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Manganelli e il trauma dell’Africa

È uscito per Adelphi Viaggio in Africa, un libricino scritto quarant'anni fa e fino a oggi rimasto inedito.

di Gabriele Di Fronzo

Critico letterario, docente universitario, traduttore di Edgar Allan Poe, poeta in gioventù, partigiano, membro del Gruppo 63, presidente del Comitato di Liberazione, vicepresidente di sezione e commissario per gli intellettuali e la propaganda per il Partito comunista italiano, consulente editoriale, saggista, collaboratore dei più autorevoli giornali italiani tra cui il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, L’Europeo, Il Mondo, L’Espresso, Aut e Playboy: ecco, per difetto, Giorgio Manganelli. E se la sua carriera di illustre traduttore vide l’alba nel 1946 con Fiducia di Henry James, più a lungo aspettò a sbucare la vena di corsivista. Debuttò sulle pagine di Quindici nel giugno del 1967 con un articolo indimenticato: “Obiezioni al divorzio”, così si intitola. Dimostrandosi un raffinatissimo eversore paradossale, l’autore si dice rattristato della legittimità del divorzio, perché questo affosserebbe l’adulterio, a suo dire l’ultima istituzione rimasta in vita in Italia. Giorgio Manganelli coniò per sé un punto di vista follemente iperpersonale, originale fino alla stramberia, in cui «gli si concede, anzi si vuole che egli straparli, scioccheggi, straloghi, berlinghi, fabuli, e affabuli, concioni agli inesistenti, spieghi carabattole», come scrive di se stesso nel risvolto di copertina di Discorso dell’ombra e dello stemma, o, del lettore e dello scrittore considerati come dei dementi. Nelle iridescenze della scrittura si intravede il ghigno del giullare, la sua sorprendente guitteria. Ma fu svelto Italo Calvino, in una lettera del 25 ottobre 1972 in cui tra l’altro benediceva quei «proficui disorientamenti dei critici e festosi assembramenti di pubblico» di cui lui solo era capace, a rendergli merito anche per le sue eccezionali qualità di «descrittore di metropoli e costume». Giorgio Manganelli, già esimio in ogni pratica cerebrale gli capitasse a tiro, si rivelò infatti presto un esimio viaggiatore.

Del resto, visto che, a suo dire, l’Italia è il Paese in cui «se una ragazza sposa in bianco, si può star certi che il padre o il fratello sono all’ergastolo»; dove gli ospedali trattano il malato «come un burlone che si è tinto le guance con l’ombretto, si è messo il rimmel sulle labbra e fa finta di svenire»; i cui giochi televisivi «rammentano quei sadici spettacoli rinascimentali, in cui esseri ingegnosamente stravolti divertivano con le loro membra contraffatte i cortigiani fastosi e spietati»; e più che un Paese è «una fonte inesauribile di aneddoti, come uno zio che beve, un ex-garibaldino, un cugino che studia il moto perpetuo, e uno zio che vuole decifrare l’etrusco»; considerato ciò, è palese che Giorgio Manganelli ritenesse salutare espatriare di tanto in tanto. Lui diceva che “giova”.

Carlo Castaldi era un dirigente intraprendente e quando, nel 1970, la multinazionale Bonifica per cui lavorava programmò di tracciare una strada lungo la costa dell’Africa Orientale, decise di avvalersi di una equipe speciale da inviare in loco. Una fotografa, qualche ingegnere e uno scrittore. Per quest’ultimo ruolo pare avesse individuato due candidati. Volendo scegliere il più adatto domandò allora alla moglie, Silvana Radogna, psicanalista discepola di Ernst Bernhard, di interrogare i tarocchi. E a ogni mano, ostinatamente, dalle carte usciva lo stesso nome. Giorgio Manganelli andò a cena nella villa spoletina di Castaldi e qualche giorno dopo firmò il contratto per quel viaggio. Una paga di tre milioni di lire per tre mesi, e un rimborso di quaranta milioni a beneficio della figlia Lietta se fosse deceduto. Si vaccinò, comprò una piccola grammatica swahili, le mappe e le grappe. Poi vestì un completo kaki e si calcò in testa un berretto con visiera. Andrea Cortellessa nella postfazione a La favola pitagorica, volume che raccoglie i reportage di Manganelli dall’Italia, avanza l’ipotesi neanche troppo buttata per aria che ogni viaggio avesse per lui l’unico movente del cibarsi. E, in effetti, quando giunse a Piacenza, Manganelli scrisse: «Una città in cui non si fa sperimento di cibo è, come dire, rata e non consumata. Non si è consanguinei, se ci si incontra nemmeno ci si saluta». Nel corso degli altri viaggi avrebbe familiarizzato con Taipei a base di pesciolini fritti, e con i cinesi mangiando soia che sembrava cioccolata e pesci molli con il gusto del maiale. Chissà l’acquolina in bocca per quel che avrebbe mangiato in Tanzania! Nessuna delle versioni del racconto africano presentate da Manganelli fu accettata dalla multinazionale Bonifica. E così, quelle trentasei cartelle di una trentina di righe ognuna, fino alla loro recente pubblicazione per Adelphi nel libricino Viaggio in Africa, erano ancora inedite.

