Attualità

Ottolenghi, l’uomo insalata

Maestro di insalate partito dalle pagine del Guardian, Yotam Ottolenghi è una star della cucina ma non un grande chef: a differenza degli altri vuole creare cose antiche.

di Tommaso Melilli

Continua Studio Ritratti, una serie di profili di personaggi dell’attualità, della politica, della cultura da leggere durante le vacanze agostane, con cui vi accompagneremo nelle prossime settimane. Qui potete leggere le puntate precedenti, Greta Gerwig, Luigi Di Maio, Datta Phuge, e Boris Johnson. Buona lettura, buona estate.

Qualche settimana fa sono stato dei giorni a Palermo. Tornato, sull’Uber che mi avrebbe portato dall’aeroporto fino a casa, pensavo intensamente a quello che avrei dovuto fare il giorno dopo, e cioè aprire il mio primo ristorante. L’autista, però, voleva chiacchierare. «Lo sai qual è il segreto per far funzionare un ristorante?», «No, ma ho la sensazione che fra poco lo saprò». «Bisogna fare delle belle insalate».

«È possibile», ho risposto. In quella mezz’ora di viaggio la conversazione si è poi allargata a temi più grandi di noi, producendosi da entrambe le parti in luoghi comuni di vario genere: a proposito della Brexit, del conflitto israelo-palestinese e dei tempi oscuri che corrono in Francia. Infine, giunti alla porta di casa mia, dopo qualche minuto di silenzio imbarazzato, l’autista ha concluso: «Bisogna concentrarsi sulle cose che ci mettono d’accordo, e le insalate mettono d’accordo tutti!».

Io odio le insalate. Ci sono poche cose che mi innervosiscono come quelli che vengono al ristorante, guardano il menu e poi chiedono se invece non sarebbe possibile avere un’insalata. È ormai abbastanza risaputo che l’insalata verde è una calamità naturale e il concetto di “insalatona” ha lentamente devastato la qualità della ristorazione italiana. Non capisco come si possa ancora pensare di nutrirsi con questi miscugli più o meno casuali di uova sode, rucole depresse, olive snocciolate, pomodori secchi che sanno di aceto e – non si sa perché – quasi sempre tonno. Il fatto è che l’unico pregio delle insalate (e l’unica ragione per cui c’è gente che si ostina a mangiarne) è che d’estate fa caldo, e le insalate sono fresche. O quantomeno fredde.

Il mio cuoco preferito (la persona a cui forse mi piacerebbe somigliare da grande) si chiama Yotam Ottolenghi: è molto famoso, i suoi ristoranti non hanno nessuna stella Michelin, è israeliano, ha un sous-chef palestinese e mangia maiale e frutti di mare, scrive di cucina sul Guardian, è laureato in filosofia estetica e fa le insalate più cool del pianeta. È noto al grande pubblico da esattamente dieci anni: nel 2006, il suo primo ristorante londinese aveva aperto da pochi mesi quando, abbastanza per caso, qualcuno gli propone di occuparsi della rubrica di cucina vegetariana del Guardian. Lui dice di sì, forse fiutando l’occasione e forse perché pensa che se scrive di cucina su un grande quotidiano suo padre capirà che gli anni passati a studiare Hegel non sono stati buttati al vento.

A Mediterranean Odyssey Hosted By Yotam Ottolenghi Part Of The Bank Of America Dinner Series - Food Network New York City Wine & Food Festival Presented By FOOD & WINE

La prima ricetta che pubblica s’intitola “Seriously zesty bread salad“. È una panzanella. Da questo momento in poi, la sua carriera è folgorante: pubblica libri di successo planetario, apre altri tre ristoranti e negozi dove vendere le spezie e i condimenti che sono fondamentali per cucinare come dice lui. Tutti quelli che cercano di descrivere la sua cucina dicono che non è una cucina etnica in senso stretto, perché non è né israeliana, né libanese, né siriana, né turca: è tutte queste cose insieme, e un po’ anche italiana, e un po’ indiana, cinese e spagnola. Alcuni cercano di tagliare corto dicendo che è una cucina mediterranea, ma anche quello non basta.

