Attualità

Il sapore del cibo automatico

Vivere e mangiare a San Francisco, il regno dei techies della Silicon Valley, con gli affitti impazziti e il digitale che invade le cucine.

di Silvia Pareschi

Da quando vivo a San Francisco, i techies sono diventati il mio nemico numero uno. I techies sono giovani automi che lavorano per i leviatani della tecnocrazia e guadagnano stipendi sproporzionati a quelli della gente in carne e ossa; i techies viaggiano sui lussuosi pullman privati con il wifi e i finestrini oscurati che rubano le fermate agli autobus puzzolenti e ritardatari del trasporto pubblico; i techies si accaparrano tutte le case, offrendo il doppio in più del prezzo di partenza, pagando milioni in contanti e provocando la follia immobiliare che ha sfrattato un sacco di gente in carne e ossa e trasformato la città in un dormitorio per ventenni danarosi (quanto agli affitti, le ultime notizie parlano di $6800 al mese per un bilocale nel Mission District, l’ex quartiere ispanico-working class; ma i prezzi continuano a salire); i techies per un po’ sono diventati anche glassholes (neologismo per indicare gli stronzi – assholes – che indossavano Google Glass), universalmente odiati e scacciati in malo modo dai locali pubblici, finché per fortuna, anche se solo temporaneamente, la distribuzione dell’infernale aggeggio rovinavista è stata sospesa. Alcuni techies sono anche miei amici, ma non importa, il mio affetto per loro non diminuisce il mio odio per la categoria.

Fully Automated Fast Food Restaurant Opens In San Francisco

Mi piacerebbe tanto scrivere un articolo cattivo su qualche leviatano della Silicon Valley, ce n’è uno che mi sta particolarmente antipatico e ci godrei da matti a infiltrarmi per indagare su alcune cosucce che ho saputo, tipo le impronte dei piedi disegnate sul pavimento tra l’ufficio e il bagno, per far sì che l’impiegata, se proprio non può fare a meno di pisciare, possa almeno raggiungere il gabinetto seguendo il percorso più efficiente. O come l’assoluto divieto per gli impiegati di basso livello di rivolgere la parola ai preziosi ingegneri, anche se dovessero trovarsi fianco a fianco con loro mentre degustano un frozen yogurt al tè verde nell’avveniristica cafeteria. Purtroppo però devo accontentarmi di brandelli di storie come queste, soffiate anonime e inaffidabili, perché se volessi farmi assumere per poi pubblicare un libro-denuncia dovrei a mia volta assumere il più bravo avvocato degli Stati Uniti, e probabilmente neanche così potrei sottrarmi alla furia del leviatano per aver infranto il suo inflessibile accordo di non divulgazione.

E allora, frustrata nel mio odio che posso incoerentemente sfogare solo attraverso quei social media che in realtà sono le lucrose creature e le armi più efficaci del mio nemico, ho salutato con interesse l’apertura di un locale dove anch’io, l’ultima luddista di San Francisco, posso infiltrarmi e osservare le creature aliene che mi circondano. Si tratta di Eatsa, il nuovo fast food «completamente automatizzato» che ha da poco aperto i battenti nel quartiere SoMa (che sta per South of Market, ma è anche un nome perfetto per questo Mondo Nuovo). I suoi fondatori, Tim Young e Scott Drummond, sono alla prima esperienza nel mondo della ristorazione. Young, dopo aver guadagnato alcuni miliardi vendendo alla Hewlett-Packard la sua precedente creatura, Autonomy, è oggi tra i fondatori di Eniac Ventures, una società che prende il nome dal primo computer elettronico completamente digitale e che opera nella fondata convinzione che «il più grande catalizzatore tecnologico del nostro tempo sia la proliferazione di dispositivi collegati a internet che forniscono costante connettività alla maggioranza della popolazione mondiale»; Drummond invece viene dal settore del branding, e nelle interviste dice cose un po’ ovvie tipo: «Abbiamo usato la tecnologia per rendere più efficiente l’intera operazione». Malgrado abbiano dichiarato di voler usare la tecnologia anche «per reinventare il fast food», Young e Drummond non sono i primi a voler rendere più efficiente l’intera operazione. Il primo Automat degli Stati Uniti, un fast food in cui cibo e bevande venivano serviti da distributori automatici, aprì a Philadelphia nel 1902; dieci anni dopo arrivò a New York, da dove si diffuse nelle città industriali del Nord.