Dall’aereo il continente africano ha la grossezza di «un pachiderma planetario abitato e percorso da insetti lievissimi e provvisori», da lassù gli appare un «ossame geologico di un cadavere geologico», evidentemente un «pianeta accidentalmente umano» dacché non ci sono né strade né smog. Nonostante ciò anche qui ha fatto guai «l’antica ipnosi bianca nei confronti dei confini certi», pure se le tribù «si giustappongono in insediamenti instabili e inquieti». Conosce la città di Addis Abeba, in cui «l’onnipresenza degli alberi dà l’impressione che la frattura tra città e campagna non sia irreparabile» e qualche giorno dopo l’altra faccia della medaglia, Nairobi, dove «il fatale divorzio tra urbanesimo e arcaicità» è orami decretato, forse perché gli uomini già «hanno scoperto la seduzione pericolosa del modulo da riempire». Incontra dovunque animali feroci e selvatici, quei leoni, quelle giraffe e gazelle, impala e bufali che si elevano al rango di colossei, obelischi e acropoli. Manganelli si appunta la pubblicità, scorta in un giornale femminile, di una crema che «schiarisce la pelle in pochi giorni» e nota come tra quella gente prevalga la medicina delle erbe a qualunque altra autorità. Ed è soprattutto ammaliato dal villaggio di Lalibela, qui «un re del tredicesimo secolo fece scavare nella roccia un Sistema di chiese», irraggiungibile da terra perché nessuna strada la collega ad altre città.

Annota, scribacchia, fatica con lo swahili per cui sostiene che avrebbe dovuto essere più giovane per cavarci qualcosa soprattutto perché gli manca la conoscenza del sanscrito, spigola tra le mappe, eppure sembra che per lui l’Africa sia inintelleggibile. E intanto i giorni passano. L’unico altro luogo in cui si sentirà così, otto anni più tardi, sarà l’Islanda: tra la pietra ancestrale e le storie dei folletti, lì, la sera, tornando nella sua camera d’albergo, neanche riuscì a infilare la chiave nella toppa, ubriacato dall’impetuosità di quei venti primordiali. Anni dopo ammetterà che il continente africano gli «ha generato una infelicità che è durata a lungo, perché è impossibile non accorgersi che l’assenza di uomini ha un significato». Comprese in loco che l’Africa, «la pergamena originaria è un trauma terribile». Perché? Non si concede, non è percorribile, forse non è raccontabile da un «cittadino europeo consenziente, o perplesso o infine succube del suo fascino». Il tormento di Manganelli si evince anche da una cartolina spedita a Viola Papetti da una delle sue prime tappe in cui palesa la sua difficoltà a scrivere.

Manganelli dopo l’Africa viaggiò moltissimo ed è una gioia leggere le sue avventure raccolte in Esperimento con L’India, L’isola pianeta e altri settentrioni, Cina e altri Orienti. Arrivò ad Atene nella notte del ventun marzo, «la violenza felice, infantile degli odori dei fiori, arcaici amuleti della primavera»; svicolò tra i seicento tassì di Reykjavík e le jeepneys di Manila (jeep virate ad autobus), così come anche tra gli sciami di indovini sui marciapiedi di Taipei; e battezzò le isole Fær Øer «cerimonie della pietra, riti, marini, esorcismi del vento e delle nubi, sacri addobbi di brughiere, allegoriche tenebre di nebbia». Volò a Stoccolma con il frac in valigia dato che lì c’è la premiazione del Nobel e non si può mai sapere; a Manila, dopo la cena e una birra, ecco la gita nel «bellissimo cimiterino costruito nel primo Ottocento per i colerosi e ora trasformato in un minuscolo, delizioso giardino»; poi la bruttezza «elaborata, ingegnosa, pedante, addirittura illustre» di Liverpool; la veglia funebre in una saletta in un Luna Park, a Bangkok; e l’ubriacatura «di aria, dei venti, dei refoli degli sbuffi, dell’irrequieta e luminosa aria di Finlandia».

Aveva sempre con sé la guida Hachette, quella che lui chiamava la sua “mamma plastica”. E anche quando non si allontanava troppo da casa la sua indole era quella del viaggiatore, d’una curiosità sempre all’erta e sospettosa. Ne aveva fatto un vanto personale, sapeva a menadito le piantine della società di trasporto municipale. «Sono il Veronelli del 36 barrato», scriveva. Le coincidenze, le fermate, i capolinea: quelli di Roma, li conosceva tutti. La macchina, eccetto che per Ferragosto, non usciva mai dal garage. E quando capitava era per vezzo e non per necessità. «Da sempre sono un grande degustatore di autobus e tram, e mi sentirei non disadatto a compilare una Michelin del trasporto urbano». I percorsi notturni, le deviazioni degli sbarrati, le pensiline sotto cui proteggersi dalle intemperie: Manganelli le sgranava come un uomo erudito fa con classici letti in giovinezza. Si capisce che a Parigi sarebbe stato sedotto dalla sferragliante linea del metrò: quella capillarità del servizio, gli interni così fané, i 34 posti seduti e fino a 119 in piedi!

Enfin, l’aereo su cui vola Giorgio Manganelli fa scalo a Il Cairo, «mediterranea come Atene e Napoli». Si accorge estasiato di posare i piedi sul suolo di una città «fitta dei segni di una esistenza storica senza confronti». È l’ultima fermata in Africa prima del rientro in Italia. E quando vede il Nilo, «affermazione millenaria che quella pagina vuota e intransitabile può essere sfregiata da un ideogramma», scopre che qualcosa dunque addirittura su quella terra originaria è stato scritto, un’unghiata c’è, un segno esiste. E se c’è riuscito il Nilo, se il precedente del fiume del Faraoni ha dimostrato che è possibile infliggere un segno, allora, forse, pensa Manganelli, potrà ben scrivere anche lui.

 

Fotografie tratte da Album fotografico di Giorgio Manganelli, racconto biografico di Lietta Manganelli a cura di Ermanno Cavazzoni, Quodlibet