Albinati scrive che «avere come modello Gesù non aiuta. Gesù è stato sempre il contrario di tutto». Albinati di Gesù non ama le contraddizioni: le rinunce che non sono rinunce, i funerali in cui si dice che i morti sono vivi, le malattie che sono doni, il fatto che se ti allontani da Dio lo stai cercando, il fatto che se sei povero in realtà sei ricco, etc. Questi insegnamenti che rovesciano la realtà, imparati negli anni di scuola cattolica, sono però penetrati nel suo modo di osservare la realtà. Nel restituire il contesto da cui si mossero, nel 1975, gli assassini del delitto del Circeo – evento che è il gorgo del libro – Albinati ribalta tutto. I bravi ragazzi di notte violentano minorenni, dietro la violenza c’è romanticismo: «Talvolta la violenza contro le donne è originata da questa miscela contraddittoria: brutalità e volgarità nei fatti espliciti, mentre in fondo al cuore esplode un selvaggio sentimentalismo pronto a tutto, persino a trasformare il culmine del romanticismo (“non posso vivere senza di te”) in una coltellata, o trenta»; «Fare le cose per scherzo è il modo più efficace per imparare a farle sul serio»; «si ha idea che i ragazzi siano ribelli, o almeno più ribelli degli adulti. Niente di più falso. La stragrande maggioranza dei ragazzi è superconformista»; «l’amore è la tomba del matrimonio». È così che un romanzo straordinario – uno dei migliori degli ultimi anni – stupisce sempre e pur essendo di 1300 pagine si legge come un libro di cinquanta.
Aziz Ansari ha scritto un libro perfetto e divertente su cos’è l’amore negli anni Dieci, e a volte fa ridere, a volte fa pensare a due cose principalmente. La prima: a quanto siano banali e diffusi i pensieri e le aspettative dell’essere umano medio in Occidente quando si tratta di amore; la seconda: a quanto l’amore sia una cosa rischiosa e davvero grossa e complicata quando si arriva al momento di prendere La Decisione. Modern Romance è un saggio divertente, ma con una certa accuratezza scientifica: indagini su migliaia di coniugi americani (tramite i registri comunali) della prima metà dell’Ottocento fanno emergere che nell’ottanta per cento dei casi, all’epoca, ci si sposava tra vicini di casa, di pianerottolo a volte, dirimpettai più spesso. Triste, vero? Tipo un matrimonio combinato, solo combinato non dalle famiglie ma da un ordine più volatile, come l’abitudine o la fretta o la morale. Oggi, quanto sono cambiate le cose? Se considero altri aspetti della storia umana, e a quanto si sono evoluti (Internet; la nanomedicina; SpaceX; gli smartphone; il soylent; i diritti civili), e li paragono all’amore, e a tutto quello che lo circonda e che si porta dietro, non riesco a non pensare che sia il concetto più conservatore che esista.
Louis-Ferdinand Céline – Lettere alle amiche (Adelphi) trad. Nicola Muschitiello
Trovo sempre difficilissimo orientarmi nei dibattiti sulle trasformazioni dell’italiano senza ridurli a una mesta faida territoriale fra gente che ritiene “YOLO in NoLo” una formula ben formata e gente che dice “casella di posta elettronica” e “mescidare”. Per questo ho approcciato con grande interesse “Che lingua fa?”, l’ultimo numero di Nuovi Argomenti; con grande interesse e con quella precisa forma di irritazione pregustata, di ghigno cattivo in canna, che mi verrebbe da definire senso del troll. Cercavo rogna. Con mia grande sorpresa, non l’ho trovata: “Che lingua fa?” spazia attraverso un arco molto vasto di posizioni non tanto su quale sia la soluzione al problema della lingua, ma su quale sia tale problema. Raccoglie contributi di scrittori, traduttori ed editor e di quelli che la mia polverosa memoria di laureato in lettere del ’06 identificherebbe come i massimi studiosi di lingua italiana attivi oggi. Per gli scrittori (Trevi, Lagioia, Bellocchio) è soprattutto la questione della lingua letteraria: cosa la caratterizza, cosa ne giustifica l’a tratti spiazzante alterità, cosa la insidia in un’epoca in cui la pressione dell’inglese è sempre più forte. Carmignani racconta la sua esperienza di grande traduttrice, smontando il luogo comune secondo cui sia il “traduttese” a determinare le derive linguistiche dell’italiano. Ichino si vede costretta a difendere la sensatezza della pratica di editing, che nel 2016 è come difendere l’Habeas corpus. Mi aspettavo che la questione dell’inglese fosse al centro anche delle riflessioni dei linguisti: ma lì era considerata più che altro in quanto sintomo di una crisi d’identità dell’italiano: la sua debolezza (Coletti), la mancanza di una politica di insegnamento (D’Achille, Della Valle), le trasformazioni che stanno portando i flussi migratori degli ultimi decenni e la necessità di ripensare i termini di genere (Maraschi). L’ultimo intervento, di Trifoni, cita una frase famosa del grande linguista Migliorini: «La lingua sarà ciò che sapranno essere gli italiani». Siamo a posto.