Che mondo sarebbe senza McDonald’s? Nell’epoca della fusione delle barriere commerciali rimane una minoranza di Paesi dove, a causa di embarghi ultradecennali, i prodotti simbolo del capitalismo globale – quelli che noi occidentali consideriamo diffusi quanto i beni naturali – non sono in vendita.
Il caso della Coca-Cola è emblematico di questa particolare condizione: immaginatevi una vita senza traccia della bevanda frizzante di Atlanta. Dall’Iran degli ayatollah ai recessi semidesertici dell’Africa, dalla Siria devastata dalla guerra alle isole del Pacifico la Coca-Cola è senza dubbio il drink più famoso del mondo. Dove non può arrivare materialmente in tir e container, però, alimenta la suggestione di un prodotto “per ricchi”. Dover vendere una soda come se fosse un bene di lusso non è semplice, e la stessa multinazionale proprietaria del marchio, in Birmania, si è accorta del perché.
Il Myanmar non è certo l’unico luogo in cui i brand più familiari del commercio mondiale hanno una storia travagliata. A Cuba, ad esempio, dove vige l’embargo statunitense dal 1962, formalmente la Coca-Cola non esiste. Eppure a L’Havana la si può trovare, importata dal Messico o comprata in paesi terzi in speciali “missioni diplomatiche” in cui gli emissari castristi negoziano l’import di prodotti americani. E non c’è crisi dei missili o Baia dei Porci che tenga: secondo le stime del U.S.-Cuba Trade and Economic Council di New York il giro d’affari dei brand americani nell’isola è di circa 20 milioni di dollari l’anno.
In Corea del Nord i gerarchi comunisti importano dall’estero vestiario di lusso, orologi, birra e persino panini McDonald’s
Succede così anche in Corea del Nord, il paese più ostentatamente chiuso del globo, oggetto di sanzioni internazionali per il suo programma nucleare. A Pyongyang, rivelò due anni fa un funzionario sudcoreano, i gerarchi comunisti acquistano grandi quantità di vestiario di lusso (Armani e Gucci), orologi, birra e persino panini McDonald’s, importati dalla Cina su aerei della compagnia di bandiera Air Koryo e distribuiti alla leadership del Partito. La presenza della bibita di Atlanta venne provata da questo breve video: in una pizzeria di Pyongyang alcuni commensali accompagnano un pranzo con Coca-Cola, mostrandone l’inconfondibile logo sulla lattina. L’azienda negò la vendita diretta nel Paese di Kim Jong-un, ma il suo prodotto sembrava non curarsi delle barriere. D’altronde, si può vivere in un villaggio globale e non conoscerne gli emblemi?
Se prendiamo il caso della Birmania, dove Coca-Cola ha appena avviato la vendita delle sue bollicine dopo un embargo durato sessant’anni, tutte le contraddizioni di questi paradossi economico-culturali si esprimono in maniera evidente.
In seguito alle riforme democratiche avviate nell’ultimo triennio dal governo post-giunta militare – che hanno portato al rilascio di centinaia di prigionieri politici dell’ex dittatura (un nome su tutti: Aung San Suu Kyi) e all’istituzione di sindacati e stampa libera – gli Stati Uniti hanno deciso di annullare le sanzioni economiche nei confronti della penisola.
«L’immagine della Coca-Cola che la gente aveva in Birmania era quella di un prodotto per persone estremamente ricche e benestanti»
La settimana scorsa Coca Cola ha aperto un impianto di imbottigliamento poco fuori Rangoon, la città più popolosa del Paese. Il vero problema, arrivati a questo punto – come spiega Shakir Moin, il responsabile del marketing in Asia sud-orientale – era riuscire a venderla. Negli anni della dittatura la bibita arrivava di contrabbando da Tailandia e Singapore e veniva venduta a prezzi altissimi in alcuni hotel o caffè d’alto bordo. Con le parole di Moin, quindi, nel secondo Paese più povero dell’Asia «l’immagine della Coca-Cola che la gente aveva era quella di un prodotto per persone estremamente ricche e benestanti».
La sfida di marketing che si poneva di fronte alla società era spiegare cos’ha il suo prodotto di tanto speciale – e perché non è soltanto riservato a una nicchia di funzionari facoltosi. Che slogan utilizzare? Di certo non quelli in uso nel resto del mondo, autocelebrativi o incentrati su temi astratti come l’amicizia e la felicità.
Dopo aver spulciato a lungo gli immensi archivi degli spot pubblicitari di Coca Cola – fatti di orsetti polari natalizi, del celebre Always Coca Cola e dei grandi classici americani degli anni ‘70 – Moin ha trovato la soluzione: replicare l’advertising del suo Anno Zero, quello del 1886, in cui Atlanta venne tappezzata di poster dove campeggiava uno slogan semplice ed efficacemente descrittivo: “Delicious, refreshing”.
La rete elettrica della Birmania non fa eccezione alle condizioni in cui versa il Paese. Il team di Coca Cola temeva che le mancanze di corrente e il conseguente mancato uso di frigoriferi rovinassero i primi assaggi della loro nuova clientela. Per far fronte a questo timore, ha deciso di organizzare distribuzioni di campioni gratuiti alla temperatura più corretta e con un vademecum di regole per gustare al meglio la bevanda –poi anche stampato sull’etichetta delle bottiglie.
Rimaneva la questione iniziale, ovvero quella della percezione del prodotto. A scanso di equivoci, Coca Cola ha deciso di fare un’eccezione alla policy di lasciare al rivenditore locale la facoltà di stabilire il prezzo finale di vendita – i negozi birmani avrebbero di certo continuato a venderla a costi altissimi – stampando al centro di ogni fascetta la dicitura «300 kyat». Si tratta dell’equivalente di circa 20 centesimi di euro.