Stili di vita | Dal numero

Ogni vita è una storia fatta di bar

Tavolini, ordinazioni e bugie: l'autobiografia baristica di una scrittrice da Roma a Berlino.

Illustrazioni di Clara Rubin

L’indirizzo a cui mi faccio spedire i libri da recensire dalle case editrici è quello di un bar. Un bar di «compagni veri», come l’ho sentito definire da più di una persona, nato da un peculiare cortocircuito nel normale processo di gentrificazione: prima al suo posto c’era un negozio fichetto di biciclette a scatto fisso. Si tratta dell’equivalente in formato bar di un centro sociale, dentro ci trovi universitari che hanno appena scoperto Foucault, ragazze che hanno appena scoperto Il secondo sesso, cinquantenni esuli da rivoluzioni eternamente immanenti e mai davvero deluse, operai in tuta da lavoro, anche se non so esattamente dove operino visto che non ci sono fabbriche nelle vicinanze, e spesso due barboni che si fanno offrire da bere e si appisolano su un divano sfondato che non avanza pretese di bohème nella propria usura. Spotify – in versione non premium – può far partire pezzi dei Mano Negra, Led Zeppelin, Rage Against the Machine, oppure Sonic Youth e Fugazi. Ma a volte può capitare anche di ascoltare cose mai sentite fuori da lì, tipo free jazz con un urlatore sardo o un disco di ballate salentine intrise di realismo magico e sesso puberale con creature marine, quello che oggi potremmo definire un avanguardista album New Weird.

Un giorno a settimana nel bar fanno la riunione del collettivo, e quando i toni si fanno più accesi, l’annosa questione leninismo vs trotskismo viene presa in considerazione senza alcuna forma di ironia né sentimentalismo. In quei frangenti sento assopirsi anche dentro di me ogni distanza prospettica e il fatto che poggiato sul mio tavolino ci sia un Mac, sembra uno di quegli errori cinematografaci da osservatori arguti, tipo la bombola del gas sul retro della biga de Il gladiatore. Quando ho chiesto al bar se potevo farmi spedire lì i libri per essere sicura ci fosse qualcuno ad accoglierli, il carismatico leader del collettivo mi ha detto: «Certo, basta che siano tutte case editrici indipendenti». Ho annuito cercando di modulare l’assenso in un punto mediano tra leninismo e trotskismo, ma evidentemente c’era qualcosa di poco convincente nella mia espressione, perché da parte sua c’è stato bisogno di una chiosa a effetto: «Prima che un libro Mondadori entri qua dentro, deve passare sul mio cadavere». Trascorro svariate ore della mia giornata in quel bar, diciamo tra le quattro e le cinque ore, e nessuno ha mai capito cosa faccia. Recentemente mi è stato chiesto se gestisco «una piccola biblioteca combattente». Insomma, passo l’equivalente temporale di un part-time lavorativo a portare avanti la mia impostura, col panico che qualcuno prima o poi googli il mio nome e scopra che ho appena pubblicato un libro con Mondadori.

La mia parte paranoica mi induce a pensare che in realtà lo sappiano già benissimo e stiano lì pronti ad aspettare la mia capitolazione. Tento di mantenere il sangue freddo, i compagni veri sono preparati a una guerra di logoramento, e ogni volta che cedo al narcisismo di controllare se siano uscite recensioni nuove del mio romanzo, sono attentissima che non ci sia nessuno alle mie spalle. Ma sono terrorizzata dall’idea che alla prossima riunione del collettivo venga messo all’ordine del giorno: «Cosa fare con quella bastarda». La mia parte idealista pensa che quello è il mio bar preferito di Roma e che voglio davvero bene a tutti loro, e che quando ho visto la foto incorniciata di uno dei due barboni con sotto la scritta: «Ciao, ci mancherai» e ho capito che era morto, ho pianto tutto il giorno, e che in realtà anche loro mi vogliono bene, e che se mai scopriranno che pubblico con Mondadori mi faranno soltanto un’accorata ramanzina, e cercheranno di farmi smettere, proprio come faresti con un compagno che ha preso una brutta strada. Ma la mia brutta strada è irrecuperabile. Ho costruito la mia identità di inutili imposture e di utili perdite di tempo fin da quando avevo vent’anni e, con un insolito senso di predizione applicato a nessun’altra forma di lungimiranza, avevo deciso che avrei trascorso molti giorni della mia esistenza dentro i bar.

