Attualità

Lo scrittore francese veste finto Prada

La responsabilità dello stile riguarda solo il testo o anche l'apparenza? Il J'accuse di uno scrittore messo in crisi dalle pose.

di Francesco Pacifico

Il sogno di essere scrittore è durato un decennio pieno. Per dieci anni, di fronte a ogni evento della vita, ho pensato però sono uno scrittore. Era la versione Wikipedia-compatibile di sono sensibile, scopami.

La sera d’aprile in cui seppi che avrei pubblicato il primo romanzo, chiamai una ventina di amici e gli offrii da bere. Fuori dal pub passava una ex compagna di scuola, che avevo baciato una volta durante una mia festa di compleanno. Quando seppe che mi pubblicavano mi guardò con tenerezza, quasi con pietà: «Che bella notizia… Ci tenevi tanto…». Su quella pena si costruisce la forza instabile e la spocchia di un giovane scrittore, e la mia è durata dieci anni e poi è finita: da un giorno all’altro ho smesso di sentirmi bene al pensiero di essere scrittore, e l’attività creativa è ridiventata un fatto completamente privato, quasi una questione tra me, il mio computer e mia moglie: oggi sono ispirato e ti rendo la vita meravigliosa mostrandoti la bellezza delle piccole cose e merlettandoti metafore intanto che fai la doccia; oggi invece sono frustrato e fuori di testa e ti mando a dormire in terrazza.

L’unico modo di raccontare questo cambiamento è dire che un giorno mi sono accorto che gli scrittori si vestono male. Non male secondo i benpensanti: male secondo chi ama le cose belle, secondo chi ama l’arte. Perché accettiamo di essere artisti e vestirci senza gusto? Forse solo perché siamo in realtà un incrocio fra rappresentanti di scope e indaffarati assistenti universitari: il nostro gioco non è la follia e il gusto dell’arte ma l’attenta gestione di categorie intellettuali sulla pubblica piazza, per continuare a essere pubblicati e ascoltati. Fare lo scrittore letterario e intellettuale, in quest’epoca, in questo continente, scrivere romanzi sulla crisi e articoli pensosi e status graffianti, ha più a che fare con l’oculata amministrazione della propria immagine messianica (una tendenza narcisistica del tutto riscattata dal pensiero di stare aiutando le persone con il nostro lavoro) che con ciò che al liceo ci portò in primo luogo a scrivere: spaventare la gente, emozionarla, facendo i conti con i nostri demoni, per lo più legati alle nostre madri, amate e odiate. Forse non è successo di punto in bianco come credo, ma se devo decidere quale scena mi ricorderà per sempre che essere scrittori, per me, non è più una virtù, scelgo una cosa che mi è capitata all’inizio di luglio.

Sono a Parigi per un matrimonio di amici. Sono il testimone della sposa e l’occasione è molto intima. I due, una francese e un americano, si sono trasferiti in Francia dall’America da tre anni e trovano così faticosi i parigini che in tutto questo tempo non sono riusciti a crearsi una vita sociale, quindi hanno deciso che si sposeranno con un passaggio svelto e sudato in circoscrizione e poi un picnic ai Jardin de Luxembourg, nel riscontro d’aria minimo di due file di alberi su una delle lunghe aiuole calpestabili sul lato sud. Poi la sera andremo in un posto all’aperto, stile Biergarten: preparandoci ad andare, lo sposo mi dice che sarà presente alla serata uno scrittore, tale Bruno (nome di fantasia), che è un tipo buffissimo perché si sente un dio in terra, dice a tutti che lui è il nuovo Camus, che lui è il futuro della letteratura francese. Qui reagisco pensando a quel povero ragazzo anche lui esaltato come me, a cui dev’essere stato detto anni fa: «Ci tenevi tanto…». Aggiunge di passaggio che il ragazzo ha vinto un importante premio, ancorché nella sezione giovani.

