soprattutto per capire come venderlo – e il team ha dato una risposta chiara additando la coda, quell’agglomerato di fanboys con le loro seggiole, i loro sacchetti pieni di rifiuti ed escrementi (l’attesa era lunghissima e non ci si poteva mica recare al bagno, pena perdere il posto), il loro baccano e furore.

La fine della fila made in Cupertino è ovviamente anche la morte della bizzarra sottocultura che vi si era sviluppata: un piccolo sottobosco di gente e abitudini nate nei pomeriggi e nelle notti passate al riflesso della grande mela illuminata. Tra i suoi grandi protagonisti c’è sicuramente Greg Parker, muratore statunitense con l’hobby della comparsa televisiva particolarmente per il suo ruolo di “man on the street” nelle televisioni americane, una specie di John Doe a cui i mezzibusti chiedono pareri sugli argomenti più disparati sempre certi di ricevere risposte a stelle e strisce. Parker è col tempo diventato anche il Primo Nella coda per antonomasia: Greg è sempre stato lì, alla testa della gruppo, una posizione che – è una bizzarra regola di questo sottobosco – gli spettava di diritto. Nel 2012, in occasione dell’uscita del nuovo iPad, Joshua Topolsky (allora direttore di The Verge) cercò di carpirne il segreto chiedendogli come facesse a mantenere la testa della fila pur facendo pause per il bagno. Greg reagì in modo protettivo e aggressivo: «Test me to find out», mettimi alla prova se vuoi scoprirlo.

«C’è di mezzo un’arma?» chiede ancora Topolsky.
«Test me to find out» risponde Parker.
«Mi faresti del male? Mi uccideresti?», continua il giornalista
«Test me to find out» ripete Parker, nel suo volto non c’è traccia di ironia.

Si tratta di una sequenza in grado da sola di spiegare il tramonto delle code, ma non è ancora tutto: il «cambiamento di mentalità» di Apple è conseguenza di un profondo cambiamento avvenuto nel mercato, una tendenza ben rappresentata da Warby Parker, azienda specializzata nella vendita di occhiali e dotata di una catena di negozi che accompagnano e migliorano l’user experience, lasciando la parte finale della transazione alla rete.

Ironia della sorte, gli Apple Store contengono la parola “negozio” nel loro stesso nome pur essendo destinati a sfumare in un ambiente anfibio e sospeso tra l’online e l’offline. Rimarranno i Genius e la loro assistenza “fisica”, rimarranno i dispositivi in prova ma i commessi non avranno la missione di scucire soldi di persona agli avventori: a quello – anche a quello verrebbe da dire – ci penserà qualcos’altro, la grande macchina di Apple che del resto ha sempre trattato i suoi store più da musei del design che da negozietti.

Nell’immagine in evidenza: Rami Shamis, primo della fila per l’iPad Air, novembre 2013 a New York City (NYC Spencer Platt/Getty Images)