Attualità

Trent’anni di Meno di zero

L'otto giugno 1985 usciva negli Stati Uniti Less Than Zero. Scrittori, giornalisti ed editor italiani di varie età parlano del loro rapporto con il libro.

di Francesco Longo

Il primo romanzo di Bret Easton Ellis, Meno di zero, uscì l’8 giugno 1985. Negli Stati Uniti la crisi economica e l’11 settembre erano lontanissimi, il sole pareva riverberarsi sui Ray-Ban di una generazione intera. Quel libro è considerato da alcuni un classico della letteratura e da altri un romanzo sopravvalutato. Di certo, chi lo lesse all’epoca ne restò segnato e, da allora, le influenze di Ellis sono state rintracciate ovunque. Più che una scuola, però, Ellis creò un grande vuoto intorno al suo stile. Tanti imitatori, nessun discendente.

A trent’anni di distanza è il momento per chiedersi se quel libro raccontò davvero solo gli anni Ottanta e soltanto una generazione perduta o se invece, come capita ad alcuni libri immortali, fu in grado di cogliere paure e illusioni di ogni essere umano. Nel raccontare i desideri irregolari e lo smarrimento di ragazzi abbronzati che camminavano lungo l’abisso della California, Ellis fu probabilmente «il più bravo di tutti». Che effetto fa riaprire oggi quel testo? È invecchiato bene o è datato? Ecco Meno di zero raccontato da chi lo tradusse (Durante, Culicchia), da chi lo lesse, da giornalisti e scrittori. Alcuni nel 1985 non erano ancora nati. Altri erano già editor (come Severino Cesari) e oggi dicono: «Altro che minimalismo».

 

Incontrare Meno di zero

Mi sa che mi fece male Meno di zero, più di quanto mi fece male American Psycho. Forse perché mi pareva che prima o poi avremmo smesso di comprare vestiti e anche di uccidere fidanzate con la motosega, ma più difficilmente saremmo usciti da quel pantano di insensatezza. (Elena Stancanelli)

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La prima copertina dell’edizione Usa

Avevo ventidue anni quando lo lessi. Lo comprai appena uscì in Italia, nell’ottobre dell’86, per Tullio Pironti Editore, con la traduzione di Francesco Durante. Era un libretto rilegato, con la copertina vagamente pollockiana su cui campeggiava il titolo e un paio di Wayfarer con una lente rossa e una blu. Se ne era letto molto sui giornali; il nuovo “giovane Holden”, il “romanzo d’una generazione”. Mi garbò fin dalla prima pagina, moltissimo. Ancor più e ancor prima d’un’opera letteraria mi parve un luogo, quel libro. (Edoardo Nesi)

Disappear Here, sparire qui, ripete il romanzo, con ossessione. Non altrove, proprio qui, rivelando di essere la cronaca giornalistica di una sparizione, di un necessario stilizzato denudarsi, unico modo per rimanere strategicamente al centro dell’attenzione. Grande tecnica, nello stile di Meno di zero. (Severino Cesari)

È un romanzo destinato a rimanere perché con American Psycho racconta come pochi altri gli anni Ottanta, e lo fa con uno stile che a distanza di trent’anni continua a meravigliare e a disturbare. La meraviglia deriva dalla capacità di Ellis di restituire alla perfezione un mondo e le voci dei personaggi che lo popolano. E il disagio, l’inquietudine provocati dalla storia di Clay e dei suoi amici nella Los Angeles cantata dagli X rimane invariato. (Giuseppe Culicchia)

Per me è un romanzo sopravvalutato. Ha il grande pregio di aver puntato lo sguardo su come stesse crescendo una generazione americana, spesso insospettabile e in qualche modo decisiva. Questo cambio di percezione l’ha eletto a manifesto di quel cambiamento. Ma il libro in sé non mi ha mai entusiasmato, anche se amo molto Bret Easton Ellis. (Marco Missiroli)

È e resta un libro straordinario, sexy, elettrico, magnificamente poser, camp, sguaiato e perfetto; con la playlist incorporata come il Tumblr di un adolescente; con alcune frasi, ok, anche loro degne del Tumblr di un adolescente, ma più che altro con dei passaggi di un virtuosismo stilistico assoluto. È il libro di chi è il più bravo della classe e fa di tutto per nascondere la fatica per esserlo, o almeno è il più bravo a nasconderla, quella fatica. (Francesco Guglieri)

