Uno dei miei primi ricordi legati ai libri, ma ai libri in quanto oggetti e non letture, è l’onnipresenza visiva di quella copertina e di quel dorso Adelphi nelle librerie delle case che frequentavo da ragazzino: casa mia, ma anche case di amici dei miei. Lo zen è l’arte della manutenzione della motocicletta è stato il libro che, nella metà degli anni Ottanta, si trovava in quelle case, gli appartamenti dei rivoluzionari diventati borghesi (ma che borghesi lo erano sempre stati), le case dei marxisti che di lì a poco avrebbero dovuto fare i conti con un mondo post-ideologico e con i tascabili Feltrinelli di Pennac e Vázquez Montalbán. Era un libro di cui si parlava molto, di cui si è parlato per anni, che si citava a cena, che si portava in vacanza a Stromboli. Un libro vendutissimo in America, ma anche in Italia – fosse solo per quel bellissimo e bizzarro titolo: cosa ci può essere di più lontano dall’idea di zen di una motocicletta? – e che, al di là dei suoi meriti letterari, ha segnato più di tanti altri un passaggio epocale, come scrive anche il Guardian, nell’obituary dedicato alla scomparsa del suo autore Robert Pirsig, avvenuta il 24 aprile in Maine, definendolo: «Una guida per la transizione culturale dai ribelli anni Sessanta alla “me generation” dei Settanta». Passaggio che in Italia viene vissuto in differita per una felice coincidenza tra i tempi storico-sociali e quelli editoriali: la prima edizione Adelphi è del 1981 e ha molto più senso che sia stato così, perché negli anni Settanta – uscì in America nel 1974 – non sarebbe stato accolto con lo stesso fervore.
Ed è vero che il libro porta con sé una sfumatura “sapienziale”, ma è anche molto di più. Dopo aver superato il trauma di averne sentito parlare troppo dagli “adulti”, l’ho letto a diciott’anni, nel corso di uno dei miei primi viaggi da solo, con la macchina e la tenda, una situazione ideale per leggere un libro il cui spunto di partenza è un viaggio con la moto e la tenda (di un padre e di un figlio piccolo, con una coppia di amici). Me ne sono innamorato per ragioni, credo, molto poco legate al suo messaggio sapienziale – la famosa “qualità” sempre citata dagli adulti – che credo all’epoca di aver colto ben poco.
Riprendendolo dopo molto tempo, cinque o sei anni fa, mi sono accorto di quanto fosse fondato quell’innamoramento sul piano letterario. Lo zen è un libro che unisce virtuosamente racconto di viaggio, memoir e saggio filosofico, rimanendo impigliato nella memoria più che per la sua parte teorica per la forza del suo racconto e per la singolarità della vicenda biografica del suo autore: un genio precoce con disturbi psichiatrici e una storia di terapie di elettroshock, finito a studiare filosofia in Oriente, ritrovatosi a scrivere manuali tecnici di funzionamento in America, appassionato di motociclette, che ci parla di un viaggio sulle strade americane con suo figlio piccolo e, appunto, della sua vita.
Dal 1981, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta ha venduto in Italia 500 mila copie e ogni anno continua a vendere circa 10 mila copie, «se si conosce il mercato dei tascabili oggi in profonda crisi», dice Codignola, «è un numero ragguardevole per un libro di quasi quarant’anni fa». Questo incrocio tra successo commerciale e la sua essenza di feticcio culturale ne fa uno dei più grossi e interessanti casi editoriali del Novecento e oltre. Chissà quanto ancora durerà la scia della sua attrazione, ma intanto possiamo leggerlo, se non lo abbiamo fatto, o rileggerlo ancora, soprattutto noi che di “me generation” qualcosa ne sappiamo.