Attualità

Exit West, perché avevamo bisogno di un romanzo politico

Un incontro con Mohsin Hamid, autore del libro del momento: dalle migrazioni alla tecnologia, come si raccontano le complessità di quest'epoca.

di Davide Piacenza

Viviamo nell’era che più di ogni altra ha deciso di semplificare il mondo, risolvendo (o dichiarando di voler risolvere) pressoché ogni problema e complessità, e offrendo risposte anche dove non ce ne sarebbero di certe. In quest’epoca, più di un miliardo di persone si sposta dal luogo in cui è nata, cambia città, Stato, continente in cerca di lavoro, pace o, come si dice in questi casi, fortuna. L’accademico Thomas Nail di recente ha scritto su Aeon che dobbiamo riconoscere un dato fondamentale della contemporaneità: il Ventunesimo secolo sarà il secolo dei migranti. Le migrazioni però, per uno dei molteplici paradossi di questi tempi, sono un tema intrinsecamente complicato, che segue la direzione opposta di quella tendenza semplificatrice: come si gestiscono centinaia di milioni di persone che si muovono? Come se ne parla? Cosa se ne può pensare?

Da quando ho iniziato a leggere Exit West di Mohsin Hamid, mi sono posto queste domande più volte, e arrivato alla fine ho deciso che sarebbe stato il libro giusto da regalare quest’anno. Innanzitutto perché il nuovo romanzo dell’autore de Il fondamentalista riluttante è piacevole, una storia ben scritta e appassionante. Ma anche perché, pagina dopo pagina, mi sono reso conto di stare abbandonando ogni ritrosia nei confronti di una letteratura che potremmo chiamare sensibilizzatrice. Per definire Exit West si può redimere la parola altrimenti più abusata e parodiata dell’editoria libraria, ma in questo caso l’unica davvero calzante: “Necessario”. Era necessario che Hamid ci portasse, come società, a guardare nelle esistenze normali e poi sconvolte di Saeed e Nadia, due giovani innamorati di un’innominata città mediorientale colpita da una tremenda guerra civile, ed era necessario farlo esattamente con quello sguardo intelligente, impietoso, sensibile, complesso. Nel libro, un’opera che unisce alla fantascienza parti che sembrano uscite da un reportage inappuntabile da grande quotidiano, la coppia protagonista si trova a dover fuggire prima a Mykonos e poi a Londra con l’ausilio di una serie di porte magiche, che, sorte all’improvviso in ogni angolo pubblico e privato del mondo alternativo del romanzo, rappresentano un’evidente metafora sostitutiva dell’atto concreto della migrazione. Exit West si legge come un instant book immerso in una fiaba, e non sembra esagerato dire che ridefinisce toni e portata del romanzo fantastico contemporaneo.

Syrian Kurds Battle IS To Retain Control Of Kobani

In una giornata di primavera in cui per una coincidenza eloquente un demagogo ha appena definito «taxi del Mediterraneo» le barche su cui decine di migliaia di persone hanno perso la vita tentando di raggiungere le coste italiane, incontro Mohsin Hamid in una saletta di una libreria del centro di Milano, al riparo di un tranquillo cortile interno. Uno degli altri ospiti invitati dalla casa editrice Einaudi gli chiede se faremmo bene a considerare «politica» la sua opera, e lui fa un sorriso che sembra un’amichevole pacca sulla spalla, dice semplicemente «Sì». Poi si ferma un secondo, si versa un bicchiere d’acqua e ci spiega: «Tutta la scrittura è politica, e la fiction è fatta apposta per coinvolgere i lettori in discussioni emotive, e rivelando emozioni si fa politica. Gli scrittori che lo negano, semplicemente non vogliono essere accostati alle implicazioni politiche di ciò che scrivono». Hamid, quarantacinquenne nato e residente a Lahore, in Pakistan, non sembra avere di questi problemi: sa di raccontare una storia che non è – non può essere – soltanto una storia, e vuole innanzitutto affrescare il mondo di oggi per chi lo sta abitando.

