Attualità

I libri del mese

Cosa hanno letto a giugno amici e collaboratori di Studio.

di Redazione

Hanya Yanagihara – A Little Life (Doubleday)

118260A Little Life di Hanya Yanagihara racconta, in seicento pagine, trent’anni di vita di quattro compagni di college che diventano, rispettivamente, un pittore di successo, un architetto di successo, un attore di successo, un avvocato di successo. Messa così sembra un po’ Sex and the City, e invece nulla di più lontano, perché dopo un inizio corale la storia (ambientata in una straniante New York a-storica e patinata) si concentra su Jude – l’avvocato – e sulla sua esistenza segnata da una serie di violenze infantili, che gli hanno causato problemi fisici e traumi psicologici insuperabili; né la ricchezza, né la realizzazione professionale, né l’affetto degli amici, di un nuovo padre, di un partner innamorato riescono mai davvero a guarirlo: a ogni luminosa riemersione segue una ricaduta. Perché si va avanti a leggere fino in fondo questa storia dolorosissima e spiazzante? Per morboso voyeurismo letterario? O perché ha un’umanità talmente profonda che non riusciamo a distaccarcene? Raccontare la sofferenza è il più facile dei trucchi o la più ardua delle sfide? Io so solo che di rado negli ultimi tempi la lettura di un romanzo è stata per me un’esperienza così intensa e inquietante. Congratulazioni all’editore che ne ha acquisito i diritti (Sellerio) e in bocca al lupo a chi dovrà tradurlo.

(Martina Testa)

 

Annie Ernaux – Gli anni (L’orma editore)

A. ERNAUX, Gli anni, L'OrmaNon sapevo niente della Ernaux, anche perché sono molto ignorante riguardo alla letteratura francese (e a tantissime altre cose, francesi e non). L’ho visto balenare qua e là, sui giornali, anche se non leggo quasi mai le recensioni per intero, eppure sentivo, in base a certi segnali e con l’egotismo tipico del lettore narcisista, che questo libro mi chiamava. Anche qualche pagina su Twitter mi ha colpito. Si lamentano in tanti dei troppi libri fotografati e chissà se letti sui social network, ma spesso una pagina postata e letta per caso sul tram o sul cesso o mentre si cammina ci spinge verso un libro più di un pezzone argomentato. Io non la trovo una posa: la pagina è importante. Insomma ci giravo intorno, poi per caso sono passato a trovare un amico libraio e il libro era lì in cassa e l’ho preso. Ho comprato un libro, non è così pazzesco. Quindi l’ho tenuto lì per un po’, entrandoci di tanto in tanto, mentre leggevo altre cose. In certe lunghe serate estive, dopo qualche bicchiere di troppo, ammetto di essermi lasciato andare a questo vizio. E la corrente era sempre quella giusta, anche perché è un libro tutto scritto all’imperfetto, che poi è il tempo del sogno. È, come si sa, un memoriale, un flusso di ricordi collettivi e personali, di istantanee sociali e fotografiche, che corre per il Novecento senza una storia vera e propria che non sia quella be’ della gente (e quante scene, quanti gesti, restano di più di quelli di un romanzo), un flusso a cui mi sono abbandonato ogni volta senza difese. Mi ha ricordato assurdamente un vecchio racconto di Stephen King dal titolo I langolieri, dove per un varco spaziotemporale alcuni personaggi arrivano a percepire prima l’ombra della morte e poi l’onda della nascita. Forse perché la vita è un coro filtrato dalla nostra coscienza, che è proprio quel varco spaziotemporale. Tempo, memoria, illusione della vita, illusione della scrittura: non se ne esce. A pagina 156: «Le sembra che dietro di lei ci sia un libro che si scrive da solo, semplicemente vivendo, ma non c’è niente». Bello.

(Marco Rossari)

 

Richard Powers – Orfeo (Mondadori)

www.mondadoristoreSono tutti belli i libri di Richard Powers. I personaggi si consacrano a passioni minuscole e contorte che li portano a trascurare tutto il resto, di solito mogli, mariti, genitori o figli. L’ultimo romanzo si intitola Orfeo e come avveniva in Il tempo di una canzone, il gorgo da cui è risucchiato il protagonista è la musica: «Il clarinetto è l’unica cosa che Peter Els porterebbe sulla luna».Quando il libro si apre, il suo più grande problema è cosa suonare per il funerale del cane. È l’America post 11 settembre e le sue strampalate ricerche musicali, legate a chimica e genetica, fanno sì che la polizia circondi la sua casa col nastro giallo. Le pagine migliori sono quelle sentimentali, gli amori di Peter, i rimpianti delle occasioni perdute, le descrizioni dei cieli color pesca, i ricordi degli anni Sessanta. Mentre cerca i suoni del mondo, la musica del futuro, il tempo trascorre così: «Els andò nel New Hampshire per fuggire da New York. Ci rimase dieci anni. In seguito avrebbe potuto sciorinare tutto quello che aveva fatto in quel decennio in poco meno di cinque minuti, senza trascurare niente di importante».

