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Università italiana: foto di gruppo

In Italia ci si laurea poco, ci si laurea con fatica e ci si laurea tardi. Partendo dai dati disastrosi, abbiamo fatto un viaggio tra gli atenei di Roma e Milano per capire cosa c'è sotto.

di Anna Momigliano

Da capolinea a capolinea fanno 51 minuti, ho cronometrato. Mi chiedo quanti romani, di quelli veri, abbiano mai percorso la metropolitana A tutta di fila. Per me è la prima volta, parto da Battistini, dove sono ospite di parenti, e scendo ad Anagnina, destinazione: Tor Vergata. Dall’ultima stazione per raggiungere il polo universitario servono altre cinque-sei fermate di autobus, a seconda della facoltà. Attraverso il finestrino le palazzine ordinate si alternano alle sterpaglie dei terreni incolti. Quando arrivo al Politecnico sono talmente lontana da ogni punto di riferimento comunemente associato alla capitale, che mi domando se questa sia davvero Roma. In realtà, scoprirò più tardi, questa non è Italia, punto. Il mio viaggio dentro il mondo delle università italiane comincia da una lezione d’Ingegneria Gestionale di Roma 2. Un corso che, stando ai dati e all’aria che si respirava, è quanto di meno rappresentativo della condizione in cui versa l’accademia nostrana.

Qualche mese fa è stato pubblicato il primo rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca in Italia, messo a punto dall’Anvur, l’agenzia del ministero dell’Istruzione incaricata di vigilare sugli atenei. La panoramica che ne emerge è, per usare un tecnicismo, che siamo allo sfacelo. Deteniamo il record negativo in Europa occidentale di giovani laureati: da noi i venti-trentenni con un diploma universitario sono il 22 per cento della popolazione – in Francia, per dire, sono il 42, in Gran Bretagna il 45. Le università italiane perdono iscritti, certo, meno 20 per cento dal 2000 ad oggi, ma a spulciare bene i numeri non è questo il problema, o se non altro non quello più grande. Il fatto è che in Italia c’è tanta, troppa gente che s’iscrive all’università e ne esce con un pugno di mosche. Poco più della metà degli immatricolati, appena il 55 per cento, arriva alla laurea: e questo sì che è un record negativo che spicca, assai più del numero di laureati tout court, se teniamo conto che la media del tasso di successo negli studi universitari nei paesi industrializzati è del 70 per cento, e che nelle grandi nazioni dell’Europa occidentale come Spagna, Germania e Gran Bretagna sfiora l’80.

Nonostante le recenti polemiche sul numero chiuso, la verità è che dalle università italiane è molto più difficile uscire – con una laurea, s’intende – che entrare. Poi c’è la questione dei tempi degli studi, altro record negativo. Parlare di “fuori corso” potrebbe depistare, perché il termine suggerisce un’eccezione, anziché la regola. Invece gli studenti fuori corso in Italia sono così tanti che soltanto il 40 per cento di chi si laurea lo fa entro i tempi previsti. E sono così tanto fuori corso che nel 2011 il ministero ha registrato 17 mila lauree del vecchio ordinamento, abolito dalla riforma Berlinguer: vuol dire che, nella migliore delle ipotesi, ci hanno messo dodici anni.

In Italia ci si laurea poco, ci si laurea con fatica e ci si laurea tardi. C’è chi abbandona gli studi, chi sta parcheggiato in università, e chi in università non si capisce bene come ci sia finito. C’è chi si perde, fagocitato dal sistema dispersivo, dalla burocrazia, dallo studio autogestito del mi-leggo-sei-tomi-a-casa-poi-do-l’esame. C’è chi si iscrive giusto per, c’è chi parte a mille e poi s’ammoscia. C’è chi si arena sugli esami-scoglio, c’è chi rifiuta i ventisei, c’è chi non ce la fa a pagarsi l’affitto e chi a un certo punto decide che è meglio mollare tutto e trovarsi un lavoro. I dati – tutti quelli citati in questo pezzo, ove non esplicitato diversamente, sono del rapporto Anvur – ci dicono che il nostro paese investe poco in ricerca e istruzione, visto che in rapporto al Pil l’Italia spende il 37 per cento in meno rispetto alla media delle nazioni industrializzate. Eppure l’impressione è che quello dei fondi non sia l’unico problema. Per farmi un’idea più approfondita, ho tentato di sovrapporre ai dati numerici le realtà sul campo, tra qualche ateneo romano e milanese.