I luoghi di Exit West sono spiagge greche sovrappopolate e assolate, confini fatti di filo spinato, quartieri presidiati da miliziani tagliagole, cieli solcati da droni e palloni spia, ambulatori di ospedali, da campo o più strutturati. La prospettiva proposta, che si parli del confine tra gli Stati Uniti e il Messico o dell’innominata città del Medio Oriente, è dichiaratamente quella di chi fugge, ma non mancano grandangoli che consentono fotografie più ampie: ad esempio quando Saeed e Nadia, come gli capita spesso, discutono di quante possibilità hanno di sopravvivere, stavolta ai “nativisti” – il movimento nazionalista determinato a cacciare con la forza i migranti da Londra – lei dice: «Li capisco. Immagina se tu vivessi qui. E all’improvviso arrivassero milioni di persone da tutto il mondo». Il punto forte della scrittura di Hamid, quello che rimane nel lettore a giorni di distanza dalla fine del libro, è la resa letteraria di queste vicende umane: i due giovani emigranti sono costretti a ritrovarsi all’improvviso nei panni di marito e moglie, crescono nel giro di una manciata di notti, sono costretti a dire addio, imparano a considerare ogni giorno la prospettiva della morte violenta, iniziano a scaricare uno sull’altra la tensione e il terrore, amano il loro Paese, sono disperati, sono increduli, iniziano a fare sesso e smettono dopo poco perché l’unico desiderio per cui possono trovare spazio è la sopravvivenza.

Migrants Make Their Way Towards Hungary

Quando gli abbiamo chiesto da dove venisse questa accuratezza descrittiva e questa sensibilità emotiva, quest’atmosfera di verosimiglianza che fonda il successo di Exit West, Hamid si è stretto sulla sedia e ha detto di non aver avuto in mente nessuna città in particolare scrivendo l’inizio del romanzo, anche se si è orientato pensando alla sua Lahore. Ha fatto un paragone efficace: è stato come scrivere di attacchi di squali in Australia; non ti è mai successo, magari, ma è probabile che tu abbia un amico o un conoscente a cui è capitato, che tu viva nella paura, che tu sappia descrivere un guardaspiaggia che soffia trafelato in un fischietto, eccetera. Mentre le pronunciava, mi convincevo che l’intera esperienza contemporanea delle migrazioni di massa si poteva condensare in poche parole di Mohsin Hamid: «Close enough that you feel it, far enough that you don’t live it».

L’autore ha scelto di togliere alle esperienze di queste persone i loro momenti ipermediatizzati ed entrati nell’iconografia: ai centri di accoglienza, ai barconi, alle scialuppe di salvataggio sono state sostituite le porte magiche, riducendo a un momento le lunghe traversate da anni oggetto di discussioni, moniti e reciproche accuse. È stata, anche questa, una decisione mirata: «Il viaggio rende i migranti diversi da noi, pur essendo una piccola parte della vita di quelle persone», ha detto Hamid. È vero: passando un po’ di tempo in un hub di prima assistenza ai profughi, come mi è capitato di fare, con una pettorina fluorescente davanti a persone stanche che ti sfilano lentamente di fronte, si aziona un meccanismo che porta a sottintendere, pur inconsciamente, che si tratti di uomini e donne più o meno assimilabili, se non altro perché uniti da un destino comune. Eppure prima della traversata erano architetti e agenti di viaggio, commercialisti e disoccupati, ragazzi introversi e anziane malevole, capofamiglia collerici appassionati di football americano e ragazzine con l’hobby del disegno a pastelli. Erano, insomma, come noi.

La grandezza di Exit West, ciò che lo fa entrare nel novero dei migliori romanzi della contemporaneità, sta nel saper raccontare così bene ciò che di questi anni è destinato a filtrare nei libri di storia. Nel nostro incontro, Mohsin Hamid ha risposto approfonditamente a domande sul suo rapporto con la tecnologia, l’altro grande protagonista indagato dal suo romanzo. Ascoltandolo spiegare come si è servito di app e smartphone per parlare di noi e di oggi, di come in fondo questi strumenti non siano diversi da altre porte magiche, ho tirato un sospiro di sollievo. Mi è tornato in mente quel fortunato articolo del 2015 che l’Independent aveva titolato: “Surprised that Syrian refugees have smartphones? Sorry to break this to you, but you’re an idiot”. In Exit West si legge: «Nei loro telefoni c’erano antenne, e queste antenne fiutavano un mondo invisibile, come per magia, un mondo che era tutt’attorno a loro e anche da nessuna parte, trasportandoli in luoghi lontani e vicini, e in luoghi che non erano mai esistiti e mai sarebbero esistiti».