Attualità

Cosa cuciniamo stasera?

Come la moda del cibo ha cambiato le cene con gli amici, tra piccole nevrosi e grandi preparazioni.

di Davide Coppo

Sono cresciuto in una famiglia in cui mangiare rappresentava una necessità più che un rito, e i piatti erano un’abitudine più che una forma d’arte. Ho pranzato per un decennio e forse di più, ogni giorno, nella cucina di mia nonna, in una piccola casa dell’hinterland milanese in cui si era trasferita con la famiglia, e quindi con il nonno, mia madre e mia zia, quando avevano deciso di lasciare il comune della Bassa Padana in cui avevano trascorso gli anni a cavallo della guerra. Immagino che i piatti che mia nonna ha sempre cucinato derivassero, come la sua educazione fatta di semplicità e umile rispetto, da un naturale percorso di crescita familiare: erano cose che si trasmettevano, non che si insegnavano.

La mia educazione culinaria si è così basata su pochi capisaldi: spaghetti al pomodoro, purè, mondeghili, vitello tonnato, insalata russa. È stato naturale, credo, che le mie prime esperienze di cucina in solitaria, durante l’università, fossero dedicate al lento sviluppo di questa semplice tradizione. Passarono alcuni anni, e qualcosa cambiò. La parola foodie iniziava, negli ultimi anni del decennio Zero, a diffondersi come un agile neologismo in alcune cerchie prima ristrette, poi sempre più ampie. La prima stagione di Masterchef Usa andò in onda nel 2010. La personalità di Gordon Ramsay rese semplice la spettacolarizzazione del format, e fece sì che l’eco del programma attraversasse senza problemi l’Atlantico. Iniziavo a frequentare il mondo editoriale e mi accorsi della grande attenzione dei redattori più esperti e anziani di me al fenomeno, che ci sembrava insieme nuovo e antichissimo, e che tutti chiamavano con il suo nuovo nome inglese: food. Piatti che avevamo sempre considerato normali iniziarono a essere rivisitati: ci accorgemmo degli hamburger gourmet, dei kebab gourmet. Le salamelle diventarono street food.

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By Carina Adam, from The Delicious, Copyright Gestalten 2015

 

Quasi dieci anni dopo, cosa rimane di quell’ondata? A prima vista, guardandomi intorno, in Italia e in Europa, molto: molti dei semi piantati sono cresciuti e continuano a farlo, a indicare che quella del “food” non è stata una semplice tendenza passeggera, ma qualcosa di più simile a una presa di coscienza individuale e collettiva capace di muovere insieme abitudini personali e business milionari. Alcune cose, più o meno a caso, che mi vengono in mente a riguardo: David Chang, fondatore di Momofuku, ha lanciato il magazine Lucky Peach nel 2011; nel 2010 Yotam Ottolenghi pubblica Plenty, il suo libro di maggior successo; lo stesso anno Masterchef esordisce in Italia; il sito Giallo Zafferano, nato nel 2006 come un blog, raggiunge nel 2011 i due milioni di utenti unici al mese; nel 2014 La Cucina Italiana viene acquistata da Condé Nast. Nel frattempo mi accorgo di quanto sia riuscita a penetrare nel tessuto della società, ben oltre la nicchia, la piccola rivoluzione culinaria, quando torno a trovare i miei genitori e non vengo più accolto da una teglia di lasagne, ma da una ciotola di ceviche e leche de tigre.

Le cene si sono trasformate in un momento di euforia e stress, da aspettare e temere insiemePer capire che effetti, in parte, abbia avuto su una generazione – la parte di Millennials più matura, diciamo, i nati nella prima metà degli anni Ottanta – ci sono decine di studi e articoli: i Millennials americani sono il segmento generazionale che più consuma cibo organico, ad esempio; Forbes ha parlato di una generazione che spende troppo – più di quanto si potrebbe permettere – soltanto per mangiare; in Italia, negli ultimi anni, le iscrizioni a istituti enogastronomici e alberghieri sono aumentate del 5 per cento; quelle ai dipartimenti di agraria del 40; la ricerca della parola «curcuma», su Google, è cresciuta del 70 per cento negli ultimi cinque anni. Oppure mi basta ripensare alle più recenti cene a cui ho partecipato, a casa mia o di altri, in compagnia di amici. Succede spesso il venerdì o il sabato, già dalle prime ore del pomeriggio. Capita che si attivino prima i singoli contatti Whatsapp, seguiti dai gruppi. Si deve decidere da chi si cena. Si deve decidere con chi. Soprattutto, si deve decidere con cosa. È la fase più complicata, soggetta ai capricci di gusto dei partecipanti e, in una misura forse minore, certamente più nascosta, al narcisismo culinario dei potenziali cuochi. Non ho mai guardato con grande attenzione il programma condotto da Carlo Cracco e Joe Bastianich, ma mi riferirò a questo fenomeno che crea eccitazione e conseguente perturbazione in quasi ogni cena-tra-amici, per comodità, come a “effetto Masterchef”. Le cene si sono trasformate, nella mia piccola, quotidiana e personale esperienza, in un momento di euforia e stress, da aspettare e temere insieme.

