Attualità

Go Ask Alice

Adolescenti e droga, fiction spacciata per memoria. O dell'utilità di filone para-letterario

di Violetta Bellocchio

A diciassette anni ho comprato il diario di Jim Carroll. L’ho letto in spiaggia. A pagina 40 ho deciso di eliminare le parti residue della mia verginità, e soprattutto di cominciare a drogarmi il prima possibile.

L’ho prestato tanto tempo fa, il diario, e non ricordo dopo quante pagine Carroll si sta infilando in bocca anfetamine, raccontandolo con l’ennui di chi copia un compito in classe, in compenso mi ricordo benissimo le gemelle, la scena del gatto e quando lui va con le vecchie per comprarsi l’eroina. (O rubare il Seconal dalla loro borsetta? Tutte e due?). Io sono il peggiore argomento a favore della tesi per cui saremmo destinati a ripetere quello che vediamo, ascoltiamo e leggiamo, anche se poi la rifiuto, quella tesi, perché un’opera d’arte va protetta dai nostri fantasmi. Però non mi lamento: fossi nata vent’anni prima, avrei preso in mano Go Ask Alice.

Edito in Italia da Feltrinelli, che rettificò il titolo originale con un pulitissimo Alice: i giorni della droga, lo possiamo prendere come il primo esempio su carta di quello che sarebbe diventato il confessionale dei reality show; un diario in prima persona che promette di “raccontare come vanno davvero certe cose”, senza poi rivelare nulla o quasi. La trama è semplice. Una quindicenne di buona famiglia cade nel vortice dell’Lsd, ne ricava manicomio, stupri e vagabondaggio, riesce a disintossicarsi ma alla fine muore lo stesso, forse suicidio, forse overdose accidentale. (Di cosa? Non c’è scritto.) Una storia tragica, quindi esemplare, affrontata con un taglio anti-droga come cinque unghie sulla lavagna, per cui si passa dagli acidi al buco di speed in meno di una settimana, e uno spinello è molto peggio che un buco di speed. E il messaggio è forte e chiaro. Che vi serva da lezione! Alice ha fatto la finaccia! Non finite come Alice!» (Che non si chiama Alice, ma nessuno ci bada.)

Fu pubblicato come “autore anonimo” nel 1971, editato da una terapeuta con credenziali accademiche non chiare, Beatrice Sparks, che per i primi otto anni di vita del libro rimane nell’ombra. Avete capito che era un falso dieci righe fa.

È facile accanirsi su un oggetto invecchiato orribilmente, il cui valore storico si ferma alla curiosità, e al cui statuto di verità non crede più nessuno. Oggi lo si considera un prodotto dei suoi tempi, oppure un precoce apripista del metodo Grande Fratello: la realtà della rappresentazione è per forza un po’ alterata, anche solo dalle scelte di montaggio, figuriamoci se poi ci sono dubbi sull’autenticità della storia narrata. All’epoca, la curatrice continuò a dire che c’era stata una vera “Alice”, che aveva passato del tempo con lei e con la sua famiglia, e che i diari originali erano chiusi in un armadio nella sede dell’editore Prentice-Hall. A essere messe in dubbio per prime, però, furono le credenziali educative di Sparks. Non il punto di vista della Povera Alice, che non si chiama Alice. Non la lingua del libro, che palesemente non esisteva. (Segnatevela, ci torniamo tra poco).

Alla fine degli anni ’70 cominciò l’industria. Il libro continuava a vendere, era considerato un classico da due tipi di pubblico diversi. (Ho detto a tra poco.) La frase “dalla stessa editor di Go Ask Alice” diventò un marchio, la prova che sì, avevamo di fronte una nuova storia vera, una nuova cronaca di adolescenti crocifissi con i nomi cambiati per garantire che le loro lapidi non fossero vandalizzate. La scusa trovata per questa iper-produzione di orrore: il successo aveva depositato sulla soglia di casa Sparks mucchi e mucchi di veri diari, spediti a lei da genitori affranti ma determinati a evitare che i giovani là fuori commettessero gli stessi errori dei loro figli. E almeno una volta andò davvero così: alla base di Jay’s Journal c’era stato un liceale suicida, Alden Barrett, la cui madre ne aveva condiviso le memorie «perché potesse aiutare altri ragazzi depressi». Sparks lo fece diventare un esperto di magia nera. Forse perché, all’epoca, l’esoterico tirava da bestia.

Veniamo al punto, giusto.