Il padre della mia amica ci aveva sottoposto a un interrogatorio rituale: «Avete visitato il Louvre?». «No». «Il Centre Pompidou?». «No». Fatemi capire, avete passato tutto il tempo a fare le stupide nei bar?»

Ho fatto la mia prima vacanza senza genitori in ritardo sulle tappe curricolari della giovinezza, ovvero all’ultimo anno di liceo, e sono andata a Parigi insieme a un’amica. Siamo state molto scrupolose nel rispetto dei cliché e, personalmente, per attenermi fino in fondo al protocollo, ho avuto la mia breve avventura amorosa con un violinista. Io parlavo a stento francese, lui non parlava inglese. Suonava per bar, passavamo le nottate lì, non me ne fregava niente di tornare a casa nemmeno per scopare. Ricordo che il complimento più romantico che mi avesse fatto è che i miei occhi erano marroni, «marroni, come lo schienale della mia sedia». Non era stato nemmeno facile capirlo, per cui si era proprio dovuto sforzare indicando i miei occhi e poi lo schienale, costringendo il suo dito a fare più volte la spola tra i due punti fin quando la didascalia si era rivelata intellegibile. Eravamo al bar. Avevo gli occhi marroni. Non desideravo altro. O meglio, imparavo proprio lì a desiderare: in quella finzione di me stessa che si nutriva di afasia alcolica, limiti linguistici e totale irrilevanza della vita fuori da quelle pareti. Non si trattava di una confidenza spaesata da lost in translation, ma di una corposa idea di ambiguità che ci rendeva testimoni l’uno dell’altra all’interno di quell’intervallo unico eppure infinitamente replicabile, come in una specie di dimensione frattale. Se qualcuno fosse venuto a raccogliere le nostre testimonianze, io avrei detto che era un grande violinista – e dubito che lo fosse – non so cosa avrebbe detto lui di me, ma ancora oggi chiederei a un eventuale biografo di andare a riesumare quella testimonianza. Al ritorno dal viaggio da Parigi, il padre della mia amica ci aveva sottoposto a un interrogatorio rituale: «Avete visitato il Louvre?». «No». «Il Centre Pompidou?». «No». «Il Musée d’Orsay?». «No». «Fatemi capire, avete passato tutto il tempo a fare le stupide nei bar?». Immagino dovesse sembrargli una sintesi offensiva, per me fu una sintesi rivelatoria. Ho trascorso il resto dei miei anni a lavorare intorno a quel concetto. Bastava ampliare lo spettro semantico di “stupido”, rendere elastica la sua maglina stretta, o più semplicemente risalire all’etimologia: “Preso da stupore, attonito”.

Oggi mi rendo conto che i bar per me sono stati al tempo stesso i luoghi in cui ho vissuto i momenti più sinceri e profondi della mia vita, e i luoghi dove ho raccontato un sacco di cazzate alla gente. Ma sono convinta che tra le due esperienze non ci siano molti gradi di separazione. Non ho mai avuto un lavoro che necessitasse un luogo preciso per il suo svolgimento; se propizio è avere ove recarsi, ho deliberatamente scelto che quell’ove fossero i bar. A cominciare dall’università. Non sopportavo l’illuminazione e il calore marcio delle biblioteche, la coltre di silenzio stagnante. Quando qualcuno porta avanti con veemenza la battaglia civica per allungare gli orari di apertura delle biblioteche, non riesco a essere molto solidale, entro nella mia versione Maria Antonietta: «Ma ragazzi, ci sono i bar!». Preparare gli esami nei bar rispondeva anche a un certo principio di efficienza perché si potevano mettere in pratica quei trucchetti elementari da apprendimento mnemonico che cercavano di spacciarti in continuazione nei corsi a pagamento, ed era più semplice, per dire, incamerare la voce “Paolo Volponi” del manuale, se l’associavi a ciò che stavi consumando in quel momento: “Okay, Memoriale – croccante all’amarena”. Quel tipo di apprendimento si è riversato nelle zone fondamentali della mia memoria emotiva e se dovessi rivivere in punto di morte la mia vita come in un film, si rivelerebbe una sequenza liquida di inquadrature nei bar. Adesso che purtroppo ho smesso di preparare esami e che, no  nonostante tutto, ho pesanti lacune sulla produzione di Volponi, vado nei bar a scrivere, ma molto più spesso a fingere di scrivere. Di base vado nei bar a fingere.

