Attualità
I giornali italiani cominciano a reagire?
Cambi di direzione generazionali e nuovi sistemi come il paywall: i quotidiani si sono accorti che i tempi sono cambiati e cercano una soluzione.
È un momento di grande fermento nei principali quotidiani italiani, con Repubblica e La Stampa che hanno da poco cambiato direttore mentre il Corriere, che il direttore l’ha cambiato a maggio, ha appena introdotto, primo esperimento in Italia in questa direzione, un “metered paywall”, cioè un paywall che, come quello del New York Times, permette la lettura libera di un tot di articoli (20 al mese, nello specifico) e poi richiede l’abbonamento. Stanno cambiando gli orari delle redazioni: al Corriere e alla Stampa s’è cominciato ad avere giornalisti di ogni settore – politico, economia ed esteri – al lavoro di prima mattina, e altri di turno a tarda notte, di modo da assicurare un flusso continuo delle notizie sul web. Presto, ha annunciato il direttore, anche Repubblica dovrebbe avere turni analoghi. Stanno cadendo, lentamente, le distinzioni anacronistiche tra “redazione carta” e “redazione Internet”. Tutti stanno cercando di alzare la qualità dei loro siti. Molti stanno provando, con quale fortuna si vedrà, a convincere gli italiani a pagare per leggerli.
L’impressione, inoltre, è che sia cambiata la mentalità. Ho trascorso l’ultima settimana a parlare con una decina di colleghi che lavorano nei quattro principali giornali italiani, Corriere, Repubblica, Stampa e Sole24Ore (trattandosi di chiacchierate informali, hanno chiesto di non essere citati per nome) e quello che ne è emerso è un senso d’urgenza che prima non c’era, un lavorio intenso. Non ancora ottimismo, ma la consapevolezza che qualcosa si sta muovendo.
«Chi si ferma è perduto» è una frase che ho sentito più di una volta. «La crisi ha fatto il suo mestiere: la gente si è spaventata e molte resistenze sono cadute. Il cambio generazionale ha fatto il resto», racconta un redattore. «Il clima è cambiato moltissimo: anche solo cinque anni fa c’erano colleghi che se gli chiedevi di scrivere un pezzo per il web ti guardavano con l’espressione di una mucca che guarda passare il treno, adesso è scattata l’adrenalina», dice una redattrice. «È la fine di un’era, stanno saltando molti tappi», aggiunge un altro, facendo notare che al timone dei tre principali quotidiani improvvisamente c’è una nuova guardia: Luciano Fontana, Mario Calabresi e Maurizio Molinari, che se non proprio coetanei appartengono alla stessa generazione. «È un momento di riorganizzazioni, tutto in fase embrionale, ma le cose si stanno muovendo», dice un altro ancora.
L’idea che mi sono fatta, dalle chiacchierate di cui sopra e dalle mosse recenti di editori e direttori, è che, forse per la prima volta, ci sia una presa di coscienza della disruption e una voglia di prenderla di petto. Una consapevolezza trasversale, dai redattori ai manager, che i vecchi modelli sono saltati, che non si può restare sulla difensiva e salvare il salvabile, che bisogna trovare nuovi modelli se non si vuole affondare. L’ultimo decennio è stato un vero e proprio bagno di sangue per i grandi quotidiani italiani, che hanno perso in media la metà, o quasi la metà, delle copie cartacee vendute. Il dato interessante è che gli abbonamenti online – fino a poco tempo fa prevalentemente via app, e/o con formule che consentivano l’accesso ai contenuti premium sui siti – hanno in parte tamponato questa emorragia, senza però riuscire ad arrestarla del tutto.
Oltre al fatto di essere “metered”, un altro punto in comune tra il paywall del Nyt e quello da poco introdotto dal Corriere sta nel fatto che sono entrambi porosi. S’è scritto molto – spesso con ironie, dando quasi per scontato che sia uno scivolone – sul fatto che quest’ultimo è aggirabile navigando in incognito. A dire il vero, anche quello del quotidiano americano è piuttosto poroso: per anni è stato sufficiente eliminare una breve stringa dall’url degli articoli per poterli leggere senza pagare, ed è ancora possibile bypassare il blocco con la navigazione incognita. Col Wall Street Journal, che pure ha un paywall più invasivo, basta copia-e-incollare il titolo di un articolo su Google (seppure pare stiano pensando di correggere il tiro). I paywall di altri giornali sono aggirabili accedendo ai contenuti da un social network o da Google News.