Bianca Giacobone, 20 anni, studia Lettere Moderne alla Statale di Milano. Scrive sul giornale studentesco vulcanostatale.it, Sogna di specializzarsi in letteratura anglo-americana, preferibilmente all’estero.

La lezione che frequento a Tor Vergata è Gestione degli impianti industriali, corso rivolto agli studenti del quinto anno, cioè all’ultimo della laurea magistrale nel “nuovo” ordinamento del 3+2 introdotto nel 1999. Il professore ricapitola le puntate precedenti sul metodo Toyota, per poi passare a una dettagliata analisi dei costi di produzione dei sofficini al gusto pizza. Io non ci capisco un’acca, se non che rendere economicamente sostenibili commercio e produzione dei surgelati è un casino bestiale, le tabelle a scorrimento rapido sul Powerpoint mi sembrano più complesse dell’algoritmo di Google. Gli studenti in compenso sembrano interessatissimi, anche perché, mi raccontano due di loro, qualche giorno prima erano stati in visita alla Findus, proprio a seguire la produzione dei sofficini. Un po’ come in quelle gite scolastiche delle elementari dove ti portano a vedere come si fanno i cioccolatini o i cotton fioc, solo che se uno la vede da una prospettiva di Mrp, (Manufacturing Resource Planning), insomma di pianificazione delle risorse aziendali, la questione si fa piuttosto delicata, basta un imprevisto, una fase di lavorazione in ritardo che blocca le altre, e i costi di stoccaggio salgono alle stelle. Il mio vicino di banco, Lorenzo D’Orazio, classe 1990, mi spiega che è per questo che s’è iscritto a ingegneria gestionale, perché ti consente di avere un’altra prospettiva, una visione d’insieme. Dopo il liceo s’era immatricolato a Fisica, ma subito s’era reso conto che l’approccio teorico alla materia non faceva per lui – «troppa teoria poca pratica», tra l’altro, è una delle lamentele più comuni che sento tra gli studenti di ogni corso, da economia a storia dell’arte. «A me serviva qualcosa di pratico, qualcosa che mi mettesse a contatto con la realtà», racconta Lorenzo, tipo i sofficini.

È una lezione aperta, inserita nel programma “Unipertutti” (unipertutti.it) che vorrebbe incoraggiare i non-studenti a farsi un’idea di cosa succede nelle aule universitarie, ma mi basta dare un’occhiata per capire che sono l’unica esterna. I ragazzi seduti di fianco a me hanno 23, 24 anni, e già questo è un fatto degno di nota, perché si tratta di studenti del quinto anno che davvero frequentano l’università da cinque anni. Non dovrebbe esserlo, ma lo è, visto che in Italia in media servono più di cinque anni solo per conseguire una laurea “triennale”. Martina Varisco, una biondina classe 1991, però dice che i tempi stanno cambiando, che dal suo punto di vista finire fuori-corso è praticamente verboten: «Le aziende te lo fanno capire, che se ti laurei tardi fai una brutta impressione». Per concludere la triennale entro i tempi previsti, Martina ha sacrificato la media accademica e rinunciato a uno stage. Ora è in partenza per Lisbona, ma prima di decidere di fare l’Erasmus nell’ultimo semestre di magistrale ci ha pensato bene: «Sa un lato so che mi farà perdere un po’ di tempo, dall’altro oggigiorno non si può non avere sul curriculum un’esperienza all’estero, quindi ho deciso che il gioco valeva la candela», racconta.

