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Boom shaka laka (1)

Ovvero 16 buone ragioni per rinnegare il calcio e imparare ad amare il basket dell'NBA. Prima parte

di Timothy Small

Mentre l’intera stagione NBA è ancora del tutto in forse a causa del lockout pubblichiamo un pezzo in tema dal numero 1 di Studio. La seconda parte dell’articolo la trovate qui.

Tra i lettori di questo giornale ce ne saranno almeno una dozzina che hanno sempre trovato il calcio noioso. Io no. L’ho amato per tanti anni, e ho sempre congedato chi non la vedeva come me, considerandoli snob che non volevano partecipare alla principale forma d’intrattenimento di un intero paese. Perché non seguirlo, mi chiedevo. Mi sembrava ovvio, completamente normale essere un appassionato di calcio. Per me “il calcio” equivaleva a “lo sport”. C’è da premettere che mio padre mi ha allevato da milanista: abbonamento a Forza Milan, stadio, facciamo la schedina assieme, pantofole rossonere, poster di Van Basten in cameretta, ecc., ecc. Quando cresci così, tifare per una squadra è una scelta tanto quanto lo è essere miopi. In altre parole: non potevo farci niente. Però, col tempo, ho dovuto trovare dei modi per razionalizzarlo, soprattutto per non rispondere solo “vaffanculo” a quelli che contestavano la mia passione per il calcio.
E quindi pensavo, e dicevo: il calcio è il collante della Repubblica Italiana, è l’unico specchio attraverso il quale si possono avere lunghe, interessanti conversazioni – conversazioni alla pari! – con baristi di 63 anni, di poter tagliare i silenzi con i tassisti, di sentirsi parte della vita del paese. Non partecipare è un rifiuto, un volersi ghettizzare apposta, uno schierarsi “contro” in quanto “diversi”, “speciali”. D’altronde, cosa ci vuole? Se c’è gente che trova interessante l’arte contemporanea o gli orari dei treni delle Ferrovie Nord, quanto sforzo ci vuole a lasciarsi tirare in mezzo da un mondo costruito con l’evidente scopo di intrattenere il più alto numero di persone possibile? Oppure dicevo: Albert Camus giocava a calcio per la nazionale algerina e una volta ha detto, «Tutto quello che so della vita lo devo al calcio». Questa generalmente la usavo con le ragazze. Camus con le ragazze funziona sempre. E pensavo: il calcio è un sistema preciso, delineato, con delle regole atte a premiare il più meritevole. Lo sport, in generale, è uno dei pochi luoghi al mondo dove generalmente vince davvero il migliore, dove osservi, celebri e impari la forza del collettivo, lo spirito di sacrificio, l’istinto creativo e assoluto del singolo fuoriclasse. Un mondo nel quale, nei rari casi in cui non vince il migliore, gli osservatori – cioé i tifosi – possono tranquillamente ammettere che una vittoria “non era meritata per quanto visto in campo”. Ovvio, è pieno di piccolezze, di imbarazzanti pseudo-opinioni urlate da pseudo-giornalisti, di gente che passa ore a guardare le moviole. Però è un mondo più giusto di quello vero. A questa, poi, ci credevo.
Finché non c’è stata Calciopoli: il colpo di stato di Massimo Moratti, Tronchetti Provera e Guido Rossi. Tutt’a un tratto, il calcio è diventato una cosa marcia, una triste farsa politica decisa dai vertici RCS, di Telecom, e dell’Internazionale F.C., un giochetto orchestrato da un nugolo di tifosi stanchi di vedere la loro squadra-zimbello fare una figuraccia dopo l’altra e pronti a tutto – pure a sovvertire le regole base della condotta sportiva – anche a rovinare, forse per sempre, la più illustre società italiana, a farsi assegnare scudetti altrui, a indossarli sulla maglia con orgoglio, a insabbiare prove, a riempire di cazzate le teste degli italiani. E mentre seguivo uno scandaloso processo farsa dopo l’altro, il tifoso appassionato in me ha perso, piano piano, ogni interesse. Non che mi sia semplicemente arreso: ho provato a goderne come prima, a seguire le partite, mi sono impegnato, ma non ci riuscivo. Ero sempre arrabbiato, furibondo, riuscivo solo a pensare a quest’enorme, flagrante ingiustizia ignorata dai media. Ho iniziato a sentirmi come uno di quei pazzi che dice che l’11 settembre è stato orchestrato da Bush. Allora ho smesso di seguirlo. Non c’era niente da fare: il calcio, per me, si era rotto.
Ma la parte del mio cervello dedicata al calcio, dai tempi di quel Milan – Bologna del 1991, un sei a zero con tripletta di Van Basten, la prima partita che vidi a San Siro, era lì, vuota, che mi pregava di riempirla con qualcos’altro. E un giorno è arrivato il basket e mi ha detto, prova a seguirmi. Vedi come sono. Impara a capirmi. Sono diverso dal calcio, vedrai. Non ti deluderò. E oggi, l’NBA ha riempito quel vuoto. E nel resto di quest’articolo elencherò, punto per punto, alcune ragioni di questa svolta personalmente epocale.

