Attualità

A proposito di Vogue Africa

Dalle riviste patinate alla politica: conversazione su media, rappresentazione e afro-discendenza con Igiaba Scego e Johanne Affricot.

di Silvia Schirinzi

La proposta di Naomi Campbell è arrivata dopo la quattro giorni dell’Arise Fashion Week di Lagos, in Nigeria, dove dal 30 marzo al 2 aprile si sono riuniti 45 designer provenienti da 14 paesi, sia africani che dal resto del mondo. Una rassegna che, per la prima volta da sei anni a questa parte, prova a riunire in un’unica piattaforma i tanti attori della moda made in Africa, avviati ed emergenti, e che riconferma Lagos, che negli stessi giorni ospitava anche il festival BBK Africa Homecoming, come uno dei punti nevralgici della creatività del continente. Non è l’unico: manifestazioni di questo tipo ci sono anche a Johannesburg in Sudafrica e ad Accra in Ghana. «Dovrebbe esserci un Vogue Africa. Abbiamo appena lanciato Vogue Arabia, sarebbe il prossimo passo in avanti» ha dichiarato allora Naomi, che in quei giorni ha sfilato a sorpresa per il duo sudafricano KluK CGDT e il nigeriano Lanre Da Silva Ajayi fra gli altri. «Sono andata in un negozio incredibile, Alara, che è come Colette (…) Credo che l’Africa, come continente, stia per esplodere. È la prossima destinazione e ha bisogno di una piattaforma più ampia. Voglio aiutarli a realizzarla, siamo già in ritardo» ha spiegato la ex modella, oggi parte del direttivo del nuovo British Vogue diretto da Edward Enninful.

Nel 2017, d’altronde, Condé Nast International ha lanciato Vogue Arabia (ne abbiamo parlato su Studio n° 30) riutilizzando la dicitura regionale già sperimentata con Vogue Mexico and Latin America dal 1999, che esce come “Latin America” in tutti i paesi sudamericani fatta eccezione per il Brasile, che ha la sua edizione nazionale. Nei primi mesi del 2018, invece, hanno debuttato nelle edicole sia Vogue Poland che Vogue Czech Republic and Slovakia, portando a 24 il numero di edizioni della rivista nel mondo. Come ha spiegato Tamison O’Connor su Business of Fashion, le edizioni regionali fanno parte di una nuova strategia globale dei grandi editori, che da una parte stanno lavorando per uniformare i propri team e produrre contenuti che possano adattarsi a mercati internazionali, e dall’altra comprendono l’importanza di costruire solide relazioni locali con le nuove aeree d’interesse. Condé Nast International ha recentemente inaugurato un nuovo ufficio a Londra, guidato da Karina Dobrotvorskaya, che si occupa proprio di inaugurare nuovi mercati per le proprie testate, mentre Hearst si sta specializzando nel vendere la pubblicità delle sue riviste “spalmandola” su tutte le edizioni internazionali. Bessolo Llopiz, responsabile delle 46 edizioni di Elle nel mondo, la mette giù senza fronzoli: «Una volta abbiamo fatto 35 cover diverse con un solo servizio fotografico. Ti dà un incredibile potere di negoziazione per ottenere quello che vuoi». Ovvero, pubblicità.

Questi cambiamenti hanno a che fare con il modo in cui scegliamo ciò che è desiderabile e, di conseguenza, facciamo shopping. Tuttavia, il dibattito intorno a Vogue Africa si è accesso immediatamente dopo la proposta di Naomi Campbell. Leanne Tlhagoane, fondatrice di Refashion Africa, in un articolo apparso sempre su BoF, ha scritto che in realtà è il momento migliore per lanciare la pubblicazione e che questa potrebbe fare da collettore e cassa di risonanza dell’enorme e sfaccettato patrimonio creativo dei paesi africani. A sostegno della sua tesi, Tlhagoane cita i dati del Fondo Monetario Internazionale, che indicano l’Africa come la seconda area al mondo il cui sviluppo economico sarà più veloce entro il 2020, mentre dati più a lungo raggio che riguardano i prossimi 15 anni, indicano un rallentamento dei paesi del nord-Africa esportatori di petrolio e l’avanzamento di paesi come il Ghana. Eric Otieno su GRIOT, invece, ha dato cinque ragioni molto convincenti per cui Vogue Africa non è affatto una buona idea, ragioni delle quali ho discusso con Igiaba Scego, scrittrice, giornalista e Fellow dell’International Center for Humanities and Social Change dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e Johanne Affricot, fondatrice di GRIOT, piattaforma che seleziona e dà voce ai migliori creativi africani e afro-discendenti.

Riferendosi a quei cinque motivi, tra i quali spicca l’immappancy (che sta per approssimazione geografica), mi scrive Affricot: «Più che interpretarli come una forma di chiusura, andrebbero letti come consigli, suggerimenti, moniti, alla luce del fatto che l’industria della moda in questa parte di mondo ha sempre dedicato pochissimo spazio alla rappresentazione del continente e della sua diaspora, non solo da un punto di vista estetico, di storie, di creativi, ma anche di staff e ruoli decisionali». E aggiunge: «Negli ultimi 3 anni l’Africa è diventata molto “en vogue”, e questo grazie al lavoro di creativi, artisti, di discepoli – come mi piace definirli – africani e della diaspora». La pensa allo stesso modo Scego, che al telefono mi dice come questo concetto-calderone di “Africa” sia qualcosa che non smette mai di lasciarla perplessa: «Uno dice Africa e pensa automaticamente “neri”, mentre in realtà l’Africa è un continente enorme. In Marocco e in Libia, per esempio, la maggioranza della popolazione non è nera, e anche all’interno di paesi tendenzialmente neri, come il Gibuti o il Kenya, esistono società multietniche dove oltre alla popolazione afro-discendente c’è anche quella indiano-discendente, per esempio. L’Africa è ben più complessa dell’idea che di essa si ha in Occidente, sia da parte dei bianchi europei sia da parte degli afro-discendenti nati e cresciuti in Europa. Una cosa è parlare di Ruanda, un’altra di Kenya o di Somalia: cambiano gli abiti, le tradizioni, la lingua. Per cui quando ho letto Vogue Africa ho pensato fosse un’idea carina, ma non era meglio un Vogue Nigeria, un Vogue Marocco, un Vogue Sudafrica?». Detto così, non potrebbe sembrare altrimenti, eppure.

