Nel corso dell’ultimo decennio il mercato tecnologico di consumo è stato rivoluzionato da una serie di prodotti in grado di sconvolgere certezze e abitudini: l’iPod e il suo impatto nel music business, iPhone e smartphone in genere, più tutto il resto. Protagonista è stata, tra tutti, Apple, il cui allora Ceo Steve Jobs presentò il primissimo iPhone elencandone i pregi e concludendo con una frase rimasta mitica nel settore: «And boy, have we patented!». Era brevettatissimo, ergo protetto da furti e furtarelli, sosteneva Jobs. Non è andata proprio così.
I patent, i brevetti in poche parole, sono l’unità di misura del progresso tecnologico: è da questi documenti che nascono oggetti che poi diventano di uso comune o sprofondano nell’oblio; essi sono quindi capaci di misurare lo stato di sperimentazione tecnologica di un Paese, permettendoci di toccare con mano il vuoto tra Germania (22.257 brevetti registrati nel 2011, il 41,2% di quelli registrati nell’Unione Europea) e Italia (3.865 nello stesso anno).
Quello dei brevetti è un mercato particolare in cui una serie di specialisti descrivono un prodotto a un ente ufficiale ma – specie quando si tratta di giganti come quello di Cupertino – devono stare attenti a non dire troppo. Non subito, quantomeno. A causa di quest’ambiguità di fondo, si sono diffusi i patent trolls, i troll dei brevetti, aziende che registrano prodotti così vaghi da poter essere scambiati per qualsiasi altro oggetto inventato da un’ignara persona, la quale viene denunciata e, essendo le spese legali molto alte, spesso accetta di sborsare una somma “minore” per sedare il troll. È un business parassitario – ne ha parlato recentemente John Oliver nella sua trasmissione – ma anche un esercizio artistico per cui si spaccia un disegno o una descrizione per qualcos’altro. Nelle nuances si nascondono i dollaroni.
Tutti però si rendono conto che il prossimo iPod, per esempio, dovrà passare per questa strada, quella del patent. E la strada viene sorvegliata con estrema cautela da Apple, Google, Samsung e aziende simili, da tempo impegnate in guerre legali sul diritto d’autore di questa interfaccia o quella rotellina. Una spesa miliardaria alla quale non si può rinunciare, pena – appunto – la perdita del prossimo iPhone e la derivante montagna di miliardi.
Ora allontaniamoci dal recinto dei giganti dell’elettronica e prendiamo un esempio particolare: Magic Leap è una startup di cui non si sa molto, si occupa di realtà aumentata e nel 2014 ha ricevuto 540 milioni di dollari d’investimenti da Google, Qualcomm, Andreessen Horowitz e altri. Pochi mesi fa è sbucata dalla nebbia di denaro con una serie di brevetti che, a mio avviso, hanno aperto una nuova fase nell’illustrazione per brevetti. Interfacce, comandi e funzioni d’ogni tipo, nel caso di Magic Leap, non si basano su supporti fisici – un joystic, uno smartphone – ma sulle visioni create dall’azienda stessa e sovrapposte a quelle degli utenti. Ovvero, quelli di Magic Leap hanno dovuto brevettare l’invisibile – dovendo stare attenti a non farselo soffiare dalla concorrenza.
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