L’effetto Masterchef ha fatto sì che si alzassero determinate asticelle: quella delle aspettative, quelle della difficoltà e della complessità, quella del tempo da dedicare alla preparazione e, ancora prima, alla teorizzazione. Mentre scrivo questo paragrafo mi interrompo più volte: sono le 18:30 e avrò ospiti a cena. Saremo in pochi, soltanto quattro persone. Volevo andare sul sicuro e, insieme, sul semplice: scegliendo una polenta, verosimilmente una delle ultime dell’inverno, con un sugo al pomodoro di funghi e carciofi. Potrebbe andare, dice qualcuno in una chat, ma perché non saltare in padella i funghi e i carciofi e farli sfumare poi nel vino bianco? Qualcun altro propone invece un cavolfiore al forno, il che fa allontanare l’idea della polenta ma, allo stesso tempo, mi affascina: lo chef israeliano Eyal Shani ha reso la ricetta famosa, qualche anno fa. Ma questa, tutto sommato, è una cena semplice, organizzata in pochi minuti, e si risolverà senza grandi patemi. Il che la rende una rarità.

«Most of the energy that we put into our thinking about food is about anxiety», ha scritto in un articolo del 2014 il critico culinario John Lanchester sul New Yorker. È una frase che mi risulta estremamente familiare e posso collegarla a decine di episodi. Uno che ricordo con particolare tristezza risale all’estate passata. Avevo sperimentato con successo, per due persone, una pasta semplice quanto sorprendente al gusto: tagliatelle con sardine croccanti, impanate in briciole di grissini, porri e un sugo di peperone. Entusiasticamente e ingenuamente, la riproposi a una cena con sei ospiti, e fu un mezzo disastro. Le sarde erano troppe per la circonferenza della padella, e l’impanatura non tenne come avrebbe dovuto; le tagliatelle si attaccarono un po’, sempre per colpa della mancanza di spazio in pentola, e via dicendo. Ricevetti molti complimenti, ma il narcisismo culinario è di una strana varietà, ed è difficile da saziare con i complimenti dei commensali soltanto, se non ci si è convinti, in primo luogo, da sé. Il problema principale di chi ama cucinare in casa – e può amarlo per molti motivi: perché trova una concentrazione che non ritrova altrove, per il bisogno di produrre qualcosa di concreto dopo otto ore di lavoro da scrivania, e così via – è che sta esplorando qualcosa che è prima una scienza, e solo successivamente un’arte, senza saperne leggere la tavola periodica. Spesso, anzi, ignorandone l’esistenza.

By Carina Adam, from The Delicious, Copyright Gestalten 2015
By Carina Adam, from The Delicious, Copyright Gestalten 2015

 

«La principale differenza tra casa e ristorante, e il principale fastidio di cucinare a casa, è la mancanza di scatole», mi dice Tommaso, che fa il cuoco per davvero. «Anzi, faccio un passo indietro: a prescindere da strumenti o mezzi, la più grande differenza è questa: in una vera cucina si distingue tra mise en place e servizio. Nella mise en place prepari tutti gli ingredienti, grezzi, finiti o semilavorati, per poi metterli nelle scatole. Se sei bravo, quando poi devi servire va tutto liscio». Recentemente ho ospitato Tommaso a casa mia, in una grande cena per 10 ospiti, circa. Ha cucinato dei tentacoli di polpo su un purè di pastinaca e, nonostante i molti complimenti, non era contento. Gli chiedo cosa sarebbe cambiato, in un ristorante. «Al ristorante innanzitutto non avrei avuto paura di far puzzare tutti di polpo, e ci sarei andato giù duro», dice. «Poi la tua padella di ferro era un po’ troppo leggera, e il tuo minipimer non frullava niente, quindi la purea era granulosa invece che soffice».