Gli Automat originali funzionavano a nickel, le monetine da cinque centesimi; il cliente inseriva il numero richiesto di monetine, selezionava la pietanza e poi sollevava una delle finestrelle di cui era tappezzata la parete ed estraeva il suo piatto avvolto nella carta oleata. Dietro le finestrelle c’era la cucina dove venivano preparate le pietanze, che rimaneva invisibile ai clienti. L’Automat entrò ben presto a far parte della mitologia di New York: amato da artisti e scrittori, venne definito da Neil Simon «il Maxim’s dei poveracci». Nel 1977 Andy Warhol progettò una sua versione, l’Andy-Mat, ossia «il ristorante per persone sole», dove, spiegava Warhol: «Prendi il cibo, ti porti il vassoio in un séparé e guardi la tv». I clienti avrebbero ordinato direttamente, senza l’intermediazione di camerieri, parlando attraverso una specie di telefono collegato a ciascun tavolo; il cibo, preparato fuori dal ristorante e surgelato, doveva essere solo consegnato e riscaldato. Il progetto, malgrado avesse già un investimento iniziale, non andò mai in porto. La fine degli Automat, invece, arrivò qualche tempo dopo, provocata soprattutto dall’inflazione che, rendendo impossibile pagare un pasto con qualche monetina, favorì la diffusione dei fast food dotati di personale umano. L’ultimo Automat di New York chiuse nel 1991. Nel 2006 ci fu un tentativo di revival, ma Bamn!, il nuovo Automat dell’East Village, durò solo due anni e mezzo.

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Pur sapendo che nessuno mi degnerà di uno sguardo, in un impeto di sfida un po’ sciocchino, esco per andare da Eatsa vestita e accessoriata nel modo più incongruo possibile. Mi rendo conto di non avere speranze: se provassi a infiltrarmi nel leviatano mi sgamerebbero subito. Tuttavia non resisto a mettermi la maglietta con la frase All work and no play makes Jack a dull boy scritta tante volte a macchina come in The Shining, né a infilarmi nella borsa il mio kindle di prima generazione su cui ho scaricato il pamphlet di Bruce Sterling The Internet of Things, un’invettiva contro molte cose dell’epoca techie e in particolare contro i “Big Five”, ovvero Facebook, Amazon, Google, Microsoft e Apple. Non so bene cosa pensare del fatto che leggerò questa invettiva su un kindle dopo averla comprata su Amazon.

Prima di uscire controllo di poter effettivamente usufruire dell’efficienza di Eatsa: sì, gli ordini – pagabili esclusivamente con carta di credito, niente contanti – si possono effettuare non solo tramite smartphone, ma anche tramite appositi iPad forniti dalla casa. Ed è una bella fortuna, perché anche se qualcuno potrebbe pensare che il mio luddismo sia una mera imitazione del presunto luddismo di un famoso scrittore americano che traduco, in realtà posso dire di avere battuto il famoso scrittore sul suo stesso terreno, visto che qui negli Stati Uniti non possiedo un cellulare (in Italia uso un Nokia del 2001. Batteria originale, dura 4-5 giorni).

Eatsa sorge strategicamente di fronte alla sede di Salesforce, la società di cloud computing fondata da Marc Benioff. Davanti all’ingresso c’è una lunga fila, che però procede con efficiente rapidità. Mentre mi avvicino all’ingresso mi guardo intorno e non ho nessuna sorpresa: i miei compagni di fila sono tutti impiegati in pausa pranzo, tutti con lo sguardo incollato allo smartphone. Io, appena uscita dalla macchina del tempo, ho un taccuino in mano e prendo appunti. All’interno vado direttamente verso la fila di iPad e comincio ad armeggiare con il menu. Se l’Automat originale offriva sostanziosi piatti di macaroni and cheese, fagioli stufati, pollo in crosta, manzo in salsa di vino rosso con contorno di spaghetti, e il suo nipotino Bamn! era specializzato in roba fritta tipo crocchette di pollo e bastoncini di mozzarella, Eatsa incarna ancora meglio lo spirito del luogo e dei tempi: il suo menu è strettamente vegetariano e strettamente basato su un unico ingrediente: la quinoa.

L’onnipresenza della quinoa nel menu di Eatsa è il contributo del principale investitore dell’impresa, l’astrofisico David Friedberg, fondatore e amministratore delegato di The Climate Corporation, la quale, come si legge sul sito, grazie alla sua «straordinaria piattaforma tecnologica», «si propone di assistere gli agricoltori di tutto il mondo nel proteggere e migliorare la loro produttività, aiutandoli a prendere decisioni migliori, a metterle in pratica e ad assicurarsi contro i rischi al di fuori dal loro controllo». Nel 2013 The Climate Corporation è stata acquisita dalla Monsanto per circa un miliardo di dollari. Friedberg, vegetariano da sempre, è un appassionato propugnatore della quinoa, che ha descritto in un’intervista al New York Times come «un modo per fornire proteine all’organismo molto più efficiente dell’assunzione di proteine animali». La grande diffusione della quinoa nei Paesi ricchi ha suscitato qualche polemica, perché ne ha fatto aumentare il prezzo nei paesi produttori poveri come il Perù e la Bolivia. Ma in un’altra intervista, questa volta alla Cnn, Young ha dichiarato che la quinoa di Eatsa arriva da un distributore boliviano che lavora con piccole cooperative di produttori. «Vogliamo portare la quinoa alle masse», ha aggiunto.