(Francesco Longo)

 

Milo De Angelis – Incontri e agguati (Mondadori)

41y0iWjhZVL._SY344_BO1,204,203,200_Se dovessi scegliere una parola come simbolo di Incontri e agguati, il nuovo libro di poesie di Milo De Angelis, sceglierei: vita. Se me ne chiedessero un’altra, forse, direi: memoria. La prima, soprattutto, potrebbe sembrare una scelta strana, parliamo di un libro che comincia così: «Questa morte è un’officina / ci lavoro da anni e anni», e tutta la prima parte della raccolta (il libro è diviso in tre blocchi) ha come tema la morte, eppure la vita è un’ipotesi plausibile. L’esame della morte, il suo conteggio, l’analisi e poi il racconto, non sono altro che una prova di resistenza, e resiste chi vuole la vita. Vita che passa anche dai ricordi e dagli incontri, da piccoli bagliori; che scorre attraverso i dolori. La memoria è un tessuto e queste bellissime  poesie ne sono la trama. Ed è vita fino alla fine, anche nella terza parte, quella dell’esperienza del carcere (De Angelis insegna in un carcere di massima sicurezza), «in questo luogo consacrato al rimpianto», continua l’indagine del poeta milanese e dove c’è così poca speranza qualcosa di indefinito pulsa e rimbalza di domanda in domanda.

(Gianni Montieri)

 

Etgar Keret – Sette anni di felicità (Feltrinelli)

Sette anni di felicità di Etgar KeretHo comprato Sette anni di felicità perché sono vent’anni che amo le storielle di Etgar Keret, che parlano di assurdità come maialini-salvadanaio col mal di pancia e morti suicidi che ciondolano in paradisi tristi, così quando ho sentito che aveva pubblicato un memoir mi sono chiesta: come fa uno così a scrivere qualcosa di vero? Il libro ripercorre, come suggerisce il titolo, sette anni della vita dello scrittore israeliano: dalla nascita del figlio alla morte del padre. È una raccolta di racconti brevissimi e autobiografici che hanno lo stesso senso dell’assurdo di tutte le altre sue storie. Ogni minuzia diventa una tragedia, ogni tragedia un dettaglio. Il neonato per cui «esistono due possibilità: un seno o l’inferno», la linea che separa l’uccidere un insetto dall’uccidere una rana: c’è molto di vero e poco di verosimile in Sette anni di Felicità. Credo sia quello che chiamano “realismo soggettivo” e che a questo proposito l’autore sia più smaliziato di quanto non vorrebbe lasciare intendere. Non è la realtà che ci offre Keret, è la realtà mediata dalla sua fervida fantasia. Come quando ricorda alla moglie di una meravigliosa dichiarazione d’amore avvenuta soltanto nei suoi ricordi: «La nostra vita è una cosa, poi tu la reinventi fino a farla diventare un’altra cosa, più interessante», risponde lei. «È questo che fanno gli scrittori, giusto?».

(Anna Momigliano)

 

Tatti Sanguineti – Il cervello di Alberto Sordi. Rodolfo Sonego e il suo cinema (Adelphi)

cover-sanguinetiGli scrittori hanno i Meridiani, i registi i cofanetti, gli sceneggiatori quasi niente. Per uno come Rodolfo Sonego ci voleva almeno un Adelphi, ma di quelli monumentali che visti da lontano fanno paura come Vita e Destino di Grossman. Va da sé che il titolo mente sapendo di mentire. Questo non è un libro su Sordi. In fondo, non è neanche un libro su Sonego. È uno zibaldone sgangherato e formidabile che attraversa, senza passare dalla mitologia resistenzial-neorealista, quell’irripetibile stagione in cui i film italiani sembravano commissionati dalla volontà collettiva degli spettatori. Quando il nostro cinema funzionava come un’industria, anche se un’industria non lo è mai stato. Quando parlava di noi in un modo che i romanzi non avevano mai fatto né sapevano fare, anche se a scuola non si può dire. «Tutti i romanzi iniziavano con “Buongiorno”, ella disse»,  dice Sonego, «se avessimo fatto al cinema quella roba lì, non saremmo durati tre mesi». Gli rinfacciavano di riempire le sue sceneggiature di battute, spunti e situazioni  prese da Rizzoli, De Laurentiis o Ponti. Lui si difendeva dicendo che i produttori erano le persone che aveva frequentato di più. «Posso raccontarli meglio di un’altra categoria sociale, io conosco i produttori meglio dei metalmeccanici». Lo sceneggiatore d’interesse culturale alle prese coi migranti, l’Ilva e la terra dei fuochi è pregato di prendere appunti.

