Attualità

Kevin Spacey, sociopatico definitivo

Tecnicamente, non distrugge le vittime, si limita a facilitarne l'autodistruzione. Ritratto di Frank Underwood, in tutte le sue varianti già interpretate da Spacey, in occasione della seconda stagione di House of Cards.

di Anna Momigliano

Amo quella donna, la amo più di quanto gli squali amino il sangue.
(Kevin Spacey, House of Cards)

«Dieci anni fa, nessun agente hollywoodiano mi avrebbe permesso di recitare per la TV dopo due Oscar», raccontava la scorsa estate Kevin Spacey, ospite del Guardian Edinburgh International Television Festival. «Figuriamoci recitare per qualcosa in streaming».

Passare dal grande schermo ai piccoli, molteplici schermi di computer, laptop e tablet è precisamente quello che è successo a Spacey da quando è diventato l’attore primario di House of Cards, punta di diamante della programmazione Netflix, e, di conseguenza, poster-boy della nuova età dell’oro delle serie TV (dove la parola “TV” va intesa in senso lato) nell’era dello streaming a pagamento.

*** attenzione, qui si rivela qualcosa de I Soliti Sospetti e Seven: se è il caso di mettere uno spoiler alert per due film usciti al cinema negli anni Novanta, eccolo qui ***

Oggi Kevin Spacey, già il Keyser Söze de I Soliti Sospetti, lo psicoticotico omicida di Seven, nonché il padre arrapato di American Beauty – il primo ruolo gli è valso un Oscar come migliore attore non protagonista, l’ultimo come protagonista – non è soltanto uno dei volti più amati dagli amanti della TV fatta bene (anche qui, la parola “TV” va intesa in senso lato). È l’icona del “modello Netflix” e di tutto ciò che esso comporta. Non è soltanto la dimostrazione delle enormi possibilità narrative dello streaming: ne è un fan entusiasta e, all’occasione, un teorizzatore. A questo proposito: il suo discorso di Edinburgo sul modello Netflix è interamente disponibile su YouTube e, per chi ha tempo – son tre quarti d’ora – merita di essere guardato.

Già pupillo di Jack Lemmon, quello di A qualcuno piace caldo, che gli consigliò di fare l’attore da grande quando Spacey, in realtà già venticinquenne, partecipò a un seminario per studenti di arti drammatiche nel 1974, muove i primi passi a teatro, dove tra le altre cose recita con Lemmon in una produzione di Long Day’s Journey into Night del 1986: anche in quest’occasione, Lemmon gli conferma che la recitazione è la sua strada. Poi qualche ruolo al cinema, in TV, e, infine, il successo conclamato con I Soliti Sospetti. Che, come ha recentemente notato la LA Review of Books in un pezzone pubblicato in occasione dell’uscita in America della seconda stagione di House of Cards, ha dato il là a una carrellata di personaggi, apparentemente diversissimi tra loro, eppure accomunati da una maestria squisitamente spaceyiana nel ritrarre, beh, dei totali sociopatici.

Non è soltanto un carnivoro senza scrupoli. Annusa il sangue delle vittime, non sa resistere a quell’odore metallico, né di resistere avrebbe ragione.

«I think people just like me evil for some reason. They want me to be a son of a bitch», ha detto l’attore in un’intervista a Entertainment Weekly. Che da un lato sa un po’ di paraculata, è che mi disegnano così, quasi non dipendesse pure da lui l’essere così bravo in certi ruoli, ma che d’altro canto è una piccola verità: non si può non amare i figli di puttana interpretati da Kevin Spacey. Anche perché, come vedremo più in là, non sono semplici figli di puttana.

*** spoiler alert numero due: qui si rivela qualcosa, ma giusto qualcosina, eh?, della prima stagione di House of Cards, che molti di voi avranno già visto sull’Internet e che a Dio piacendo arriverà su Sky in un prossimo futuro ***

Partiamo dall’uomo del momento: Frank Underwood, il mefistofelico majority whip del Congresso, nonché Segretario di Stato mancato, attorno a cui ruota la vicenda di House of Cards. Ah, la creatura di Netflix è in parte un adattamento della mini-serie omonima mandata in onda dalla Bbc nel 1989: lì il protagonista era un tale Francis Urquhart, politico conservatore, una figura vagamente ispirata a Lord Macbeth e Riccardo III, giusto per rendere l’idea. Underwood, dotato di un fascinosissimo accento del Sud (che mi risulti, non dice mai ya’ll, ma è come se lo dicesse), è uno squalo, in ogni senso fuorché quello letterale. Non è soltanto un carnivoro senza scrupoli. Annusa il sangue delle vittime, non sa resistere a quell’odore metallico, né di resistere avrebbe ragione. Attacca gli animali feriti, che sappiano o meno di esserlo, divora al momento giusto.