Gli chiedo di non presentarmelo e di non dire che faccio lo scrittore. Il primo motivo è che ho i complessi verso chi vince premi, perché non ne ho mai vinto uno. Il secondo motivo è che dico sempre meno in giro che sono scrittore. E non perché io abbia un editore a pagamento e faccia meglio a tacere, ma per la ragione che, quando io chiedo a qualcuno che mestiere fa, non gli chiedo se ha successo e mi rifiuto di passare le mie serate a chiedermi tra me e me se io non sia una persona sfortunata perché il mio interlocutore non mi ha mai letto: di solito quando si parla di lavori non legati alla fama o alla gloria, ci si accontenta di sapere dov’è l’ufficio, com’è il lavoro, se prevede delle trasferte, se l’ambiente è buono, se è stimolante; invece, quando qualcuno ti chiede del tuo mestiere di scrittore, non è interessato a sapere se scrivi al bar o nella vasca da bagno, cosa stai leggendo, come prendi appunti, chi è la tua musa, cos’hai scritto quel giorno: vuole soltanto sapere chi ti pubblica e quante persone ti hanno letto. «Pare brutto se non ti conosco?». La cosa ti fa sentire sfigato sempre, persino quando sei contento del tuo lavoro o di come viene accolto, anche se poi è vero che si riesce quasi sempre ad andare a letto con qualcuno quando si gioca la carta sono un poeta sono uno scrittore (va detto per correttezza. E a pensarci bene, la sfiga e il sesso, negli scrittori, rimangono separati come olio e acqua in un bicchiere, e la combinazione di sfiga e sesso si chiama megalomania). Il succo della questione per me è che se siamo diventati poeti perché eravamo meno terra terra dei compagni di scuola che sono andati a lavorare nelle società di consulenza, poi è quantomeno strano che siamo noi quelli valutati solamente in base al successo. E il mito romantico dello scrittore fallito, cui dedicai i miei vent’anni mentre mio padre mi levava il saluto perché mi avevano bocciato tre volte all’esame di Storia contemporanea?

Passo la mia serata al Biergarten dimenticando completamente il discorso del mio amico su Bruno lo scrittore megalomane. Schivo per tutta la sera le domande che le parigine intervenute alla festa pongono sul mio lavoro. (I parigini sembrano fissati col lavoro: in circoscrizione, per dire, il rappresentante del sindaco ha letto i nomi degli sposi, dei genitori e dei testimoni, e di tutti ha detto anche la professione.) Io in alcuni casi a queste parigine ho mentito, in altri ho detto che mi deprimo quando parlo di lavoro. A fine serata, quando vedo in una busta di carta un libro, e sento che lo sposo sta spiegando alla sposa che gliel’ha regalato Bruno, è il suo nuovo, è appena uscito, mi ricordo che c’è da fare i conti con lo scrittore francese megalomane.

Dancing The Night Away

Ora, per descrivere questo libro dovrò inventare un altro titolo e un altro tema, fare un po’ di finzione, ma prometto di inventare qualcosa di meno divertente della realtà. Prima di descrivere il libro, però, devo descrivere lo scrittore: Bruno porta una camicia antracite e scarpe nere finto Prada anni zero. Ha i capelli mossi, neri, mi paiono impomatati, ed è tutta la sera che tiene le sopracciglia un po’ inarcate e le labbra contratte in un’eterna aria di seduzione ironica. Ma le scarpe: quelle scarpe da ginnastica nere un po’ da prete un po’ da controllore del treno, ma con la pretesa di eleganza, di classe metropolitana. E la camicia antracite che urla “Le donne in un’altra dimensione trovano virili le camicie antracite, l’ho scoperto a una presentazione in provincia”.

Ora passiamo al libro. Era un libro letterario: lo strillone al centro della sovraccoperta faceva capire che si parlava, con toni quasi da thriller filosofico, di un grande intellettuale del Novecento. Guardando meglio, con aria colpevole, il libro nella busta di carta, ho capito che Bruno era famoso, conoscevo benissimo il suo cognome. Il suo libro precedente era andato molto bene sia in Italia che in America. Era considerato uno dei libri letterari cool, da avere lì sullo scaffale (infatti ce l’ho). Il tema di quel libro era un tema storico a cui non si può dire di no: dava al libro istantanea credibilità. Facciamo un esempio italiano e diciamo che era un libro sulla Resistenza. O diciamo che era un libro sui Desaparecidos. Era uno di quei temi a cui non si può dire di no anche se il suo autore ha una camicia antracite e delle scarpe finto Prada. Quindi lo scrittore aveva scritto un libro su un tema a cui non si può dire di no, e poi un libro su un grande del Novecento. Un effetto del genere me lo fece anni fa Jonathan Safran Foer, che scrisse un primo romanzo sull’Olocausto e un secondo sulle Torri Gemelle, tanto per stare sicuri di essere sempre sostenuti dal tema.