8/10 Gli italiani che, secondo un’indagine Nielsen, sostengono di fare la spesa nei mercati rionali, oltre che nelle catene di supermercati più diffuse 8% La crescita rispetto all’anno precedente del mercato del cibo biologico in Italia nel 2015, secondo un rapporto della Federazione italiana agricoltura biologica e biodinamica 13% La crescita della “ristorazione ambulante”, tra cui lo street food, nel 2016, rispetto al 2015. La Lombardia è la regione che ha visto nascere più iniziative 37 I punti vendita attualmente aperti di Eataly. Sono 22 in Italia e 15 all’estero. Questi ultimi si dividono in 12 PaesiQuesto inverno un amico mi ha portato in regalo, dall’Indonesia, una pasta di curry verde particolarmente buono. Ci ho preparato subito un curry di pollo e verdure, con abbondante latte di cocco in cui scioglierlo, che ho successivamente rifatto più volte, perfezionandolo e risultandone sempre soddisfatto. Mai, tuttavia, per più di tre persone: avrei bisogno, in quel caso, di pentole troppo grandi, e di conseguenza di fuochi troppo potenti. Ma cucinare piatti di altre tradizioni culinarie è diventato, oramai, una norma e non un’eccezione: in questo momento la newsletter di Epicurious, il sito a tema food del gruppo Condé Nast, mi consiglia uno stufato messicano di pollo e nixtamal: «The most comforting Mexican pork stew», dice, il piatto perfetto «to kick those winter blues». La foto a corredo della ricetta è invitante. Il problema, mi accorgo mentre valuto l’idea di spingere via questi ultimi giorni d’inverno con uno stufato di maiale piccantissimo, è la reperibilità degli ingredienti, l’intima conoscenza delle loro proprietà. È un altro, delicato, capitolo delle difficoltà di cucinare in casa. L’effetto Masterchef ha fatto sì che la parola “cucina etnica” si diluisse in una più generalizzata “cucina globale”, in cui i confini sono fluidi e ci permettono di rivisitare un piatto di kitsune udon utilizzando dei pici della val d’Orcia. Ci scontriamo, in questi casi, con una mancanza di alfabetizzazione: ogni tradizione, come ogni lingua, necessita di una sua struttura sintattica particolare. Adattando un vocabolario autoctono a una grammatica straniera, non otteniamo nient’altro che un creolo.

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By Atsushi Yamahira, from The Delicious, Copyright Gestalten 2015

 

Il fatto che il cibo sia entrato nella sfera delle tendenze, e sia regolato da flussi di mode (lo è sempre stato, ma oggi i flussi sono intercontinentali, e più rapidi a mutare) ha allargato il campo della sperimentazione amatoriale e, di conseguenza, della goffaggine. «Un tempo il cibo diceva qualcosa di chi eri. Oggi, per molti di noi, dice qualcosa di dove vogliamo andare – chi vogliamo essere, come abbiamo scelto di vivere. Il cibo è sempre stato espressione di un’identità, ma oggi queste identità sono più flessibili e fluide», scrive ancora John Lanchester. Ci sono modi di ovviare a questo? Certamente. «Cerco di stare sempre nella comfort zone», mi dice Mattia, da cui sono stato recentemente a cena, mangiando un ottimo gateau di patate. «Quando ho tante persone a cena faccio solo cose collaudatissime, e certo lo faccio anche per paura di fallire, e fallire in cucina, di questi tempi poi, è un’onta che non se ne va più. Una volta ho sbagliato una pasta», continua, «il sugo non teneva, insomma l’ho proprio cannata. Ancora adesso quando vedo le persone invitate quella sera dico: sappi che ancora penso a quella pasta». Tra le molte goffaggini portate dal foodism c’è, naturalmente, una ricerca dell’effetto per stupire. Dopo il gateau, Mattia serve un risotto al cavolo nero, borlotti e guanciale. Racconto di un’altra cena, a cui ho partecipato qualche giorno prima, in cui l’indecisione sul menu si è rivelata così frenetica che, tra gli attriti del gusti, hanno iniziato a comparire le prime scintille di un possibile litigio. Fu risolto tutto con un colpo diplomatico inatteso, spiazzante e rischioso: una pasta al sugo, un piatto che, probabilmente, non ho fatto più di cinque volte in questi molti anni in cui sono stato lontano dalla piccola cucina della nonna. «Un risotto zucca e zenzero è la nuova pasta al sugo», dice Mattia. «C’entra il fatto che è difficile organizzare una cena, un po’ per gli orari folli di lavoro, un po’ perché non si riesce a improvvisare tipo “passa da me, faccio un piatto in più di quello che stavo facendo”. Tutto è calendarizzato e allora ecco che una cena diventa La Cena, e uno non può sfigurare, improvvisare, lasciare immaginare che non ci ha pensato abbastanza. E la pasta al sugo sembra una cosa banale». Mentre Mattia parla, penso che ci è voluta più di una settimana di anticipo per organizzare questa cena.