Se gli studenti si laureano in tempo, però, è anche perché i docenti consentono loro di farlo. Il professore aggregato in impianti industriali meccanici Massimiliano Schiraldi, quello che ha tenuto la lezione sui sofficini, mi riceve nel suo ufficio. Impilati in ogni angolo, volumi rilegati in similpelle che mi ricordano le vecchie enciclopedie a rate: sono le tesi dei suoi studenti, mi spiega, circa duecento. «Se mi chiedono di fare da relatore non dico mai di no», dice. Anche se potrebbe rifiutarsi, aggiunge, e molti, penso io, lo fanno. Non è raro infatti sentire di laureandi costretti a rimandare la tesi perché non trovano un relatore. Il fatto è, spiega Schiraldi, che il sistema italiano non incentiva i docenti a dedicare tempo agli studenti. Nel 2010 con la riforma Gelmini si è introdotto per la prima volta un sistema di valutazione per ricercatori e atenei. Ai fini dell’Abilitazione scientifica nazionale, contano il numero delle pubblicazioni, raccolte in due grandi database – sulla cui rappresentatività, peraltro, ci sono state non poche polemiche. Non contano invece l’insegnamento e le altre attività didattiche, insomma fare lezioni e seguire tesi. Il risultato, sostiene Schiraldi, è che, per fare carriera, un professore deve fare tanta ricerca e pubblicare il più possibile: dedicare tempo all’insegnamento non conviene.

Daniele Croci, 25 anni, si è laureato lo scorso anno con una tesi su Shakespeare nella cultura pop e sta facendo il dottorato in scienze Linguistiche alla Statale di Milano. Fa anche l’assistente e gli capita di esaminare studenti più vecchi di lui.

A chilometri di distanza, nel centro di Roma, La Sapienza è un altro mondo. Da Termini raggiungo la città universitaria a piedi e soltanto dopo avere attraversato colonnato in marmo che si affaccia su piazzale Aldo Moro mi rendo conto di quanto sia immensa: sono dentro il Leviatano. Seguo una lezione di storia del cinema: se ho ben capito il corso è “star studies,” nel senso delle stelle di Hollywood, rivolto agli studenti dell’ultimo anno di triennale. La stanza è immensa, i banchi di legno disposti ad anfiteatro, ricorda un po’ l’aula magna di un liceo. Circa duecento posti a sedere, sì e no una trentina di studenti. Il professore, Andrea Minuz, docente a contratto, spegne le luci e attacca il Powerpoint. Scopro cheLo squalo, il terzo lungometraggio di Steven Spielberg, è stato il primo film della storia ad avere incassato più in merchandising che al botteghino, e che Top Gun, del 1989, è un caso da manuale di product placement dove l’immagine di un attore è associata a un brand dentro e fuori il film. Quando il faccione di Tom Cruise coi Ray-Ban fa capolino sullo schermo, il professore chiede chi ha visto il film. Alzano la mano in sei. Ci racconti di cosa parla, domanda il professore a uno di loro, niente spoiler però. È un film molto americano, risponde quello, nel senso che se la tirano parecchio sulla guerra ma poi c’è anche la trama romantica.

La lezione è interessante – guardiamo anche uno spezzone di Crazy, Stupid, Love dove, fa notare qualcuno, Ryan Gosling riesce a essere stiloso anche mentre mangia una pizzetta – e gli studenti sembrano abbastanza partecipi, anche se un ronzio piuttosto forte e irritante, forse il proiettore, forse il condotto d’areazione, a tratti rende difficile l’ascolto e quell’aula quasi vuota mette un po’ d’angoscia. Quando più tardi mi fermo a fare due chiacchiere con gli studenti, “angoscia” mi pare proprio la parola giusta. Tanto per cominciare, scopro che sono quasi tutti avrebbero voluto fare altro: c’è chi avrebbe voluto studiare da regista, chi da attore, chi imparare a scrivere per il cinema e per la televisione, e che si sono ritrovati a seguire un corso di studi teorico, volto tutt’al più a formare critici, un po’ per ripiego, un po’ perché non avevano capito quanto teorico fosse. «Speravo di entrare in contatto con il mondo dello spettacolo, invece sono qui da tre anni e ancora non ho fatto nessuna esperienza pratica», racconta Francesco Falanga, 21 anni.