(Andrea Minuz)

 

Jim Shepard – The Book of Aron (Knopf)

unnamed-2Il Washington Post ha definito The Book of Aron «un capolavoro», e tenderei a dargli ragione. Jim Shepard è un maestro della short-story contemporanea che segue sempre lo stesso modus operandi: 1. trova un mondo che gli interessa, 2. legge tutto quello che trova di non-fiction sull’argomento, e 3. scrive un racconto, in prima persona, trovando una voce che abita dentro quel mondo. Quello che ha deciso di fare per The Book of Aron è prendere lo stesso modus operandi, espanderne la fase di ricerca da quindici a circa cinquanta libri (a fine romanzo ci sono sei pagine di bibliografia), e poi scriverne un romanzo. La voce che ha scelto di mettere su carta per questo suo ritorno alla narrazione lunga dopo 15 anni di racconti brevi è quella di Aron, bambino ebreo polacco che cresce a Varsavia durante la seconda guerra mondiale, piange sempre, e vive una vita totalmente, completamente orrenda inframezzata da momenti avventurosi e buffi e scemi e poi quei momenti finiscono e diventa ancora più orrenda. Entro metà romanzo, senza dirvi come o perché dato che non voglio spoilerare, finisce nel famoso orfanotrofio del ghetto del grande pedagogo Janusz Korczak, il “Karl Marx dei bambini”. The Book of Aron è struggente, tipo che ti fa male alla pancia leggerlo, ed è potentissimo e assolutamente vero, nel senso che la voce di Aron, che nel libro ha nove, dieci anni, si legge davvero come la voce vera di un bambino di nove o dieci anni: non si concede al sentimentalismo poetico, alla frase ricercata, o alla metafora “alta”, e le cose che succedono attorno ad Aron succedono davvero attorno a lui, come persona, non come personaggio. In pratica sembra un diario vero, e poi la fine del libro racconta uno degli atti di eroismo morale più potenti, tristi e inutili che io abbia mai letto, ed era sabato pomeriggio ed ero al sole e non aveva molto senso per me stare al sole mentre nel libro ero nel ghetto di Varsavia e ho pianto un po’. Lo scollamento tra dove stavo io e dove stavo nel libro mi ha lasciato stordito per almeno 10 minuti buoni. Da quando l’ho finito la parola Palestina ha cambiato significato.

(Tim Small)

 

Valeria Luiselli – Carte false (la Nuova frontiera)

La-nuova-frontiera-cop-carte-falseUna volta ho cercato di tenere un diario di viaggio, ma ho perso il quadernino e la voglia un paio di giorni dopo il mio atterraggio: era un viaggio in giro per il Messico, in solitaria, e avevo deciso la partenza, l’itinerario e i pernottamenti con gran fretta e un po’ d’incoscienza. Non che Carte false sia un diario di viaggio – non è nemmeno un romanzo – ma, con il suo libro, Valeria Luiselli è riuscita a catapultarmi in quel periodo in cui l’unico intento era di affascinarmi, perdermi davanti a ogni cosa e persona. Questo è quello che fa la Luiselli, tra New York, Venezia e proprio Città del Messico, alla ricerca della tomba di Brodskij o riflettendo sulla nostalgia e sulla parola saudade; capitoli brevi, a volte molto poetici, di una ragazza in viaggio per rimpossessarsi delle proprie origini. Leggendo Carte false si ha l’impressione di viaggiare insieme a Valeria, di accompagnarla nelle sue riflessioni e in un paese che è il suo – il Messico – ma che non conosce e in cui non torna da troppo tempo. E poi, chiuso il libro, si ha voglia di seguire il consiglio che le dà il portiere di un albergo di New York: si ha voglia di uscire di casa, viaggiare, dormire in letti diversi dal nostro. Allontanarsi e magari perdersi per conoscere un po’ di più noi stessi.

(Luca Giordano)

 

Leanne Shapton – Swimming Studies (Blue Rider Press)

13585762Rileggo Swimming Studies di Leanne Shapton, uno di quei libri che vorrei scrivere, e vorrei leggere ancora, e vorrei veder scrivere, e vorrei veder leggere. Si tratta di una mostra su carta, di un libro pensato come uno spazio da esplorare, e non solo da leggere. Il titolo è un omaggio a Life Studies di Robert Lowell, capolavoro della poesia americana del XX Secolo, ma non c’è nulla di classicamente letterario nell’esperimento di Leanne Shapton, che mette sullo stesso piano inclinato il racconto memoriale della vita acquatica dell’autrice, che in adolescenza è stata una promessa olimpica della nazionale di nuoto canadese, l’ossessione collezionistica per i costumi da bagno, fotografati uno dopo l’altro e associati a folgori di ricordi marini; e un’esplorazione visiva complessa e ramificata della natura del corpo che fende le onde, della forma delle piscine (tutte le piscine in cui si è immersa), della persistenza liquida, della pesantezza fisica. In uno dei più grandi testi sul tema, L’ombra del massaggiatore nero, di Charles Sprawson, avevo sempre sentito la tenebrosa assenza delle donne. Swimming Studies, in modo del tutto originale e diverso, rende giustizia a questa assenza.

(Gianluigi Ricuperati)