L’ho letto appena uscito in Italia, il primo colpo di genio di Pironti Editore (il secondo, l’anno dopo, Rumore bianco di DeLillo). Era la fine degli anni Ottanta, ero ancora all’università. Ricordo la scossa, sin dalle prime pagine. Quella totale assenza di commento, quel presente continuo che affondava il coltello con freddezza assoluta. Investi un coyote, lo osservi mentre si contorce in agonia con le zampe spappolate, poi vai a casa e ti guardi la tua serie preferita. Coltellate senza didascalie, nessuno lo aveva fatto prima. (Mauro Covacich)

Capisco il peso specifico che ha avuto per una generazione che aveva bisogno di veder specchiato il proprio disagio, ma da sempre non mi ritrovo in tutto ciò che si collettivizza, che diventa di portata generazionale. Bret Easton Ellis era “anti” non per posa stilistica ma per genuina natura, però ogni “anti”, se ampiamente condiviso e pluralizzato (e trasmigrato ad altri suoi libri) si spersonalizza, scolorisce, perde volume e contundenza. (Viola Di Grado)

All’epoca potrei averlo preso in biblioteca a Bologna (inverno ‘87-‘88 direi, mio primo anno di università) o era uno di quei libri che giravano per le case di amici studenti. (Silvia Ballestra)

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La cover dell’edizione olandese

Rinvigorito e affascinato da American Psycho e convinto che fosse lo “scrittore cool” per eccellenza, comprai subito dopo The Informers (che rimane la sua opera migliore, secondo me), The Rules of Attraction, e Less Than Zero. Lo lessi in inglese, per primo, subito dopo i deliri di Patrick Bateman. Mi ricordo che mi colpì in modo diverso da American Psycho. Era così… economico, mi viene da dire. Otteneva così tanto, con così poco. Mi ricordo che dopo averlo finito avevo scritto Disappear Here sul mio zaino. (Tim Small)

Se lo avessi letto prima lo avrei apprezzato di più, se fossi nato prima lo avrei adorato. E capisco per come molti nati prima degli anni Ottanta possa essere stato sorprendente trovarsi in mano questo elenco di vuotezze morali e prodotti per riempirle. Io non ne sono stato colpito, pur riconoscendoci uno stile e un mondo, non ci ho visto niente di nuovo che non avessi già digerito, e invidio chi – per motivi puramente generazionali – ne è stato sorpreso. (Giulio Silvano)

Tullio Pironti riuscì ad accaparrarsi i diritti del romanzo seguendo un suggerimento di Fernanda Pivano. Riuscì a battere nel corso di un’asta la concorrenza di Mondadori. Io non avevo mai tradotto nulla. Ma accettai di buon grado la sfida. Non fu facile. Ellis adoperava un sacco di parole e costruzioni impastate di slang giovanile californiano. Corsi ai ripari trovandomi una conoscenza losangelina che sapeva qualcosa del modo di parlare delle Valley girls. La traduzione venne bene, Pier Vittorio Tondelli la apprezzò molto, e quando Mondadori gli affidò la direzione della collana dell’Ottagono mi chiamò per chiedermi di tradurre Sogni di Bunker Hill di John Fante. La mia traduzione non è stata adoperata per la versione tascabile Einaudi, perché Pironti non gliela volle cedere. Pironti tardivamente si pentì, tant’è vero che nel catalogo Einaudi c’è il secondo romanzo di Ellis, Le regole dell’attrazione, con la mia traduzione. (Francesco Durante)

 

Vite che non sono la nostra

In quel 1985 non ci poteva essere nulla di più diverso da me di Clay e dei suoi amici giovani, carini e drogati. L’unico punto in contatto era l’età: avevo allora vent’anni, uno in meno di Ellis. Vivevo una vita agli antipodi di quella “Generazione Mtv”, che passava le giornate tra champagne e anoressia, Jacuzzi e cocaina, Cadillac decappottabili e promiscuità sessuale. (Alessandro Trocino)

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Einaudi tascabili

A quindici anni la mia vita non poteva essere più lontana da quella di Clay; ho riletto Meno di zero a venticinque anni e la mia vita non può essere più lontana da quella di Clay: non sono mai stata in California e Palm Springs per me è una città che potrebbe esistere anche solo nell’immaginazione di Ellis. Ma io e Clay continuiamo ad avere un sacco di cose in comune: perché per tutto il romanzo, il protagonista rimane sempre un personaggio reale. (Natalia La Terza)

