Negli anni Novanta, lo psicologo Martin Seligman ha guidato il movimento della Psicologia positiva, che si proponeva di porre lo studio della felicità umana al centro della teoria e delle ricerche nel campo della psicologia, riprendendo peraltro un filone nato negli anni Sessanta. Da allora, una mole impressionante di libri di self-help ha accompagnato una produzione di studi sul tema altrettanto corposa: eppure, dicono i rilevamenti, la nostra felicità non è aumentata. Forse, sostiene Quartz, perché siamo fatti per essere tristi, almeno ogni tanto.
D’altronde non esiste un solo tipo di felicità: nel suo libro The Happiness Myth, la filosofa Jennifer Hecht spiega che esistono diversi tipi di contentezza, e spesso più o meno direttamente in conflitto tra loro (pensate alla felicità derivante da un matrimonio stabile, che per forza di cose richiede sacrifici riguardanti altre felicità).
Oltre a questo, la felicità è per sua natura un concetto sfuggente e capace di dare soddisfazione “stabile”: molte ricerche hanno stabilito che vincere grosse somme di denaro alla lotteria non cambia i livelli di felicità nel lungo termine. Si tratta di ciò che la psicologia ha definito “tapis roulant edonistico”: siamo costantemente attratti da nuovi obiettivi, sempre convinti che il prossimo sarà quello in grado di farci assaggiare la vera felicità. Da un punto di vista evolutivo è utilissimo, perché permette all’essere umano di non sedersi sugli allori e continuare a cercare di migliorarsi.
Per lo stesso motivo, di norma tendiamo a mitizzare la felicità del passato e ad avere alte aspettative nei confronti del futuro; il presente – e il suo livello di soddisfazione – passano fisiologicamente in secondo piano, ma la cosa non è necessariamente negativa: sapere che la contentezza esiste ci aiuta a riconoscerla quando arriva, e a goderne di più e meglio. Finché dura.