Diversi analisti però sostengono che non siano affatto errori, bensì una strategia con una sua logica. «Il paywall del Times è, in un certo senso, definito dalla sua porosità. I vari “buchi” non sono un errore, ma il risultato di un ragionamento (corretto, a mio avviso) sul trovare il giusto equilibrio tra i lettori più e meno affezionati. La porosità è una scelta comprensibile: se qualcuno è determinato a non pagare per leggere, tanto vale ricavare qualche introito pubblicitario da lui», ha scritto il direttore di Nieman Lab Joshua Benton.
Ha espresso un’opinione simile anche l'(ex) analista finanziario della Reuters Felix Salmon: «La porosità del paywall nel Financial Times è un bug, ma in quello del New York Times è una caratteristica. Il principio è: se ogni tanto leggi il Nyt cliccando un link da Twitter, no problem. Ma se sei il tipo che va tutti i giorni sul nytimes.com e legge quattro o cinque articoli, presto o tardi ti stuferai di dovere cercare il titolo su Google prima di leggerli». Più recentemente ha sostenuto una tesi leggermente diversa Martin Anderson, il direttore del portale di media e tecnologia The Stack: i paywall «devono essere fragili», sostiene, perché da un lato gli editori hanno bisogno di abbonati, ma dall’altro hanno bisogno di buoni piazzamenti su Google, e un link che porta a una pagina non visualizzabile non è il modo migliore per ottenerla.
Dunque nell’economia dei media anglosassoni i paywall stanno funzionando, nonostante la facilità in cui sono aggirabili e forse anche grazie ad essa. Questo però non significa automaticamente il modello sia replicabile in Italia. I dati del Nyt, del Wall Street Journal e del Financial Times, scriveva Doctor su Nieman Lab, dimostrano che «i lettori premiano il giornalismo globale d’élite». Il fatto di essere in inglese, cioè, permette a questi giornali di avere su Internet una readership globale. Inoltre il fatto di essere brand prestigiosi, percepiti come assicurazione di qualità, permette loro di avere una readership disposta a pagare. Sul primo punto, i media nostrani partono con un handicap non sanabile, perché il bacino di partenza è infinitamente più ridotto: gli utenti unici del New York Times (60 milioni) superano per numero i cittadini italiani (59 milioni). Sul secondo punto invece si sta lavorando.
Molte cose fanno pensare che i media italiani stiano puntando ad alzare la qualità sul web con l’idea di convincere i lettori a pagarlo. A lungo Internet è stato visto come un supporto minore, gestito da una redazione separata, spesso con posizioni meno prestigiose e meno pagate, quasi fosse una sorta di giornalismo di serie B. Adesso l’integrazione tra carta e web e i nuovi turni che prevedono presenze continue della redazione cartacea per aggiornare il sito sono un’indicazione che è l’aria è cambiata. L’obiettivo è avere un’informazione online a rullo continuo, senza interruzioni se non qualche ora a notte fonda, come avviene nei media internazionali. E, soprattutto, alzare la qualità, il prestigio e la credibilità. Sempre in questa ottica, stanno quasi scomparendo gli articoli non firmati dai siti dei grandi quotidiani.
Quando Calabresi ha fatto il suo discorso di insediamento a Repubblica, oltre a parlare di integrazione carta-web, ha invitato esplicitamente i suoi redattori a essere più rigorosi: «Datiamo sempre dal luogo in cui siamo», ha detto, «e citiamo sempre le fonti». Sembrano ovvietà, forse, ma riflettono una richiesta di credibilità in una fase in cui i media si sono resi conto che la credibilità è un’arma irrinunciabile se si vuole convincere i lettori a pagare anche online, e che questa forse è l’unico modo di tenere in piedi i giornali. La qualità sul web non è retorica, è una necessità economica. «Gli editori, per un certo periodo, hanno fatto i siti male perché volevano salvare la carta», mi ha detto il più pessimista dei giornalisti con cui ho parlato. «Tutto d’un tratto si sono accorti che la carta non si può salvare, e che allora non ci resta altro che fare bene il web».