Attualità

Before and Afro

Dalla blogger bianca con la parrucca afro, a Gangnam Style. Ecco cosa succede quando uno si appropria della cultura altrui e (talvolta) la fraintende.

di Violetta Bellocchio

Una giovane donna bianca di nome Michelle Joni viene invitata a una festa in maschera. Il tema è “lo Studio 54 e gli anni ’70”. Lei va alla festa, e completa il costume con una parrucca in stile afro. Ci si trova bene. Decide di inserire il look nella sua vita di tutti i giorni, e poi di condividere con noi come reagiscono le persone nel vederla passeggiare per New York con una serie di acconciature artificiali. Quindi lei apre un blog, lo chiama Before and Afro, e lo dedica tutto al raccontare come cambia radicalmente la storia di una ragazza bianca di città, grazie al semplice, potente atto di mettersi una parrucca.

L’obiezione principale che viene mossa a Michelle Joni è quella di essere una cretina.

L’argomento teorico, qui, si chiamerebbe “fare del colonialismo culturale non richiesto”. L’accusa concreta si articola in due filoni diversi: c’è il «come ti permetti? Io sono nera, tu sei una ragazza bianca che non sa stare al suo posto» e c’è il «senti, sono bianca anch’io, ti stai rendendo ridicola». Comunque, il blog esplode, e diventa “controverso”. (È la stessa logica del caso Amanda Palmer, per cui qualche cosa che accade online genera reazioni molto più intense e veloci, proprio perché sta succedendo online, e il suo feedback contiene indignazione o divertimento nella stessa misura.)

Forse Michelle Joni incarna il principio del tempismo sbagliato, dato che l’esaltazione del suo essere libera, con l’afro arriva in un momento dove l’hobby di molti è stabilire se Barack Obama rischia di tornare a casa perché è stato troppo nero o non lo è stato abbastanza. Ma, va precisato, Michelle Joni non è una documentarista specializzata in esperimenti inutili, non è un’attivista o una provocatrice. È solo una donna con un blog, che lavora per un sito specializzato in consumi bianchi (recensioni di day spa e simili), e che sì, a questa semi-esplorazione della bellezza esteriore e interiore ha dedicato un diario online, ma non porta avanti alcun intento sovversivo. Almeno, all’inizio, perché prima lei diceva «questo non è “un esperimento sociale”, è solo una cosa che mi piace, mi fa sentire bene…», ma di fronte alle critiche si è irrigidita molto, e adesso sul lato esperimento sociologico rilevante ci sta marciando, nemmeno poco. (Oggi il blog offre in bella vista un bigino sull’importanza storica dei capelli ricci per la comunità afro-americana. L’autrice è rimasta bianca. Alcuni attendono con ansia la fase black face e tatuaggi della Mara Salvatrucha.)

Nelle obiezioni a Michelle Joni, però, affiora un tema ricorrente: «non puoi prendere solo quello che ti piace o ti torna comodo di una cultura che non è la tua».

Andiamo con ordine.

La Questione Capelli, intanto, è molto reale. Il mercato dei prodotti di bellezza pensati per donne afro-americane è dominato dalla weave, un tipo di parrucca fatta di capelli lisci, umani o artificiali, che viene cucita ai tuoi capelli. (La manutenzione è costosa e impegnativa; non la si può bagnare o lavare sotto la doccia.) In più, la weave non ha reso obsoleti i relaxer, i prodotti chimici per combattere i capelli crespi. (Pareabbiano un livello di tossicità di poco inferiore all’amianto, tra l’altro.) Il risultato è che di quasi nessuna donna afro-americana che abbia raggiunto potere e visibilità si vede mai la testa con cui è nata. Michelle Obama non fa eccezione. Alcune ci giocano un po’, sottolineando l’estrema finzione del proprio nuovo aspetto fisico, puntandoci contro frecce bionde, azzurre, rosa (Nicki Minaj), altre si limitano a trillare «oh, sì, non vado da nessuna parte senza la mia weave!» e rifiutano di mostrarsi al naturale. (Beyonce Knowles fa la pubblicità dello shampoo con la parrucca, per dire.) Questo è il terreno da cui nascono mille gallerie fotografiche in tema “donne famose ritratte senza la loro weave“, e mille polemiche abbastanza inutili: di recente la conduttrice televisiva Oprah Winfrey è apparsa sulla copertina del suo stesso mensile con quelli chepotrebbero essere i suoi veri capelli crespi; la questione sollevata non era tanto «com’è, carina?», quanto «capelli veri un corno, quella lì è solo una weave riccia». (Se volete approfondire, c’è in giro un documentario, Good Hair: taglio para-televisivo, materiale abbondante.)