Nella lista ci sono otto piatti, quattro caldi e quattro freddi, con un mix di ingredienti opportunamente etnico (dal Burrito Bowl al No Worry Curry, da The Mediterranean al Bento Bowl), con l’indicazione delle calorie, delle proteine e di tutti i possibili allergeni. Il menu è stato deciso, nei mesi precedenti all’apertura del locale, tramite una serie di «test di scienza sensoriale», cioè in pratica assaggi; dopo due anni passati a raccogliere e analizzare dati sulle preferenze dei consumatori, la scienza sensoriale ha permesso di dare alla quinoa un sapore “sano” (grassi, sodio e zucchero in quantità moderate) ma gustoso. Niente bio o chilometro zero, però, perché il prezzo deve rimanere accessibile: $6.95, più tasse, per tutti i piatti.

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Il menu interattivo offre anche un modo per personalizzare le pietanze, e mentre cerco di capire come funziona vengo prontamente raggiunta da una dei pochi impiegati umani visibili del locale: un’assistente per gli idioti tecnologici che mi si accosta e mi offre il suo aiuto, che io rifiuto in malo modo. A quel punto, un po’ innervosita, clicco sul primo tasto che trovo e aggiungo alla mia quinoa mediterranea un contorno di guacamole e chips che non volevo. Non riesco a trovare le bevande, ma non fa niente, sempre più nervosa lascio perdere, mi rassegno e schiaccio Pay. Ora mi unisco a un gruppo di gente che osserva uno schermo e gli scatta tante fotografie. Dopo aver ordinato da mangiare, i clienti di Eatsa si mettono in attesa davanti a un pannello luminoso su cui si accende il loro nome quando la pietanza è pronta. Nel frattempo sullo schermo soprastante scorrono immagini di campi fioriti e verdure succulente, accompagnate da allegri giochi di parole tipo Sustainabowl!.

Dopo pochi minuti vedo accendersi la scritta Silvia P., insieme al numero della mia finestrella. C’è tutta una parete di queste finestrelle, riquadri illuminati da una luce azzurrina che mi ricordano tanto lo sterilizzatore per spazzole che usava mia zia parrucchiera negli anni Ottanta. Ma su questa finestrella c’è uno schermo a cristalli liquidi trasparente che diventa nero quando il piatto viene depositato dal retro (perché non è vero che Eatsa è «completamente automatizzato»: dietro le finestrelle c’è una cucina o qualcosa del genere – il signor Friedberg non ha voluto descriverne il funzionamento al Nyt – dove i piatti vengono preparati da gente in carne e ossa), in modo da nascondere qualunque traccia di coinvolgimento umano. Poi lo schermo mi dice di battere due volte il dito sulla finestrella. Ora la scena mi ricorda decisamente più Odissea nello spazio che lo sterilizzatore di mia zia: la finestrella si solleva silenziosa e mi offre un contenitore riciclabile con sopra scritto Silvia P. e con dentro la mia quinoa mediterranea con guacamole. Buona, devo dire.

La vera questione sollevata da Eatsa, al di là del warholiano ristorante per persone sole, è quella annosa degli effetti dell’automazione sui livelli occupazionali della società. Friedberg, naturalmente, è ottimista, e spiega al Nyt che se l’aumento di produttività porterà a una riduzione dei prezzi, i consumatori avranno più soldi da spendere per far girare l’economia. Eatsa potrebbe persino creare nuovi posti di lavoro, nella produzione di macchine automatizzate o di sistemi di software, oppure, come suggerisce la reporter del Nyt, nella coltivazione della quinoa.

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A quanto pare l’intera industria della ristorazione veloce si sta dirigendo verso un futuro più robotico, con McDonald’s, per esempio, che sta sperimentando l’uso di touch screen per sostituire i cassieri. Tutti si affrettano a garantire che non taglieranno posti di lavoro, ma è difficile credere che nessuno abbia pensato di usare l’automazione in risposta alle richieste degli impiegati di fast food di avere il salario minimo aumentato a $15 all’ora. E Scott Drummond ha dichiarato in un’intervista a FastCompany che questo è solo l’inizio (perché naturalmente, trattandosi di una società della Bay Area, lo scopo ultimo è sempre quello di cambiare il mondo, possibilmente rendendolo un posto migliore. Friedberg auspica che i futuri Eatsa vengano costruiti dentro container e calati nei quartieri privi di accesso al cibo sano): un giorno l’intero personale del ristorante sarà costituito da automi, ma per adesso Eatsa ha ancora bisogno di bravi chef, che «non possono aver paura della tecnologia. Il nostro primo direttore era uno specialista di robotica militare». Lo scopo di Eatsa non è tanto soddisfare le tendenze antisociali dei programmatori della Bay Area, quanto usare la scienza dei dati per rendere efficiente l’esperienza della ristorazione. E finché la totale rimozione degli umani non sarà compiuta, la gestione della cucina è stata rigorosamente organizzata in modo da eliminare ogni inefficienza. A questo punto non mi resta che scoprire se anche loro hanno disegnato per terra il percorso più veloce per andare dalla cucina al bagno.

 

Foto di Justin Sullivan per Getty Images.