In realtà l’università qualche «esperienza pratica» dovrebbe fornirla: lo stage al terzo anno, per esempio, è obbligatorio e in teoria La Sapienza dovrebbe aiutare gli studenti a trovare un’azienda convenzionata per svolgerlo, attraverso il portale jobsoul.it. Il problema è che non funziona, racconta Vittoria De Sanctis, 23 anni: «Alla fine dobbiamo trovarci noi le aziende e farle convenzionare con l’università». Anche Davide Franco, 22 anni, ha avuto una brutta esperienza con il sito: «Lo stage me lo sto cercando per conto mio, ormai jobsoul non lo considero più». Il problema è che per un ragazzo senza agganci proporsi nell’ambiente non è così facile. Silvia Torani, 22 anni pure lei, ha aggirato la questione iscrivendosi a un corso di editoria presso l’agenzia letteraria Herzog: da lì ha trovato uno stage, che successivamente ha fatto convenzionare con La Sapienza. Quando le faccio notare che è dovuta ricorrere a un’istituzione esterna (privata) per trovare uno stage per l’università (pubblica), Silvia fa spallucce: «Qui siamo abbandonati a noi stessi». Più che «abbandonati» a me quegli studenti sembrano sperduti, e delusi. C’è chi, come Davide, non vede l’ora di terminare gli studi per cercare lavoro all’estero e chi, come Vittoria, dice che se potesse tornare indietro andrebbe direttamente a studiarci, all’estero. La cosa peggiore, mi racconta il loro professore, Andrea Minuz, non è tanto vedere ragazzi demotivati, quanto vedere studenti che partono appassionati e che «poi perdono l’entusiasmo, si demotivano, ogni anno di più».

Eva Vara, 22 anni, ligure, sta conseguendo una laurea triennale alla Bocconi grazie a una borsa di studio e spera di essere ammessa alla magistrale. Da grande, vorrebbe lavorare per un’organizzazione internazionale.

Nel chiostro di Filosofia della Statale di Milano non si respira un’aria molto diversa. L’età media, da quel che vedo, è un po’ più alta. È lì che incontro Bianca Giacobone, che frequenta il secondo anno di Lettere Moderne. Tra tutte le facoltà, Lettere e Filosofia è quella che ha perso il maggiore numero di iscritti tra il 2000 e il 2012 (anno in cui le facoltà sono state formalmente abolite, oggi si parla di “dipartimenti”): in picchiata anche sociologia, giurisprudenza, scienze della formazione; salgono medicina, ingegneria, agraria. Vent’anni e una passione per la letteratura anglo-americana, Bianca parla volentieri di quello che non va: «classi da trecento persone», «professori che non sanno chi sei», studenti svogliati che usano l’università «come parcheggio». Ma, soprattutto, un insegnamento improntato al nozionismo e al ripetere a pappagallo – lei parla di una «classe passiva», lezioni in cui gli studenti non sono invitati a intervenire e, quando lo sono, sono troppo in soggezione per parlare – che non solo non prepara i ragazzi al mondo reale, a darsi da fare e pensare con la loro testa, ma spesso finisce per demotivarli. Lo scorso aprile Bianca ha scritto sul giornale studentesco vulcanostatale.it un lungo articolo in cui si chiedeva perché «all’università non insegnano a scrivere»: all’estero paper e tesine fanno parte del percorso universitario, da noi arrivi all’anno della tesi senza avere scritto una riga e a quel punto sono affari tuoi.