I libri curati da Beatrice Sparks non erano buoni falsi. Nel senso: non erano falsi verosimili. Gli indizi erano tanti, se restiamo sulla serie nel suo complesso. C’era un limitato numero di ossessioni tirate fuori dal cilindro a ogni libro (il sesso prima del matrimonio! le cattive compagnie!); c’era la quantità di tragedie che la vecchiaccia spruzzava addosso a protagonisti per cui l’unica speranza sarebbe stato l’esorcismo o fuggire sui monti; c’erano preoccupazioni sospette, se si ripetevano a ogni storia («non sono abbastanza brava», «dovrei essere una brava ragazza, ma…»), e c’era l’uso di uno slang almeno due decenni troppo vecchio, messo in bocca a tutti i narratori. (Anche lì: possibile che nessuno ci abbia rimesso le mani, anticipando l’obiezione? Eravamo tutti più stupidi e più felici, allora?). La polemica intorno ai diari di Carroll girava intorno al “…sì, ma lui scriveva così bene già da ragazzino?”; nessuno lo accusava di aver inventato nulla, al massimo di essersi riaggiustato addosso la prosa dopo i vent’anni. C’era il linguaggio reale, c’erano le tracce del suo passaggio in vari luoghi, dalle scuole dei preti al carcere minorile. Di Alice non c’era nulla. Nessuno si fece avanti, mai, nemmeno per dire «la conoscevo, era una zoccola». Questo nonostante le vendite, le biblioteche che lo mettevano al bando, il film per la TV che ne fu tratto nel ’73. Un mondo occidentale che stava già producendo memoir di successo, con autori che ci mettevano la faccia e sapevano reggere le domande, tollerava una simile incongruenza.

Sul piano editoriale, quella che si sarebbe affermata sarebbe stata la pratica del falso verosimile – il prodotto di fiction spacciato per testimonianza in quasi-diretta, purché ci sia un dramma di mezzo. Conoscete il genere. (Per tentare un paragone con il passato recente; i libri del falso JT Leroy sono stati abbracciati da tanti proprio per l’incredibilità della storia raccontata, e per l’impasto lingua-tono-ritmo, che al suo pubblico piaceva molto.) Se i “diari” alla stregua di Alice venivano ancora prodotti nel 2005, il desiderio era di mantenere viva la letteratura della paura, vuoi per secco calcolo economico-religioso-morale, vuoi per autentico desiderio di “mettere in guardia” il prossimo sui pericoli della contemporaneità.

E una certa sfumatura religioso-missionaria non sta nell’occhio di chi legge. Sparks era Mormone, e osservante, ma la sua affiliazione alla Chiesa non fu resa esplicita per anni. (Se qualcuno tenterà un’analisi comparata di Alice e Twilight, in termini di prosa e di punto di vista, troverà pane per i suoi denti.)

Ecco, però, al netto dei Mormoni e dei fanatici che si fiondavano su libri simili e che oggi passano, io credo, la giornata su Christwire prendendo tutto per molto ben ponderato, potevano essere queste le due forti categorie di pubblico:

1. genitori, insegnanti e adulti preoccupati, magari con ragioni legittime, che non sapevano o non volevano fare domande dirette ai loro figli;

2. minorenni ansiosi di dare un’occhiatina alle nefandezze che si stavano perdendo.

Questa, lo dico con affetto, è la bellezza dell’impunibilità: usare per divertimento quello che dovrebbe spaventarti. Come affittare un film dell’orrore e mandare avanti veloce guardando solo gli omicidi. (O come far interpretare Beatrice Sparks dalla nonnina dell’ACE, e ribattezzarla “la vecchiaccia”.) Lo stesso, per una quantità di futuri tossicodipendenti, Alice è uno dei ricordi infantili più chiari: una delle prime sbirciate agli orrori che poi avrebbero sentito il bisogno di toccare con mano. Patty Powers l’ha citato in una lista che comprende Lenny e la biografia di Billie Holiday. Ha scritto, «io amavo l’idea della droga molto prima di cominciare a farmi davvero; amavo la propaganda anti-droga inserita in un racconto di formazione».

E’ anche stato fatto notare come nessuno di questi finti diari porta in scena un protagonista che sceglie di fare una Brutta Cosa. Alice viene drogata a sua insaputa, la prima volta; le sue compagne di fiction sono ragazze incinte e/o sieropositive perché stuprate dal fidanzato, ragazze traviate perché hanno professori papponi, ragazze anoressico/bulimiche perché corrotte dalla ginnastica artistica, eccetera. Nessuno è responsabile e firmatario della sua distruzione. E questo, al discorso generale sulla paura, fa molto comodo.

Beatrice Sparks è morta lo scorso maggio, senza dare spiegazioni a nessuno. Sto immaginando la sua casa.