Attualità

Le signore delle canne

Come successe negli anni Trenta per il proibizionismo, il ruolo delle donne è stato ed è fondamentale per la liberalizzazione della cannabis in America.

di Teresa Bellemo

Più o meno come è successo intorno agli anni Trenta del secolo scorso, quando le evidenze economiche e sociali hanno fatto crollare il 18simo emendamento che per tredici anni impedì la produzione e la vendita di alcolici negli Stati Uniti, oggi tocca alla cannabis. Messa al bando per molto più tempo, è uscita dalle camere dei campus e dagli angoli delle strade americane per diventare un grande affare. Fino alle elezioni dello scorso novembre, gli Stati dove l’erba era libera anche a livello ricreativo erano soltanto quattro (Oregon, Colorado, Alaska e Washington, più il distretto della capitale, Washington DC). Dal 6 novembre si sono aggiunti anche California, Nevada, Maine, Massachusetts; più Florida, Arizona e Nord Dakota che l’hanno legalizzata per l’utilizzo terapeutico. Mentre Trump è impegnato a far valere il suo pugno di ferro contro tutti, insomma, molti Stati americani convivono con l’erba legalizzata, avendone eliminato il reato, autorizzato lo scopo terapeutico o addirittura il loisir. Cosa ha alleggerito così rapidamente la fedina sociale della cannabis, che per la Dea è ancora classificata come di I livello, il più alto per pericolosità e conseguenze per il suo abuso, come l’eroina e più di cocaina e metanfetamine?

Nel 2015 le vendite della marijuana legale si sono attestate a 5,4 miliardi di dollari (+17,3% rispetto al 2014) e nel 2016 a 6,7 miliardi con una crescita del 25% (fonte: Forbes). In Colorado, dove la cannabis è legale anche per uso ricreativo, nel 2015 le vendite hanno raggiunto i 996 milioni di dollari, e di questi 135 sono entrati nelle casse statali. Come con il whisky nel 1933, a guidare il boom ci sono sorprendentemente molte donne. Nel 1932, in prima fila nel movimento antiproibizionista c’era infatti la repubblicana Pauline Sabin. Newyorkese, ben inserita e inizialmente a favore del 18simo emendamento, nel 1929 Sabin fonda l’Organizzazione femminile contro il proibizionismo (Wonpr) perché stanca dell’ipocrisia di un divieto che in realtà non tutelava nessuno, men che meno gli affari. La gente continuava a bere negli speakeasy e intanto la malavita gonfiava i suoi portafogli a discapito degli imprenditori e delle casse erariali. Ben presto il movimento riunisce numerose “madri di famiglia”, ma soprattutto imprenditrici e donne d’affari che intravedono opportunità di guadagno nella liberalizzazione degli alcolici e non rinunciano a usare a proprio favore il loro essere madri. Grazie al suo status e alla sua forte influenza, nel luglio del 1932 Sabin finisce sulla copertina del Time e tiene un applaudito discorso davanti al Congresso americano rafforzando così la sua posizione e velocizzando l’abolizione del proibizionismo, avvenuta nel dicembre dell’anno successivo.

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Anche nel 2012 sono state le donne tra i 30 e i 50 anni a essere decisive per permettere alla legge sulla liberalizzazione della cannabis di andare in porto in Colorado e Washington. Influenza fondamentale, se si pensa che spesso viene tirata in ballo la sicurezza dei giovani e la loro educazione da parte dei genitori, soprattutto delle mamme. Le donne stanno diventando strategiche non solo per il movimento pro-legalizzazione, ma nel business vero e proprio. Greta Carter, ex vicepresidente di Citibank, oggi è a capo di G-Car Companies, una struttura che forma e segue gli aspiranti imprenditori del settore offrendo supporti legali, burocratici e di know-how. Possiede una delle coltivazioni legali di cannabis più vaste del mondo e ha attivamente contribuito alla stesura della legge che l’ha legalizzata a Washington (insieme a un’altra donna: Alison Holcomb) e in Nevada. Forte della sua influenza, la Carter ha scommesso sull’ok della Florida iniziando a organizzare cooperative per la coltivazione in loco ancor prima del via libera dello scorso 6 novembre.