Ci raggiunge Daniele Croci, dottorando in studi Linguistici, Letterari e Interculturali in ambito europeo ed extraeuropeo, uno dei nuovi dipartimenti istituiti dalla riforma del 2012, che offre una prospettiva un po’ diversa sulla questione: «C’è una certa miopia diffusa anche tra gli studenti», sostiene, a proposito della pedanteria di cui parlava Bianca. «Molti sono ancora convinti che basti accumulare nozioni, senza preoccuparsi di imparare a costruire delle argomentazioni. Poi si lamentano se gli esami non vanno». Venticinque anni e alle spalle una tesi sulla rappresentazione di Shakespeare nella cultura pop contemporanea, su alcune cose Daniele gode della prospettiva privilegiata di chi si trova al contempo al di qua e al di là della barricata. Come ogni ricercatore, in base alla riforma, è tenuto a svolgere anche attività didattiche – nel suo caso: fare l’assistente agli esami – ma talvolta la sua giovane età spinge gli studenti a vederlo quasi come uno di loro, a prendersi fin troppe confidenze: «mi sono capitati studenti che mi dicevano chiaramente che erano impreparati, che non avevano letto niente o non ci avevano capito un’acca, come se fosse la cosa più naturale del mondo, tanto siamo tra coetanei», racconta. «La verità è che un docente può stimolare o meno, e lì si va a fortuna. Ma sta agli studenti trovare la curiosità, la voglia di fare, e purtroppo c’è chi non ne ha», conclude Daniele.

Incontro una sua professoressa, Nicoletta Vallorani, associato di cultura inglese e anglo-americana, al bar della Feltrinelli di corso Buenos Aires. Di «studenti che si iscrivono all’università senza una vera motivazione al tipo di studio che scelgono» ne vede parecchi anche lei: «Alcuni si iscrivono senza sapere bene cosa fare, per avere un contesto sociale di riferimento o per non starsene a dita incrociate». È un fenomeno in aumento, sostiene, che tende ad avere un impatto rilevante nelle facoltà non a numero chiuso, come lingue. In parte Vallorani – che insegna sia a mediazione, nel polo di Sesto San Giovanni, sia a lingue, in via sant’Alessandro – incolpa la riforma Berlinguer, quella che ha introdotto il 3+2. Con un primo ciclo di laurea così breve, dice, si fa più forte la tentazione d’iscriversi automaticamente, in attesa di capire che cosa fare da grandi: «Il triennio tende sempre più a diventare una prosecuzione della scuola dell’obbligo». Pur non essendone una sostenitrice entusiasta, la docente ritiene che a volte uno sbarramento in entrata possa essere d’aiuto a riflettere un poco su quanto si sia convinti della propria scelta: «C’è una finta demagogia dell’università per tutti», dice, «forse quando si propone un percorso formativo aperto a chiunque bisognerebbe anche valutare se si è messi nella condizione di garantire un’università di qualità». Come il suo collega di Tor Vergata, anche Vallorani sostiene che uno dei problemi sia un sistema dove l’aspetto didattico del lavoro dei professori non è adeguatamente valutato né coordinato, e spesso visto addirittura come secondario, non solo dai docenti stessi ma anche dall’istituzione che non prevede meccanismi di controllo: «A me in realtà piace molto insegnare, ma quando lo dico in giro sembra quasi una bestemmia».

Charlotte Leclerc, 20 anni, è una studentessa canadese iscritta all’università di Montreal. Sta svolgendo il suo semestre all’estero alla Bocconi: «volevo un’università europea, ma non francese», spiega, per imparare una nuova lingua.

A un calo degli immatricolati negli atenei statali nell’ultimo decennio, è corrisposto un aumento di iscrizioni nei privati. In Italia esistono 67 università pubbliche, che tuttora ospitano la stragrande maggioranza degli studenti, circa il 92 per cento, e 29 private. Di queste, però, undici sono atenei telematici, un fenomeno nuovo e per il momento non del tutto sdoganato: meno del tre per cento degli italiani studia online. In altre parole, gli atenei privati sono ancora pochi, nel panorama italiano rappresentano una casistica relativamente marginale. Eppure, in costante crescita. Per citare alcuni degli istituti più noti, dal 2007 a oggi la Bocconi è passata da circa 9600 studenti a più di 13 mila, la Cattolica da 28 mila a più di 37 mila, la Luiss da poco più di quattromila a quasi il doppio, 7800 (questi almeno i dati pubblicati sul sito del ministero dell’Istruzione).