Se le strategie commerciali dei giornali che cercano di salvare se stessi si scontrano con l’accuratezza storica e, soprattutto, con la rivendicazione sacrosanta delle complesse identità del continente, è innegabile la rilevanza che ha assunto oggi quel vastissimo immaginario che definiamo grossolanamente come africano, perlopiù filtrato dalla black culture di matrice afroamericana. Basta pensare a Beyoncé vestita da Nefertiti al Coachella, al successo strabiliante di Black Panther e al fascino esercitato dalla mitologica Wakanda, ma anche a Virgil Abloh a capo di Louis Vuitton: niente ci piace più dell’Africa e tutto ciò che sembra richiamarla ma, contemporaneamente, su nulla siamo più ignoranti. Soprattutto nel nostro paese, sottolineano sia Affricot che Scego. «Qui in Italia, rispetto ad altri paesi europei, siamo ancora molto indietro, purtroppo: la narrazione, così come i dibattiti, sono ancora fermi a “gli immigrati sono una risorsa perché ci pagano le pensioni e fanno lavori che gli italiani non fanno e non vogliono fare più”, agli sbarchi, alle invasioni, alla sostituzione etnica, alla cittadinanza sì, cittadinanza no, all’aiutiamoli a casa loro, alle robe folkloristiche, alla letteratura “migrante”» mi spiega Affricot.

«Alla Ca’ Foscari di Venezia abbiamo recentemente organizzato un ciclo di incontri intitolato Afropean Bridges dedicato proprio ai temi dell’afro-discendenza e dell’Afro-Europa, per sottolineare la necessità di un dialogo tra Europa e Africa e allo stesso tempo per “attirare” gli studenti afro-italiani della Cà Foscari, che non sono pochi. Ca’ Foscari, poi, come università si sta aprendo all’Africa: partiranno infatti corsi di amarico e kiswahili per gli studenti e scambi culturali» dice Scego, fermamente convinta che la cecità politica italiana sia aggravata da un’informazione mediocre quando non pessima, che ingrossa gli stereotipi e la paura del diverso. Quando le dico, in maniera decisamente naïf, che la società in realtà è più avanti della politica, mi risponde che non bastano le classi miste a garantire il futuro: c’è bisogno di tanto lavoro culturale, di riscrivere il racconto della migrazione e dei corpi neri – lasciandoci alle spalle il paternalismo odioso della campagne di aiuti umanitari, per esempio, e l’ossessione per il viaggio, che finisce per sovrastare e definire senza scampo le persone che l’hanno vissuto – ma anche di studiare il ritorno di certi stilemi nella cultura popolare, Beyoncé e Black Panther compresi. «Quando ho visto che [Beyoncé] si era vestita da Nefertiti, ho pensato che Iman lo aveva fatto molto prima di lei: in un video di Michael Jackson al fianco di Eddie Murphy nel 1992, Remember The Time. Era interessante, allora, vedere una somala con un costume egizio. Black Panther, invece, affonda le sue radici nell’immaginario dell’afro-futurismo che non è certo qualcosa di nuovo, si pensi al lavoro di Octavia Butler. A me comunque è piaciuto molto, la genialità è stata quella di fare da collettore di cose che c’erano prima».

E a proposito di spazi di rappresentazione, per Affricot è fondamentale costruirli insieme: «A GRIOT stiamo lavorando sull’ideazione e realizzazione di eventi. L’ultimo che abbiamo organizzato a Dicembre 2017 è stato Sangue Misto: Sound, Identità, Rappresentazione, per il Jazz:Re:Found Fesival di Torino. Ciò di cui [i creativi africani, ma anche gli afroitaliani, ndr] hanno, abbiamo bisogno per emergere ancora di più, è essere maggiormente diffusi e rappresentati nei media mainstream, ma anche in quelli verticali, compresi voi di Studio. In generale, negli spazi “bianchi”». La nostra idea di Africa e africani, anche quando è buona, il più delle volte è sbagliata e/o approssimativa: ecco perché diventa fondamentale, mi dice Scego, sfruttare questo momento e radicarlo al paese che viviamo, anche per evitare il dilagare del punto di vista anglofono che, di fatto, già esiste e che pure ha fatto da apripista. Ci sarà un Vogue Africa? Probabilmente a un certo punto sì, se non in quella dicitura in un’altra, speriamo, meno sommaria: intanto però possiamo spingerci a conoscere e far conoscere i creativi africani, afro-discendenti e afroitaliani, che ci sono vicini e parlano la nostra stessa lingua più di quanto potrà mai fare T’Challa. Come ad esempio quelli rappresentati dalle fiere di arte contemporanea 1:54 Contemporary African Art Fair e Akaa – Also Known as Africa, consigliate da Affricot, ma anche Evelyne S. Afaawua, citata da Scego, fondatrice di Nappytalia, il primo portale italiano dedicato alla cura dei capelli afro. Perché potremmo anche non accorgercene o non ammetterlo, ma l’Italia cambia, anzi è già cambiata.

Tutte le foto sono dell’ultima edizione della Accra Fashion Week, in Ghana (Getty Images).