Ottolenghi è uno dei cuochi più famosi al mondo ma non è considerato un grande chef. Leggere Ottolenghi, soprattutto sul Guardian, significa proiettarsi in un un mondo dove c’è un tuo amico chef poco più che quarantenne che sta preparando un grande pranzo per te e per altri quindici amici. È di bell’aspetto e vestito con un maglione di lino un po’ largo. Fra una meringa alla fava di tonka e un taboulé, di tanto in tanto si lecca le dita per essere sicuro che due terzi di cucchiaino di sale in quella vinaigrette siano sufficienti.

Nelle sue ricette non troverete cotture sottovuoto, spume e sferificazioni. Non ci sono utensili e macchine bizzarre: si può fare quasi tutto con un paio di buoni coltelli, un pelapatate, un colino, un frullatore e due o tre ottime padelle. E un bidone d’olio d’oliva. Nelle cucine dei suoi ristoranti (e nelle pagine dei suoi libri) non troverete insomma nessuna delle tecniche e dei gadget che distinguono oggi un cuoco qualunque da un Grande Chef Contemporaneo. In compenso, basta vedere la foto di un piatto per capire che è roba sua, o che un’insalata è stata pensata seguendo l’”Ottolenghi style”: i suoi innumerevoli fan, oltre a scambiarsi i suoi libri e le sue ricette, inventano piatti che il maestro avrebbe potuto fare ma non ha fatto: non per sminuire «lo chef numero uno al mondo», ma sfido chiunque a inventare un piatto “stile Massimo Bottura”, a meno che non sia una parodia.

Ciò non significa che le ricette di Ottolenghi siano “facili”. Molte richiedono tantissimo tempo, e quasi tutte una certa cura. Le liste degli ingredienti sono interminabili e abbastanza frustranti. Yotam racconta che, all’inizio, si era imposto di utilizzare solo ingredienti disponibili nella maggior parte dei supermercati londinesi: ci ha rinunciato quasi subito. Dieci anni dopo, i supermercati londinesi hanno introdotto linee di prodotti “mediorientali” come il sommacco, il tahini, la feta, le fave fresche, la melassa di melograno e lo sciroppo di sambuco.

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Ciononostante, Yotam continua a non essere considerato un grande chef. Perché i suoi piatti non sono mai concettuali: a differenza, di nuovo, di uno chef come Bottura, non concepisce la cucina come l’espressione artistica di una mente creativa, unica, originale e inimitabile. Ottolenghi vuole essere imitato. La differenza fra Ottolenghi e la maggior parte dei grandi chef sulla cresta dell’onda sta nel fatto che la nostra idea di “grande chef” corrisponde a qualcuno che vuole creare qualcosa di nuovo. Yotam Ottolenghi vuole creare qualcosa di antico, e scusate se è poco. Le cose antiche che crea, poi, ridiventano prepotentemente di moda proprio adesso, qui, quest’estate o quest’inverno. Detta in termini d’altri tempi, Yotam Ottolenghi è probabilmente l’unico, fra gli chef famosi, a non fare una cucina borghese (o forse è l’unico cuoco non borghese a essere diventato famoso).

La sua non è una cucina etnica perché, in effetti, non fa riferimento a un Paese e a una tradizione in particolare. Ma i gesti della sua cucina sono più che mai umani, domestici, tradizionali: provate a bruciare delle melanzane intere sulle fiamme dei vostri fornelli fino a quando non diventano completamente molli e collassate, poi tagliatele a metà, scartate la pelle, recuperate la carne che sarà come una purea. Frullatela con poco olio, sale, pepe e succo di limone. Ottolenghi ha l’ambizione di creare la tradizione gastronomica secolare di un Paese immaginario del Mediterraneo dove, nel passare dei secoli, si sono accampati tutti i popoli della terra, ciascuno con le loro nonne che fanno il pane e i loro patriarchi maestri della griglia. Il tempo e le stagioni hanno poi costruito questa cucina dinamica e variegatissima, spensieratamente contaminata.

«Quando l’aria diventa pesante e lo spirito umano appassisce, un’insalata è la vendetta migliore. Un apparentemente innocente groviglio di verdume che non è né gentile né selvaggio, ma vivo. Feroce nella sua croccantezza come nella mutevole individualità delle varietà di peperoni; fa appello al lato brutale degli appetiti estivi. Mangiare un’insalata è come lanciare un colpo di frusta contro il languore e la noia». Stava parlando di una méchouia, un’insalata tunisina di verdure grigliate. La settimana scorsa, siccome faceva caldo, l’ho messa in carta al ristorante. L’ho chiamata peperonata.

 

Immagini Getty Images.