Attualità
Patagonia, la moda e il pianeta
Può un marchio di abbigliamento tecnico indicare la strada per un modello di business etico? Il caso dell'azienda fondata da Yvon Chouinard.
«Ogni stadio nella vita di un indumento minaccia il pianeta e le sue risorse. Ci possono volere più di 20.000 litri di acqua per produrre un solo kg di cotone, che corrisponde a una sola maglietta e a un paio di jeans. All’incirca 8.000 diversi prodotti chimici vengono utilizzati per la trasformazioni dei materiali vergini in abiti da indossare, senza contare i diversi passaggi di tintura e finissaggio. E che cosa succede a tutti quei capi che rimangono invenduti, si rovinano, oppure, semplicemente, passano di moda?». Questo è quanto si legge in apertura del giro di opinioni di Business of Fashion sul rapporto tra moda e nuove tecniche di produzione nell’industria dell’abbigliamento. Non si può dire certo che sia una novità: che quella tessile sia la seconda industria più inquinante dopo quella petrolifera è un fatto risaputo pressoché universalmente. Da diverso tempo, ormai, il dibattito sull’utilizzo delle risorse e l’impatto ambientale di determinati modelli di business legati alla produzione di vestiario – in primis quello del fast fashion – si è concentrato sull’individuazione di alternative concrete, che molto spesso hanno come condizione di partenza la riformulazione più o meno radicale delle nostre abitudini di consumo.
Parlando di moda low-cost avevamo già citato un intervento della giornalista del New York Times Vanessa Friedman al Copenaghen Fashion Summit del 2014. In quell’occasione Friedman invitava a diffidare del concetto di “moda sostenibile”, preferendo un più realistico e realizzabile “guardaroba sostenibile”. Non è un caso, allora, che nel suo report dell’ultima edizione del summit risalente allo scorso maggio, intitolato eloquentemente Sustainability is out, responsible innovation is in, il direttore di BoF Imran Amed riporti stralci dell’intervento di alcuni manager legati a marchi che, invece, sul concetto di innovazione responsabile hanno costruito la propria identità e strategia. Fra questi, è particolarmente interessante il caso di Patagonia, marchio americano fondato nel 1973 dallo scalatore, surfista e imprenditore di origini franco-canadesi Yvon Chouinard, già autore fra le altre cose di una celebre autobiografia, Let My People Go Surfing (Penguin Random House, 2005), con un’introduzione di Naomi Klein e un sottotitolo che recita testualmente «L’educazione di un imprenditore riluttante». Da produttore artigianale di chiodi e attrezzature per l’alpinismo a imprenditore illuminato che produce capi per chi vuole scoprire la natura e si preoccupa di non lasciarci tracce indelebili.
Quella di Chouinard è una storia romantica, puntellata di atti di ribellione civile, concreti come i suoi piumini bestseller che anche chi vive in città ha finito per indossare. Come ha sottolineato a Copenaghen Rick Ridgeway, anche lui ex alpinista e vice presidente di Patagonia con delega agli affari ambientali, la sfida di chi confeziona vestiti oggi è tutta nel «costruire il miglior prodotto al prezzo del minor danno possibile», posizione confermata più volte dal presidente e Ceo Rose Marcario, arrivata da Patagonia nel 2008, dopo essersi lasciata alle spalle un lavoro in finanza che l’ha portata all’esaurimento, come racconta in un bel profilo su Fortune. «C’è molto spazio per l’innovazione in questo settore. Non dobbiamo necessariamente reinventare tutta la catena produttiva, ma quei marchi che non affronteranno la realtà del vero costo del produrre abbigliamento oggi e del fast fashion, finiranno per essere messi da parte». D’altronde, il momento storico lo richiede con urgenza, tanto più ora che i primi provvedimenti dell’amministrazione Trump prendono forma: risale a ieri, ad esempio, il momentaneo “silenziamento” dell’Epa, l’Agenzia per la tutela dell’ambiente, che ha destato molta preoccupazione, considerando quali sono le posizioni del neo presidente a proposito di riscaldamento globale e, più in generale, il suo atteggiamento disinteressato, quando non apertamente ostile, alle tematiche ambientali. A questo si aggiunge la decisione di sbloccare i lavori per gli oleodotti del Dakota Access e del Keystone XL, in aperto contrasto con quanto deciso da Barack Obama meno di un mese fa.