Attualità
Avere poco rende liberi?
Dai bestseller anti-accumulazione alle sirene della decrescita felice, perché viviamo in un'epoca in cui la libertà e il mercato sono vissuti come una costrizione.
E se fosse questo l’orizzonte della felicità? Circondarsi dei soli oggetti necessari a vivere meglio, un colpo di spugna e zac, via questa smania di avere e accumulare, via i vestiti, cappotti pressoché identici uno all’altro, maglioni infeltriti, dischi e cd, vecchi libri, divani e cianfrusaglie, stanzini zeppi di roba. Dire basta, sbarazzarsi di, buttare, fare una cernita e ripulire. Icona del lifestyle basato sul minimalismo e sull’arte del decluttering è una giovane giapponese che ha saputo trasformare le nevrosi di molti in un business da milioni di dollari. Mari Kondo ha scritto un bestseller, The Life-Changing Magic of Tidying Up (Il magico potere del riordino), e si è presentata al mondo come KonMari, ma solo dopo aver registrato il marchio. A giugno Ten Speed Press pubblicherà un manga ispirato al suo libro con le illustrazioni di Yuko Uramoto. In Giappone è già un successo, in America un annunciato trionfo. Una storia «magica», come recita il sottotitolo in copertina. Il tocco stregato di Mari a servizio della protagonista, Chiaki, una ragazza che vive in un appartamento caotico almeno quanto la sua vita sentimentale. Ma tutto si risolverà al meglio. KonMari le insegnerà l’arte del disfarsi e Chiaki vivrà felice e contenta.
A maggio, a Roma, si è svolta la prima Festa nazionale della decrescita felice, un movimento di ispirazione francese che in Italia compie dieci anni di vita. Qui la questione si complica: per essere felici non solo bisogna avere poco, ma farselo con le proprie mani. Soprattutto: non solo decidere di avere poco, ma abitare in uno Stato che lo ha già deciso per te. L’obiettivo di questa teoria è il decremento selettivo del Pil. Produrre e consumare di meno attraverso un processo controllato. In poche parole, tagli selettivi e riduzione degli sprechi. Tutto quello che non è necessario consumare, non va prodotto. E niente va importato, a partire dall’energia.
La tesi grillina della decrescita come Stato felice attecchisce su un terreno fertile, sito a una latitudine vicina a quelle di KonMari, Millburn e Nicodemus. Viviamo in una fase storica in cui, per assurdo, la libertà crea un senso di costrizione. Dismessi i panni del servo di un padrone rischiamo di trasformarci in servi di noi stessi e della nostra idea di performance. La sensazione di un vincolo è più latente di prima, perché il vincolo è subdolo, ma resiste nella sua ambiguità. Cosa fare, allora, nel mondo capitalistico, per sentirsi liberi e felici? Sperimentare un nuovo modello di consumo, fatto di privazione e sobrietà, è la scelta di alcuni. Nella decrescita felice, però, si compie un passo in più. Essere liberi dalle costrizioni del mercato diventa imposizione dall’alto. Liberi di autoprodursi – per decreto – il pane, il sapone e le creme idratanti, liberi di comprare – per decreto – frutta, verdura e carne direttamente dal produttore, liberi di partecipare alla riduzione drastica dei consumi. È qui che il paradosso del neoliberalismo – liberi di sfruttare noi stessi – cede il passo all’ossimoro. Liberi di dover uscire dalla logica di mercato. Liberi di dover tornare ai valori di una comunità contadina. E quindi, davvero liberi?