Il cibo, da più di un decennio a questa parte, non è più soltanto cibo ma politica, arte, design, ecologia, modaCerto, ci sono i libri di ricette. Ricordo quelli sugli scaffali della cucina di mia madre: più che altro, semplici raccolte di piatti semplici, dritte per mangiare con pochi grassi, idee per comporre insalate vagamente eterodosse. Non so se esistano ancora quel tipo di ricettari, penso di no, almeno non sulla carta, fuori da internet. Penso ai libri di cucina che ho acquistato, o inserito nella “Lista desideri” di Amazon più o meno recentemente: Plenty e Plenty More di Ottolenghi; il Nordic Cookbook edito da Phaidon; White Heat di Marco Pierre White; Noma e Central, editi sempre da Phaidon. Sono libri che spaziano dalla cucina scandinava a quella sudamericana, e a bene vedere non sono nemmeno dei veri e propri libri di cucina, bensì libri in cui riescono a infilarsi, al fianco dei piatti, l’arte e la fotografia. Francesco, un amico scrittore con cui mi capita di parlare di libri, mi dice: «Mi emoziona sapere che si possano leggere ricette come si leggono articoli su Sheila Heti. Lo dico senza giudicare, amo le mode che insegnano cose belle». L’ultima frase è significativa, penso: il cibo, da più di un decennio a questa parte, non è più soltanto cibo ma politica, arte, design, ecologia, moda. Ognuna delle forme in cui si è trasformato (o l’abbiamo trasformato) è suscettibile di giudizi, di odio o di amore. Penso, a proposito, a una cosa che mi disse intorno a Natale del 2016 Antonia Klugmann, chef de L’argine a Vencò, il ristorante stellato nei dintorni di Gorizia: «Quando mi dicono: “Adesso il bio è di moda”, io dico: meno male. Dio grazie che è di moda. Se fosse di moda uccidere i leoni mi preoccuperei di più».

La cosa che, da qualche riga, sto chiamando “effetto Masterchef”, è in fondo collegata a quello che potrei chiamare “effetto Tripadvisor”, ma ne è l’altra faccia: se i clienti di ristorante, grazie a applicazioni come Tripadvisor o a Foursquare, si sono voluti trasformare in critici culinari senza esserlo, altri hanno scelto di trasformarsi, o travestirsi, da chef. Con differenze sostanziali ed evidenti, facilmente deducibili dal confronto tra l’atto del giudicare e quello del creare. C’è un elemento di cui non ho parlato ancora, ma che gioca un ruolo fondamentale nelle piccole nevrosi delle cene a casa, ed è legato all’arredamento: se il cuoco improvvisato mette i panni dello chef, la casa metterà a sua volta i panni del ristorante, in una trasformazione che parte, naturalmente, dalla tavola, ma comprende poi una serie di ritualità estetiche. «Dell’ospitare mi piace tutto», mi dice Manuela una sera a cena, «dal pensare il menu al cambiarmi tre secondi prima che l’ascensore arrivi davanti alla mia porta». Dal punto di vista del cuoco e padrone di casa, l’esperienza della preparazione della cena è enormemente sbilanciato rispetto a quello dell’atto del mangiare, come in una specie di “sabato del villaggio” culinario. Personalmente, mi capita di considerare l’atto del mangiare, in queste occasioni, quasi una formalità. Il piacere vero, in fondo, si trova lontano dal complesso e ansiogeno teatro di queste cene, ed è quello del comford food personale, fatto anche di una pasta anche al sugo, forse impiattata male e in quantità eccessiva. Da preparare con calma, da consumare con la stessa calma, in silenzio, in solitudine, in pace.

 

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Foto in testata: by Haim Josef, from The Delicious, Copyright Gestalten 2015
Tutte le foto dell’articolo sono tratte dal libro The Delicious, in vendita sullo store Gestalten, qui