Attualità

Il bello del tempo

Dalle conversazioni quotidiane alla letteratura, dai social al cinema, dalla politica alle app: elogio della meteorologia.

di Davide Coppo

Del barone Edward Bulwer-Lytton, a 150 anni dalla morte, non si ricorda molto. Fu un politico conservatore inglese, ma soprattutto uno scrittore che godette di un enorme successo di pubblico. Ancora oggi in molti saprebbero ripetere a memoria l’incipit di uno dei suoi libri, il che lo rende membro di un club piuttosto esclusivo che comprende, nella storia recente della letteratura, gente come come Franz Kafka, Lev Tolstoj, Herman Melville. Bulwer-Lytton apre la scena introducendo il lettore a un temporale londinese, in cui la pioggia cade «in torrenti» – eccetto quando viene spazzata da «violente raffiche di vento» – «crepitando sui tetti». Inizia così: Era una notte buia e tempestosa.

C’è un’unanimità di giudizio che mi ha sempre lasciato perplesso, nel considerare il tempo atmosferico il re della conversazione di circostanza. Naturalmente, il fatto che sia così diffuso e utilizzato come “conversation starter” deriva dal fatto che il meteo influenza tutti, nessuno escluso, allo stesso modo: tutti avranno freddo, con una temperatura di meno dieci gradi; tutti si bagneranno, durante un temporale.

Ce ne sarebbero decine, di esempi di maltrattamenti del meteo da parte delle arti, in tempi recenti. Mark Twain scrisse, aprendo Il pretendente americano nel 1892, «no weather will be found in this book», Bob Dylan (d’accordo, con anche altri intenti) cantava in “Subterranean Homesick Blues” che «you don’t need a weatherman to know which way the wind blows». Nell’epoca in cui scriveva Twain, il tempo atmosferico stava lentamente ritirandosi dalla letteratura. Era stato, da sempre, uno degli elementi centrali delle arti e delle religioni, una sinfonia lunga secoli di tempeste, fulmini, piogge, dalla Bibbia a Omero fino al Frankenstein di Mary Shelley. A un certo punto le cose cambiarono. Fu merito del progresso, che rese gli spostamenti più facili, le case calde d’inverno, le città sempre più confortevoli. Di conseguenza, l’elemento meteorologico si ritirò dalla letteratura, e in qualche modo si trasformò, passando da minaccia imprevedibile a quotidiano argomento di conversazione. Il merito di questa trasformazione è di una scienza particolare, cresciuta esponenzialmente nel Diciannovesimo secolo: la meteorologia.

Le forze che governavano le onde, i venti, le piogge, erano sempre state sconosciute e, come accade spesso con le cose sconosciute, relegate alla sfera religiosa. Poseidone comandava i mari, altre divinità le brezze, gli incendi, le siccità. In The Weather Experiment di Peter Moore si racconta di come, nel Medioevo in Europa, si usasse suonare le campane delle chiese quando una tempesta si avvicinava, per scacciare le nuvole. Poi, empiricamente, la meteorologia iniziò a farsi strada: uno sconosciuto quacchero, Luke Howard, classificò le nuvole nell’Essay on the Modification of Clouds, in cui introdusse termini che utilizziamo ancora come cirrus, cumulus, stratus; l’ammiraglio Francis Beaufort compilò la prima scala dei venti, basata soltanto sull’osservazione ma piuttosto precisa; Robert Fitzroy, il capitano del Beagle su cui viaggiava Charles Darwin, insistette per pubblicare sui giornali britannici le prime previsioni del tempo, ma andò malissimo, e finì per uccidersi. Forse saremmo meno leggeri e più sensibili nel lamentarci delle imperfezioni delle previsioni, oggi, se avessimo saputo quanto quel dileggio costò a Robert Fitzroy. Forse la mia vicina di posto sul treno da Genova a Milano, in una giornata autunnale di pioggia e nuvole basse, non si sarebbe lamentata del fatto che non stava piovendo abbastanza, rispetto a quanto le previsioni meteorologiche avevano predetto il giorno prima.

«Siamo stati viziati dall’informatica e dalla tecnologia», mi ha spiegato al telefono Paolo Sottocorona, meteorologo e volto televisivo di La7, «l’uomo della strada dice: se possiamo mandare una sonda su Marte che dice se su quel pianeta esisteva dell’acqua un milione di anni fa, allora perché non posso sapere se pioverà domani sulla mia città? Ma la meteorologia non può dare queste risposte. Non è questo tipo di scienza». Ha ragione, naturalmente: è una scienza stocastica, soggetta a leggi probabilistiche, non deterministiche. «Non riesci mai a fare il centro perfetto, riesci sempre a prevedere abbastanza bene il tempo, ma non lo potrai mai fare perfettamente al cento per cento. Potrebbe sembrare frustrante ma mi appassiona, è una specie di sfida», continua.