Ho fatto l’Erasmus a Berlino, da allora continuo a tornarci per qualche mese ogni anno. Il mio monitoraggio dei bar berlinesi segue criteri estremamente scientifici: poiché hanno tolto la connessione libera quasi dappertutto per impedire alla gente di scaricare illegalmente, mi affido allo screening dei camerieri per sviluppare un senso di appartenenza. È così che due anni fa è diventato il mio bar di elezione un posto dove lavorava un ragazzo di vent’anni irlandese, con i capelli da Lady Oscar e vestito come Withnail in Shakespeare a colazione. Si chiamava Art. In realtà anche lui fingeva di lavorare, visto che passava tutto il tempo a leggere sconosciuti poeti irlandesi dietro il bancone, o a cavalcioni sul bancone, e poi veniva a declamarmeli. Se chiedevo un bicchiere di vino, lui si finiva il resto della bottiglia. Per non inquinare l’ortodossia estetica di quei pomeriggi con Art, non mi portavo il computer dietro, e scrivevo sul mio quadernetto. Lui ha avuto la delicatezza di non chiedermi mai quanti anni avessi, io ho portato avanti l’impostura – almeno con me stessa – che mi credesse molto più giovane. Avevo trentotto anni. Stavo scrivendo quello che poi sarebbe diventato il riprovevole romanzo Mondadori, ma per Art la questione era ancora più a monte. Si definiva un poeta, e sebbene leggesse versi di poeti palesemente editi considerando che aveva i loro libri in mano, viveva nel mito di una vita raminga da alcolista e reietto, e inorridiva all’idea che un giorno avrebbe potuto vergare un contratto e vedere le sue poesie stampate su un prodotto con codice a barre. Al contrario dei compagni veri, lui ha googlato il mio nome e scoperto che avevo già pubblicato due romanzi. L’intimità di quei pomeriggi è diventata di colpo inutilizzabile. Mi ha ignorato per tutto il giorno. «Guarda che ho venduto pochissimo», cercavo di tranquillizzarlo. Ha smesso di recitarmi versi e si finiva le bottiglie per conto suo.

Oggi mi rendo conto che i bar per me sono stati al tempo stesso i luoghi in cui ho vissuto i momenti più sinceri e profondi della mia vita, e i luoghi dove ho raccontato un sacco di cazzate alla gente

Il fatto è che anche io ho sognato una vita raminga da alcolista e reietta più di quanto abbia mai sognato, per dire, di vincere lo Strega o di scrivere un editoriale su La Repubblica. E allora perché certi sforzi sembrano andare in direzione totalmente opposta? Compreso ciò che sto scrivendo in questo momento? Nella mia autocoscienza da bar mi sentivo una traditrice di Art e di tutte le promesse assurde che avevo fatto a me stessa, e ciò che mi spaventava è che quell’infrazione avrebbe smesso di tormentarmi fuori da lì. Molti anni fa, all’età di Art, anche io scrivevo poesie. Ero in pieno periodo Amelia Rosselli. Non avevo mai fatto leggere niente a nessuno. Durante l’Erasmus a Berlino, quando mi era venuto a trovare il mio ragazzo, avevo deciso di fare il mio coming out. Eravamo a letto, di fronte al totem dell’Ofenheizung che non ero mai riuscita a far funzionare davvero, si gelava, eravamo stretti sotto le coperte a fumare – una delle abitudini più nocive e più rimpiante degli anni – quando gli avevo chiesto: «Ma vuoi che ti legga le mie poesie?». E così mi ero fatta coraggio e mi ero lasciata andare al flusso di quel pesante calco di serie ospedaliera. Non si sentiva più nulla se non la mia voce che leggeva in un silenzio fitto e incantato. Finché, in effetti, il silenzio aveva cominciato ad apparirmi un po’ troppo denso. Lui si era addormentato. Erano le tre di notte, la temperatura fuori era di -13 (lo so perché sono andata a controllarla sul giornale, volevo che la spietatezza dei dettagli nell’autofiction che avrei fatto il giorno dopo rendesse al meglio il disperato eroismo della nottata). Sono arrivata fino al bar d’angolo, uno di quei posti che sopravvivono ancora oggi a Berlino, la scritta fuori col lettering da Oktoberfest, l’arredamento massiccio di legno, la luce rossastra e gli alcolizzati sfattoni alla Bukowski se Bukowski fosse stato tedesco. Dentro si conoscevano tutti, io ero una forestiera con il mio abissale dramma interiore. Mi hanno accolto come una profuga. Ho pianto ininterrottamente per un paio di ore bevendo Steinhäger (una roba che oggi ha finalmente trovato il suo riscatto hipster e viene venduta al duty free accanto alle bottigliette di gin autoprodotto a Tempelhof), e ho fatto il mio tandem linguistico con un sessantenne di Dresda, rimasto fedele al sogno della Ddr, a cui cercavo di raccontare la genesi del mio dolore partendo dalle opere giovanili di Amelia Rosselli. Ha ascoltato tutto. Ha capito tutto. Gli ho letto anche una poesia. Ha detto che era bellissima. Era tutto vero. Ed era tutto finto.