Anzi, ora che ci penso, divora quasi sempre, ed è questa forse l’unica pecca di House of Cards, e cioè l’avere messo in scena un Congresso che, al netto del protagonista, è composto in gran parte da pecorelle disposte a farsi sbranare: c’è Underwood, che è un uber-machiavellico genio del male capace di calcolare ogni mossa con precisione millimetrica, poi ci sono tutti gli altri, che sono deboli, masochisti o semplicemente pirla quanto basta per farsi infinocchiare. Alcuni, a onor del vero, fanno semplicemente il passo troppo lungo della gamba, così a tratti la panoramica è quella di un vaso di ferro tra vasi di coccio, altre volte quella di un vaso più di ferro degli altri.

Il fatto è che Frank Underwood non distrugge propriamente l’avversario. Il più delle volte si limita a facilitarne l’autodistruzione. C’è un deputato idealista che deve essere gettato in pasto ai media? Basta alimentare il suo anelito al sacrificio al momento giusto. C’è un giovane politico che qualche tendenza autodistruttiva ce l’ha già di suo, ma da qualche parte conserva ancora uno scampolo di coscienza? Si può sfruttare una cosa per alimentare l’altra, fino a trasformarlo in una pedina.

C’è qualcosa di meravigliosamente inquietante nel tono di falsa intimità con cui Kevin Spacey si rivolge direttamente allo spettatore

Per chi nutrisse dubbi, queste cose le spiega lo stesso protagonista, rompendo spesso la quarta parete per esplicitare al lettore, per filo e per segno, cosa sta succedendo. Ora, a prima vista anche questa potrebbe sembrare una debolezza narrativa: se è vero che le serie TV sono il nuovo romanzo, e se è vero che il romanzo è l’arte del non detto, allora c’è qualcosa che non funziona in House of Cards, dove il sottotesto c’è, ma dura poco, che poi arriva la spiega. Eppure, come ha fatto notare LA Review of Books, c’è qualcosa di meravigliosamente inquietante nel tono di falsa intimità con cui Kevin Spacey si rivolge direttamente allo spettatore: «Come Bill Clinton, il personaggio interpretato Spacey è magistrale nel creare l’illusione che un politico ci sta prestando un’attenzione individuale, e questa illusione è meglio di una realtà in cui i nostri rappresentanti dividono la loro attenzione non solo tra gli altri elettori, ma anche tra gli interessi forti e gli intermediari del potere che finanziano le loro carriere».

Ed è proprio nel suo creare false intimità, nel sedurre il prossimo ad abbassare la guardia, o ad assecondare le proprie inclinazioni sacrificali, prima ancora che nella voracità con cui divora le sue prede, che Underwood è il sociopatico definitivo. Almeno se per “sociopatico” intendiamo la definizione che TV Tropes fornisce del termine: «Unite alla determinazione a oltrepassare qualsiasi confine morale senza un briciolo di senso di colpa, un’acuta perspicacia delle debolezze altrui e una mancanza di empatia».

Se ci pensata, è lo stesso gioco dell’assassino di Seven, quando induce Brad Pitt a consumare la sua vendetta (il pezzo di LA Review of Books, dove la parola “sociopatico” non compare, si sofferma proprio su questo parallelo). Oppure, in maniera più sottile, da Keyser Söze nello sviluppo di gran parte del film. Il gioco di una mente fredda e al contempo dotata di un’intelligenza emotiva non comune. Un genio spietato, ma non algido – non del tutto, almeno – che con l’empatia ha un rapporto complesso: non prova dolore per le emozioni altrui, ma le sente, oh come se le sente, le sa ascoltare, le annusa, proprio come uno squalo annusa il sangue.

Per una ragione o per l’altra, pare che interpretare sociopatici sia la specialità di Kevin Spacey, che, come alcuni bravi romanzieri scrivono sempre lo stesso romanzo, anche un attore possa interpretare sempre lo stesso ruolo, in mille sofisticate varianti, senza per questo appiattirsi su di un singolo personaggio. Alla gente, dice lui, piaccio cattivo. E infatti c’è qualcosa di irresistibile nei bastardi calcolatori interpretati da Kevin Spacey, qualcosa che te li fa amare come gli squali amano il sangue.

 

Nell’immagine: screenshot da YouTube, House of Cards