1. Non per tornare sempre a parlare delle mie solite cinque cose, ma sono profondamente convinto che in questi anni stiamo assistendo a un cambiamento epocale nel modo in cui la gente si confronta con la narrativa. Se nel ventesimo secolo la grande narrazione è stata raccontata sul grande schermo del cinema, in questo inizio di secolo stiamo assistendo a un cambiamento nei pesi tra cinema e televisione – man mano che il cinema diventa sempre più noioso, la televisione migliora. I film più appassionanti degli ultimi cinque anni non fanno nulla – in termini di effetto sullo spettatore – rispetto ad opere gigantesche come I Soprano, Breaking Bad, o The Wire. Tralasciando le critiche sulle sceneggiature considerate “ben scritte” di questi tempi, la ragione principale per questo ribaltone è che queste serie televisive sono, alla fine dei conti, più lunghe. Al loro interno, quindi, si trovano più personaggi ben delineati e succedono più cose. Esattamente come il basket. L’NBA è strutturata attorno a 30 squadre, divise in due conferenze – est e ovest. Ogni squadra, nella regular season, gioca ottantadue partite. Le migliori otto squadre delle due conferenze si incontrano poi nei playoff di conferenza – quarti, semifinali, e finali, tutte giocate alla meglio di 7 partite – per stabilire le campionesse di conferenza. Le due campionesse si sfidano poi per le NBA Finals, un’altra gara alla meglio di 7. In totale, quindi, la squadra vincente gioca tra le 98 e le 110 partite, in una stagione. E si gioca tutti i giorni. Per un appassionato, è tanta roba. Tante partite vuol dire tanti scontri, tante storie, e tante più possibilità che queste storie diventino sempre più appassionanti e divertenti.

2. Per quanto il campo da gioco sia piccolo e i giocatori pochi, il semplice fatto che ci siano partite che finiscono 110 a 124 vuol dire che la singola partita può essere un continuo ribaltamento di fronti, un infinito cardiopalma. E l’assenza del pareggio – un concetto quasi esclusivamente calcistico – significa che, sebbene alcune partite inizino subito con un notevole vantaggio di una squadra sull’altra, e finiscano praticamente invariate – cosa estremamente noiosa – almeno non ci sono partite che finiscono 0 a 0. Chiaro, manca il momento della gioia e della liberazione totale del goal decisivo, ma pure le partite più noiose, quelle tra due squadre poco interessanti e senza giocatori ragguardevoli (tipo un Pistons – Cavs), possono essere interessanti, possono contenere gesti atletici emozionanti e piccoli e grandi momenti epici.

3. Il basket si gioca in tempo effettivo, come quasi tutti gli sport americani. Questo vuol dire che non ci sono buffoni che si rotolano per terra fingendo un infortunio per quattro minuti quando sono in vantaggio. Quando il gioco è fermo, è fermo. Semplice.

4. Il basket prevede la moviola in campo. Il che vuol dire che se un giocatore fa lo stronzo e tira una gomitata furfante “quando l’arbitro non vede”, viene espulso praticamente SEMPRE. Non, come nel calcio, QUASI MAI. Altra differenza fondamentale: se non sono sicuri se un canestro sia valido o meno, gli arbitri (sì, ce n’è più di uno, per un campo grosso un decimo di quello da calcio, guarda un po’ che storia) fermano il gioco e guardano il replay finché non decisono cosa sia successo. Non ci mettono molto. Di nuovo: semplice.

5. Il basket prevede un numero illimitato di cambi. Se l’allenatore vuole può mettere in campo un giocatore per 4 secondi, toglierlo, rimetterlo, e ritoglierlo. Tutto questo è molto interessante, perché implica che quando si scontrano due squadre, si scontrano davvero le due intere squadre, non solo i cinque titolari. Anzi, molto spesso le partite vengono decise nei momenti in cui i titolati sono a bordocampo, a incitare i loro compagni di squadra in seconda linea.

6. Il basket contiene tiri da lontanissimo che finiscono nel ciuffo e sembrano fare SPLASH! quando toccano la rete, stoppate volanti, gente che salta e fa un giro su se stessa di 360 gradi mentre muove le braccia a mulinello e infila la palla nel canestro passando sotto e attorno le braccia del difensore, schiacciate potenti, schiacciate di fino, schiacciate all’indietro, alley-oop che finiscono in schiacciate all’indietro, passaggi in mezzo alle gambe dei difensori, passaggi no-look, crossover allucinanti e spacca caviglie che fanno scivolare l’avversario (come uno scemo), schiacciate nelle quali all’ultimo ti passi la palla alla mano sinistra e freghi il difensore, gente che salta tantissimissimo (a volte SOPRA un’altra persona!) e poi schiaccia schiantandosi contro il difensore che poi vola all’indietro scivolando sul parquet, tiri da dietro il tabellone, tiri che battono il cronometro all’ultimo centesimo di secondo… Il calcio, in paragone, ha le rovesciate, le mezze rovesciate, i colpi di tacco, i tiri da lontanissimo, i passaggi sotto le gambe e, volendo, i tuffi di testa. Fine. E queste cose sono così rare che quando succedono, ne parlano al telegiornale. In una partita media dell’NBA, le cose straordinariamente fiche accadono in OGNI gara. C’è una ragione se lo slogan dell’NBA è “Where Amazing Happens”.

7. Per colpa del guardaroba assurdamente gangsta di Allen Iverson, che è stato una delle più grandi guardie della storia, la Lega ha recentemente introdotto delle regole di vestiario molto restrittive per i giocatori infortunati in panchina. E non c’è niente di più fico che vedere Shaquille O’Neal, che è alto 216 cm e pesa 150 chili, a bordo campo con un completo grigio fatto su misura. O preferite Bobo Vieri in curva con la sciarpetta tamarra e il piumino lucido?

8. Se sei ricco, puoi vedere una partita di basket a bordocampo. Proprio a bordocampo. Senza reti, senza poliziotti. Io non sono ricco, quindi non ci andrò mai, a bordo campo, ma è molto divertente, soprattutto quando ti chiami Lapo Elkann e ti alzi e prendi la palla al volo.

Continua…

Tratto dal Numero 1 di Studio