L’anno scorso durante la Berlinale, in attesa che cominciasse la proiezione di Casting JonBenet, sono andata a bermi un cocktail in un locale leccatissimo di fronte al cinema. Intorno a me c’erano altri giornalisti della Berlinale, quelli italiani particolarmente riconoscibili grazie al badge della stampa attaccato al collo che sfoderavano con un orgoglio da rapper. Ero a disagio come lo ero stata durante tutto il festival, dentro una tensione paranoica di cui mi vergognavo ma che non riuscivo a controllare, avevo paura di un attentato. Guardavo frenetica il cellulare per accelerare il tempo che mancava alla proiezione, non mi sentivo per nulla a casa in quel bar, avevo tirato fuori il quaderno per abbozzare un pezzo che dovevo scrivere, ma non mi piaceva la simulazione a cui mi stavo prestando: una giornalista che si beve un cocktail tra un film e l’altro in un locale del cazzo. Il cameriere era un tizio muscoloso e tatuato con l’aria da buttafuori. A pochi minuti dalla proiezione è entrato un uomo completamente estraneo alla predeterminazione antropologica di quel posto, un uomo che avrebbe potuto tenermi compagnia nella mia nottata dei vent’anni a bere Steinhäger. Era nervoso, un’agitazione tossica e maldestra, ha cominciato a urlare e dimenarsi nel locale. Il cameriere, in realtà molto più gentile di un buttafuori, ha tentato di calmarlo. Non riuscivo a capire cosa urlasse, gli altri avventori hanno cominciato ad alzarsi, l’uomo li ha minacciati di non muoversi, diceva di essere armato, anche se non mostrava armi. Ero quella più vicino all’uscita, attaccata alla porta, ed ero immobile. Ho pensato: «Cazzo, morire in questo posto di merda, perché ci sono entrata?». L’ho pensato davvero, era l’unico pensiero che riuscissi a formulare. Un senso di slealtà verso tutti i bar della mia vita. Il più alto tradimento possibile. L’uomo si è avvicinato verso di me, ha afferrato uno di quegli sgabelli alti da bar e me l’ha lanciato contro. Ho avuto l’istinto di abbassarmi, lo sgabello è andato a infrangersi contro il vetro alle mie spalle. Ed è stato allora che si sono sentite le sirene, e hanno fatto irruzione poliziotti in assetto antisommossa per placcarlo. Erano tantissimi, una reazione smisurata contro un uomo solo. Non so chi l’avesse chiamati, non avevo visto nessuno afferrare il telefono, ma evidentemente non ero l’unica a vivere il fondamentalismo inverso di una paura da attentato. Sono scappata via, guardando la scena dall’altro lato della strada, attraverso i vetri. Il giorno dopo sono tornata in quel bar per sapere che fine avesse fatto l’uomo, il vetro infranto era già stato riparato, la gente ordinava da bere. Al posto del cameriere muscoloso, c’era una ragazza. Non sapeva nulla di quella storia, aveva solo saldato il conto del vetraio qualche ora prima. Ancora adesso ripenso a quell’uomo come un emissario del mio disagio: «Che ci facevi là dentro?». Ritorno a quella scena e cerco di mettere a fuoco le intenzioni a supporto della mia teoria. Mi aveva guardato negli occhi prima di scagliare lo sgabello? Voleva davvero colpirmi o mi ha dato tutto il tempo di abbassarmi? Perché aveva scelto me? Cosa aveva riconosciuto? E ogni volta che sento che non dovrei essere dove sono, aspetto l’urto di una sgabellata che mi venga a svegliare.