Verso le due di notte, lo scrittore si è messo a vantarsi della battaglia che aveva fatto con l’editore perché la sovraccoperta, invece della propria foto, come usa in Francia, presentasse la foto dell’intellettuale protagonista del libro. Si vantava del proprio eroismo e della propria assenza di ego citando una frase dell’intellettuale protagonista del libro che confermava la sua idea che sarebbe stato quantomeno ridicolo mettere la foto dell’autore sulla sovraccoperta al posto di quella del protagonista. Purtroppo, la sposa, in un meraviglioso abito blu Klein, era ubriaca, e si è scordata che non volevo parlare con lo scrittore, di cui ero invidioso. Quindi ha cominciato a parlargli di un mio romanzo, pubblicato in uno dei Paesi dell’Occidente dallo stesso editore dello scrittore francese, che ha cominciato a chiedermi del romanzo mentre io guardavo per terra e non rispondevo. Lo scrittore era gentile, non ho niente da ridire, ed è fin troppo meschino parlarne in questi termini, ma è stata un’esperienza forte per me.

Nella mia storia personale, non c’è stato cantante, regista o artista di cui rifiutassi con violenza l’aspetto mentre ammiravo l’opera. Per aspetto non intendo i lineamenti, ma quella manifestazione dell’anima che si trova nel modo in cui una persona si porge, si veste, tiene la schiena. Gente diversissima che ha influenzato la mia vita, dalla magrezza cattolica di Rohmer ai maglioni felici di Kubrick, dai golf di alpaca di Kurt Cobain alle giacche di Bob Dylan, dalla maglietta bianca di Lou Reed alle girocollo di Warhol e ai cappellini da baseball di Steve Reich: ogni scoperta artistica portava a un amore per il gusto a volte pronunciato a volte discreto con cui i grandi artisti si presentavano al mondo. Che l’autore di un libro da avere fosse vestito così, avesse quell’aria mesta e pretenziosa, mi ha dato un colpo tremendo. Forse, salvo poche eccezioni (che si manifestano nei jeans e maglietta di Truman Capote, nel pomo d’adamo con la camicia di Geoff Dyer, per dirne un paio che mi fanno sesso), la letteratura non è arte? Forse la letteratura è solo una truffa per vendere IDEE e non contiene nulla di sublime? E la responsabilità dello stile?

Non sono domande retoriche da pezzo “brillante”, sono vere domande che ho ripreso a farmi con violenza dopo quell’incontro con le scarpe finto Prada. Uno degli scrittori sulla carta più carismatici del nostro tempo, Carrère, ancora un francese, è raccontato dalle donne dell’ambiente come uno scatenato ballerino troppo attento alle donne, ma la prima volta che lo vidi a una presentazione aveva una maglietta con collo a V e una giacca che la mia memoria ha trasformato in antracite ma era più probabilmente, e senza troppa differenza, color verde petrolio. Lo scrittore che invece sta imponendo il suo stile al punto che in certi paesi mettono la sua faccia in copertina della sua serie di memoir, Knausgaard, sembra una specie di Raz Degan per proustiani, e non semplicemente un modello estetico. Lo dico quindi per contradddirmi: io stesso preferisco decisamente il francese viscido al norvegese sorco. Il disagio che provo nello scrivere dell’aspetto degli scrittori mi dà il brivido di essermi spinto in un territorio che istintivamente mi affretto a definire frivolo. Una parte di me mi dice che lo scrittore non è un artista ma è un prete, il cui lavoro è la salvezza delle anime. L’altra però continua a dire che lo scrittore, come gli altri artisti, è una bestia vorace che consuma immagini e vite umane per la ricerca di un ideale estetico, e che bisogna lasciarglielo fare. Non è molto, come conclusione, ma la storia di tanti scrittori non soddisfatti del proprio ruolo di educatori è la storia di una lacerazione interna fra il prete e la bestia.

 

Nell’immagine in evidenza, Hemingway e altri allo Stork Club di NY, circa 1950 (Hulton Archive/Getty Images). Nel testo, Truman Capote a un party con Catherin Graham, publisher del Washington Post, e Lauren Bacall, nel 1966 (Express Newspapers/Getty Images)