Poi. La cultura bianca occidentale contemporanea non trova niente nella “cultura nera” – nel senso più superficiale – che non possa essere preso, assimilato e utilizzato fuori contesto. Un caso lampante, per me, è la parola “baller“, passata dall’indicare chi ha successo nel basket (e quindi ha molto denaro a disposizione) a chiunque ostenti i propri consumi lussuosi. Le barriere, oggi, nascono da questo finto mischiarsi, o dalla rivendicazione per cui chi copia sbaglia, sempre. Per cui da un lato abbiamo la formula nota come white people problems, dove “problema da bianchi” è l’avere troppe opportunità, il lamentarsi per cose futili o infantili, e dall’altro c’è il video “Shit White Girls Say… to Black Girls”, dove si ironizza sull’uso casuale della parola “ghetto” da parte di una ragazza bianca troppo disinvolta.

E ora, rendiamo tutto questo un po’ più italiano.

Ci troviamo nel bagno di casa di Claudia Morandi, una normale trentenne italiana senza precedenti penali, e la cogliamo nell’atto, per lei quotidiano, di spalmarsi sugli occhi l’eyeliner liquido mentre canticchia rack city bitch rack rack city bitch, il ritornello del più grande successo del rapper Tyga, un inno alle spogliarelliste e ai tanti, tanti soldi con cui pagarle. (E’ la legge immutabile secondo cui “brano hip hop scala le classifiche” = “combinazione tra consumignocca, illegalità diffusa”. Cominciate a rivalutare Bruno Mars, arrivo subito.) Claudia Morandi, dunque, sta associando un trucco bianco e un’azione innocua a un oggetto nero e molto popolare, con l’apparente fascino della pericolosità.

Ora, quale posizione occupa la nostra amica immaginaria? Quella per cui la facilità e l’immediatezza di un riferimento batte il senso del ridicolo? Quella di chi in pubblico starebbe più attenta, ma nel bagno di casa propria si permette tutto? Quella di chi vorrebbe essere un baller, un eterno cliente seduto in prima fila, o di chi vorrebbe essere coperto di banconote da cento mentre fa la spaccata sul palo? Claudia Morandi si sta alzando l’autostima paragonando il truccarsi prima di andare in ufficio alla sigaretta fumata da una lavoratrice sessuale durante una pausa, oppure sta rivendicando il diritto a trattare gli oggetti come fossero donne grazie allo sguardo maschile, oppure questa rischiosa scelta si deve al fatto che siamo in Italia, e nessuno può intervenire a spiegarti che stai “interrogando il testo da una prospettiva sbagliata”? (Domande supplementari, se volete: lei sta cantando proprio la versione di Tyga, o la versione bianca incisa da tre ragazzini su YouTube? La scena sarebbe stata meno offensiva se lei si fosse cantata da sola «you don’t know you’re beautiful»? O se si fosse applicata del lucidalabbra con fare febbrile ripetendo «perché io valgo»? Davvero?)

Oppure. Prendiamo Gangnam Style, il tormentone coreano che piace a tutti. I fattori chiave nel suo successo – ora ufficiale, globale e monetizzabile grazie alla vendita su iTunes – stanno nell’avere un video buffo e una musica techno-pop ripetitiva, associata a un cantante che fa delle gran smorfie. Ma alla base del pezzo c’è un fenomeno reale: i coreani spendono più soldi di quanti ne abbiano, per fingere di inseguire lo stile di vita di Gangnam, la Beverly Hills del paese. E la canzone andrebbe intesa come una parodia della situazione, per cui l’uomo medio arriva a indebitarsi pesantemente, e intanto sogna «una donna di classe che può permettersi un buon caffé». Ma pochi muovono la testa pensando «ehi, questa è una satira al vetriolo della società coreana!». No, il successo del brano rinforza una certa visione pre-esistente della cultura popolare asiatica (i giappi, che mattacchioni), per cui tutta la parte del mondo tra Goa e l’Alaska altro non è che una serie ininterrotta di Giochi senza Frontiere in versione bizzarra, ma poi una volta l’anno ci si siede tutti in soggiorno a guardare Graveyard of Honor. (Scusate.) Ad ogni modo, nessun coreano sta organizzando una rivolta di massa contro l’appropriazione di “Gangnam Style” da parte dei non asiatici. Anzi, l’autore viene elogiato per la sua affermazione internazionale e additato come un modello imprenditoriale da seguire in tempi di crisi.

È accaduto davvero, anche di questo ci sono le foto.