Pare, per metterla giù un po’ brutalmente, che il privato ispiri fiducia. Infatti, secondo una ricerca condotta nel 2013 dall’osservatorio giornalistico Mediawatch su un campione di circa mille ragazzi, il 78 per cento dei neo-diplomati vorrebbe frequentare un’università privata, se solo ne avesse la possibilità. Lo scarto tra il volere e il fare, probabilmente, è in gran parte attribuibile a fattori economici: in Italia frequentare un istituto pubblico costa in media 1080 euro l’anno, ma le rette scendono a tre-quattrocento per le fasce di reddito più modeste (in qualche raro caso, come a Bologna, addirittura a 160 euro). Di contro, frequentare un ateneo privato viene a costare più di quattromila euro l’anno, che in alcuni casi possono diventare diecimila. Nel tentativo di capire che cosa ci sia sotto, e cioè che cosa spinga un numero sempre maggiore di famiglie a pagare migliaia di euro l’anno nel bel mezzo di una crisi economica, ho fatto un salto in due degli istituti più noti e iconici di quel piccolo mondo a parte che in Italia è l’istruzione universitaria privata.

Alla Bocconi di Milano seguo una lezione di Corporate Enterprenurship rivolta agli studenti del terzo anno, di un programma interamente in lingua inglese. Dalla cattedra il professore, Carlo Alberto Carnevale-Maffè, spiega come il modello di produzione e distribuzione di Zara sia radicalmente diverso da quello di H&M. In classe ha portato un articolo dell’Economist e s’interrompe spesso per fare domande agli studenti, che fanno a gara per rispondere. C’è un tizio con l’accento francese e la Fred Perry che vorrebbe intervenire sempre e noto che il professore, forse inconsciamente, cerca di fare parlare anche le ragazze, che nell’aula sono in leggera maggioranza ma sembrano un poco più timide. Dopo un’oretta e mezza la prima fase della lezione, quella in cui il prof parla in cattedra, si conclude e inizia la fase due, lavoro di gruppo. Quando i più veloci hanno consegnato, ne approfitto per fare quattro chiacchiere con loro. Alcuni sono studenti stranieri, cinesi, statunitensi e canadesi, che stanno frequentando un semestre o un anno accademico in Italia, in pratica il loro “Erasmus” (che in America ha un nome meno poetico, banalmente: Junior Year Abroad). Insieme a loro, però, anche ragazzi italiani che hanno scelto di compiere l’intero ciclo di studi in inglese nella speranza di andare a lavorare all’estero ma anche di familiarizzare con un metodo di studio anglosassone. Per esempio Eva Vara, 22 anni, che un domani vorrebbe lavorare in un’organizzazione internazionale, «come la Croce Rossa»: ha scelto questo programma soprattutto per imparare bene la lingua ma anche per avere un «approccio meno teorico allo studio», mi spiega, «e un rapporto più informale con i docenti». Poi c’è Daniela Rea, 22 anni pure lei, abruzzese, che è qui con una borsa di studio: «Volevo un corso in inglese, altrimenti non avrei accettato», racconta, «tenevo molto alle lingue e alla prospettiva internazionale».

Alla Luiss di Roma, è il “career day,” tutto un fiorire di stand e bancarelle di società dal nome impegnativo. Paolo Boccardelli, il coordinatore dei corsi di laurea magistrale del dipartimento d’Impresa e Management, dice che gli studenti si aspettano uno sbocco professionale soprattutto dalla specialistica: «La laurea triennale è vista come uno strumento di formazione del cittadino, mentre la magistrale è vista sempre più come un Master. Per questo diminuisce il numero di studenti che la frequentano, ma si alzano le aspettative e le risorse che sono disposti a dedicarci».

Christina Jin, 23 anni, cinese, è una studentessa dell’ultimo anno presso l’università americana Purdue, nell’Indiana. Ha scelto di frequentare l’ultimo semestre presso la Bocconi di Milano. Aveva preso in considerazione la London School of Economics.