Con il cambiamento delle abitudini di consumo di notizie anche il meteo, negli ultimi anni, si è spostato: è nato un sottobosco di siti di previsioni meteorologiche, tra cui orribili produttori di sensazionalismo e “meteoterrorismo”, che prevedono “inverni glaciali” con mesi di anticipo, e affibbiano spaventosi nomi mitologici a ondate di caldo estivo, e altrettante app per smartphone, orientate invece sulla bellezza, sul rifiuto del sensazionalismo, sulla precisione. Sul mio smartphone, tra la cartella “News”, quella “Social”, e quella “Viaggi”, ce n’è una che si chiama “Meteo”. C’è un’app molto precisa sulla città in cui vivo, Milano, divisa in quartieri; c’è un’app del Norwegian Meteorological Institute, che è bella ed elegante come può esserlo solo una app meteo norvegese; c’è Weather Underground, con cui posso pre-impostare le condizioni che voglio per andare in bicicletta o a fare una corsa – la pioggia può andare, ma solo non più di tot millimetri, il caldo anche, ma entro una certa soglia, e così via. C’è un motivo serio e un motivo più scemo se tengo così tante applicazioni meteo in tasca, e se le consulto così spesso. Quello serio è che il tempo è importante, e conoscerlo è utile. Quello più leggero è che posso perdere tempo e incuriosirmi, e andare a vedere che tempo fa a Ulan Bator, a Lima, ad Anchorage, a Santiago. Più le condizioni sono estreme, più mi incuriosisco, e più, forse, mi compiaccio della fascia climatica mediterranea in cui sto scrollando il meteo da continente a continente.

Alla base di questo tipo di curiosità, comune a molti, c’è lo stesso principio che fece diffondere, nella primavera di Internet (i primi anni Zero), migliaia di webcam nelle città di tutto il mondo. È un fenomeno che si è raffreddato presto, ma continua oggi in una sorta di underground virtuale fatto di siti dall’estetica anni Novanta, font in corsivo su sfondi di finta carta. Le webcam stesse sembrano spesso ferme a quegli anni: si aggiornano ogni 20 minuti, hanno immagini annebbiate e granulose. Anche in queste livecam, in fondo, il principale elemento di intrattenimento è il tempo: il vento che agita i pixel delle palme di una spiaggia di Dakar, che si bloccano in un glitch prima di ripartire, sempre scattando.

Chiacchierare di meteo, negli ultimi anni, e ancora di più negli ultimi mesi, ha assunto un’ulteriore sfumatura: è diventato politico. Nei giorni successivi all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti mi stupii, parlando con amici e conoscenti più o meno stretti, di quanto la preoccupazione più diffusa non fosse legata alla tenuta del sistema democratico, ai diritti delle minoranze etniche o allo smantellamento dell’accenno di welfare impostato dalla precedente amministrazione. Nemmeno al ruolo degli Stati Uniti in politica estera, ai rischi per il terrorismo, ai destini di Iraq, Yemen e Afghanistan. Tutti, invece, parlavano di clima. Gli accordi di Parigi, la mancata sottoscrizione da parte del governo Trump. I più audaci e informati arrivavano a parlare dell’industria del carbone, della deforestazione, dei danni per le montagne. Dello scioglimento della calotta polare artica, degli uragani.

Il cinema ha visto, ultimamente, anche un ritorno del genere fantascientifico che ha stretti legami con il clima: in Interstellar tempeste di sabbia e una piaga che si nutre di azoto costringono l’umanità alla fuga; in Snowpiercer quel che resta della popolazione vive in un treno che si muove in un mondo congelato da una nuova era glaciale; in Mad Max: Fury Road la Terra è priva di acqua e attraversata da tempeste elettromagnetiche di dimensioni cosmiche; il mondo di Blade Runner 2049 è così inquinato che può nutrirsi soltanto di colture sintetiche. In letteratura, il “nature writing” sta provando a riportare il clima sugli scaffali delle librerie, e alcuni scrittori romanzeschi contemporanei fanno del clima uno dei loro punti di forza: «Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria», è l’inizio, già classico, di Le correzioni di Franzen. Sul versante italiano, è interessante il recente esperimento di Roberto Casati in La lezione del freddo, il memoir di un gelido inverno in New Hampshire, della sopravvivenza segnata da un costante lotta di ingegno contro la neve e il ghiaccio.

Non ci sono argomenti capaci, per completezza e piacevolezza, di rivaleggiare con il tempo nella conversazione quotidiana: si può parlare di politica, ma il terreno si farebbe subito ostile, le divisioni di classe rimarcate. Si potrebbe scegliere il calcio, lo sport, ma con rischi simili. Parlare del tempo è democratico, ed è parlare del mondo, accorgersi di ciò che ci circonda e che influenza – più di ogni altra cosa – le nostre vite, a livello micro e macroscopico: una giornata di pioggia invernale per cui non vorremmo, appena svegli, uscire dal letto; la felicità semplice di una mattina di sole dopo settimane di nebbia; le ceneri di un’eruzione vulcanica, trasportate dal vento, capaci di bloccare per giorni il traffico aereo continentale. Il tempo è alto e basso: all’inizio dell’autunno, un tramonto all’apparenza ultraterreno ricoprì il nord Italia, finendo per occupare, sotto forma di fotografia, le timeline de social network di migliaia di persone. Era un tramonto evocativo, e in un certo senso romantico. Una delle fotografie mi colpì particolarmente. Era stata postata su Facebook dal Centro Meteorologico Lombardo, riprendeva il cielo rosso come ogni altra foto, ma aveva qualcosa di diverso nella caption, che la rendeva ancora più affascinante: «Variopinte nubi lenticolari al tramonto sui cieli lombardi. Uno spettacolo semplicemente incredibile», diceva.

 

Dal numero 33 di Studio, in edicola
Immagini via Nasa Visible Earth