C’è poi chi ha intuito che per alzare il livello di coolness è necessario un cibo più sano e instagrammabile del classico junk food abbinato alla fame chimica. Jane West, mamma trentottenne di Denver, nel 2012 ha dato vita a Edible Events, società che organizza eventi che mixano il buon cibo con gli spinelli. In più, insieme a Jazmin Hupp, Jane ha fondato Women Grow, community che informa e dà alle associate gli strumenti necessari per fare della cannabis un business. Nata nel marzo 2014 con solo 70 iscritte, oggi conta migliaia di presenze nei meeting che organizza in più di 30 città americane.

La fascinazione delle donne nei confronti della cannabis può sembrare relativamente insolita, proprio per quel cliché conservatore che le vuole “madri di famiglia”. È vero che la fetta principale del business è a scopo terapeutico, ma sembra che stavolta le ragioni fondino su un diverso approccio imprenditoriale e su una diversa consapevolezza delle proprie capacità. Nonostante moltissime aziende che operano con la cannabis non riescano a ottenere un conto corrente bancario a causa di una persistente diffidenza, il business ha dimostrato potenzialità miliardarie e le donne sembrano volerlo dominare con aziende ben strutturate e una strategia fondata sulla cooperazione.

A San Francisco esistono i cosiddetti “Tupperware party” che prendono in prestito dal marchio inventore della prima imprenditoria “rosa” il format, convertendo quella che un tempo era una semplice vendita di contenitori tra amiche. Il target è upper, si parla d’affari, si mangiano muffin vegani e si fanno girare canne e vaporizzatori. A New York ci sono le Green Angels, modelle che fanno servizio a domicilio d’erba 24/7. Cheryl Shuman a Los Angeles ha fondato il Beverly Hills Cannabis Club, che unisce celebrity, erba, fundraising ed eventi cool.

Ban Introduced On Smoking Marijuana In Public Areas

Anche la ricerca scientifica intende concentrarsi sul binomio “donne e marijuana” con l’obiettivo di risolvere molte patologie. Ad esempio, crampi e dolori mestruali sembrano alleviarsi con l’utilizzo di tamponi alla cannabis, che avrebbero anche il beneficio di rilassare ed eliminare emicranie e tensioni. Foria è invece un lubrificante vaginale a base di Thc, per ora in vendita soltanto in California e Colorado, che promette un piacere di maggiore intensità fino a una vetta di 15 minuti di orgasmi multipli.

Negli ultimi anni moltissime serie tv hanno messo una canna tra le labbra delle attrici ma senza che questo le proiettasse in un immaginario borderline. The Weeds con la madre borghese ma spacciatrice, Megan di Mad Men, Helen di The Affair, le ben più stonate protagoniste di Broad City fumano le loro canne in maniera autonoma, senza che un uomo gliele passi e senza doversi giustificare se hanno voglia. Anzi, quasi sempre sono proprio gli uomini a indignarsi e a ricoprire il ruolo di moralizzatori. Le regine dell’emancipazione però sono indubbiamente due popstar: Rihanna e Miley Cyrus. Da anni il profilo Instagram di Riri la mostra immersa nel fumo pastoso dell’erba, con occhi arrossati e canne in bella vista. Nel 2015 era persino girata la notizia, poi smentita, di una linea di marijuana brandizzata “MaRihanna”. Nel video di “Work” (tratto dall’ultimo disco Anti dove la seconda traccia è l’inequivocabile “James joint”) è Rihanna in un abito a colori giamaicani quella che fuma. Drake si limita a un paio di boccate. Oltre a sbandierarla quotidianamente nei suoi profili social e a sponsorizzare il suo penultimo disco, Bangerz, con delle cartine color oro, per non farsi mancare nulla Miley Cyrus è salita direttamente sul palco degli Ema per ritirare il premio di Miglior video accendendosi una canna.

La liberalizzazione della cannabis non è forse un tema prioritario, ma dimostra quanto può essere forte un movimento d’opinione che porta con sé le proprie istanze anche giocando con gli stereotipi di genere, per poi disfarsene a obiettivo raggiunto. Quello dell’erba libera sembra essere un successo femminile conseguente al fare massa critica senza disperdere energie, convogliandole anche negli affari e facendo perno su quest’ultimo come una vera lobby. Più o meno come nel 1933. La storia si ripete, almeno un po’.

Portfolio di Christopher Furlong per Getty Images.