Incontro qualche studente di relazioni internazionali a un tavolino all’aperto del bar dell’università, un po’ troppo affollato a causa dell’occasione. Giulia Rosato, 22 anni, al primo di magistrale viene dalla Puglia: dice di essere qui alla ricerca soprattutto di un ambiente internazionale, che al suo liceo classico l’ateneo ha fatto un lavoro di recruiting e che suoi conoscenti più grandi le avevano sconsigliato l’università di Bari, «troppo disorganizzata». Angelo Amante, 23 anni, di Catania, racconta che per i suoi genitori pagargli la retta è uno sforzo – non insormontabile, ma pur sempre uno sforzo – e che ha scelto quell’ateneo anche per non finire come alcuni suoi conterranei che «usano l’università come specchietto per le allodole», giusto per dare l’impressione di fare qualcosa, e «quando va bene prendono la laurea triennale a 28 anni: io mi sento male per loro». «Il tempo è denaro», prosegue Angelo «e qui fanno di tutto per spingerti a non perderne, per esempio al primo anno le lezioni erano quasi tutte la mattina, come se fossimo ancora alle superiori: secondo me era una buona cosa». Poi c’è Nicolò Sgreva, 24 anni con una lunga esperienza di volontariato in Mozambico, che ha conseguito la laurea di primo livello all’università di Trieste – prestigiosissima per il settore – e che ha scelto di proseguire gli studi alla Luiss per l’ambiente internazionale. Confessa di essere arrivato qui con qualche pregiudizio contro l’università privata, e di esserne rimasto piacevolmente sorpreso: «Prima il livello accademico era ottimo, ma eravamo lasciati a noi stessi davanti alla burocrazia, per trovare informazioni era una specie di caccia al tesoro. Qui invece la segreteria ti risponde alle email in mezza giornata, e il livello dei corsi è sempre ottimo».

Uno stereotipo diffuso vorrebbe che la maggior parte dei ragazzi che si rivolgono a un istituto universitario privato lo fanno perché pensano che faciliti la ricerca del lavoro. Insomma, i ganci con le aziende. Per altro, si tratta di un presupposto sbagliato: uno studio pubblicato nel 2012 sulla rivista internazionale European Journal of Educationdimostra che statisticamente, e cioè a parità di altri fattori, i laureati provenienti da istituti privati non godono di alcun vantaggio competitivo sul mercato del lavoro. Non è questa però l’impressione che ho avuto da questa esperienza. I ragazzi che ho incontrato cercavano soprattutto un’istruzione meno teorica, proiettata nella dimensione internazionale e si sono convinti, a torto o a ragione, che il settore pubblico non fosse in grado di offrirla. Temevano la burocrazia, lo studio autogestito, la dispersione. Cercavano la qualità e, in un certo senso, la pappa pronta.

In realtà, fa notare Manuela Brusoni, che insegna public management proprio alla Bocconi, «anche la pappa pronta non è affatto educativa», perché non bisogna sottovalutare l’importanza di «stimolare gli studenti all’autosufficienza». Quanto a me, so bene che non è carino metterla giù così, come una questione di pappa pronta. Però mi domando quanto quel record tutto italiano di abbandono degli studi universitari dipenda da anche questo, da un’eccessiva autogestione dello studente, dagli esami che li dai quando vuoi tu, dalle segreterie che non rispondono, dai professori che il tempo di seguire la tesi non ce l’hanno o, peggio ancora, che non lo trovano perché il sistema di valutazione non li incentiva a farlo. Quanti fuggano dall’istruzione pubblica soprattutto perché in cerca di comodità, di un percorso guidato, e se facciano bene, non saprei. Ma, dopo avere sentito molti dei loro coetanei raccontare di come si sentano abbandonati a se stessi, in tutta onestà non riesco biasimarli.

Nell’immagine in evidenza: Sanya Chen, 21 anni, taiwanese, è una studentessa della National Chengchi University di Taipei. Sta frequentando il suo semestre all’estero presso la Bocconi.
Tutte le immagini sono di Andy Massaccesi.
Dal n.20 di Studio