L’ho letto dopo American Psycho, quindi negli anni Novanta, quindi tardi, tardissimo rispetto a tutti. Per puro snobismo. E perché ho in uggia i romanzi che parlano di ragazzi che vanno alle feste, e anche un po’ quelli ambientati in California. (Elena Stancanelli)

Era il luogo dove volevo vivere io: tra feste meravigliose e amicizie dissolute, negli eccessi, e riservarmi il diritto di non divertirmi mai, come Clay e i suoi amici, sempre annoiati. (Edoardo Nesi)

Il libro mi diede un fastidio dell’anima, perché io tutte quelle cose lì non le facevo, forse perché non volevo, forse perché non potevo. Però scorreva veloce, ricordo che si sovrapponevano immagini, situazioni, anche ripetitive, soprattutto ripetitive, con piccole variazioni. Come un video di Mtv viene da pensare, ovvio. Ma è proprio così. Ipnotico. Ricordo una frase che credevo di essermi segnato. Riguardava la paura di buttarsi. (Luca Mastrantonio)

«Penso alla gente che ha paura di buttarsi, e alla piscina di notte» è una bellissima frase. (Valeria Parrella)

Io per anni ho avuto paura di buttarmi. Poi ho smesso, perché ho iniziato a stancarmi di quella paura. Anche perché il rischio è buttarsi via. Però la storia dell’ultima generazione perduta di cui parla Fernanda Pivano non mi convince del tutto. Perché non è l’ultima, certo, ma poi mi sembra più che altro una generazione buttata via. Anche se si è divertita più di quella che è venuta dopo, cioè la mia, dei nati tra i ‘70 e gli ‘80. E la mia ansia è diversa da quell’ansia sotto zero. Forse perché non prendo ansiolitici? Ora che ci ripenso fu un libro ansiolitico, per me. Mi dissi: vabbè, ma io questa roba non la voglio. Forse. (Luca Mastrantonio)

La cosa più spiazzante per me è l’assenza del sacro. L’unica cosa che occhieggia è quel sacerdote dalla tv ma ridicolizzato. L’uso lisergico sì, è sacro, ma intendo il sacro che salva o ispira salvezza. La religione – vogliamo chiamarla così? – è del tutto assente. Rispetto a questo la dissoluzione personale o famigliare è nulla. (Valeria Parrella)

 

Impressioni di lettura

Mi ricordo che non avevo mai provato così tanti formicolii sulla nuca mentre leggevo, mi ricordo che lo leggevo alla fermata del tram, che l’ho divorato, che quando l’ho finito l’ho subito ricominciato, mi ricordo che mi ha fatto provare quella strana sensazione di uncanny, quella sensazione che ti fanno provare i libri potenti, cioè quella sensazione che ti sta cambiando il mondo attorno, anche quello reale, fisico, come se il libro ti avesse spostato la fonte di luce sulle cose, anche solo di qualche centimetro. (Tim Small)

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Meno di zero in Russia, grafica sobria

Mi piacque, anche se amai di più Le Mille Luci di New York di Jay McInerney. L’impressione che mi fecero allora, quei romanzi di una nuova generazione perduta, fu di un’identificazione violenta. Una rabbia afona. Dietro le strisce di coca che non mi sono fatto e gli eccessi che non ho vissuto, c’era un vuoto – di parole, di sentimenti – nel quale mi potevo specchiare. (Alessandro Trocino)

Non era uno dei miei preferiti, fra quelli dei cosiddetti “minimalisti”: Scimmie di Susan Minot, Tutto da sola di Lorrie Moore, Ballo di famiglia di David Leavitt e anche Schiavi di New York di Tama Janowitz e Ragioni per vivere di Amy Hempel fino al McInerney con le sue Mille luci di New York (quello sì riletto più volte negli anni). Meno di zero, per quanto mi riguarda, non era il massimo. I protagonisti erano antipaticissimi e quel mondo troppo distante, gelido e plastificato. I patemi dei figlioli dei ricchi americani mi interessavano ben poco: all’epoca si stava traducendo tutto Carver e quello sì che era uno scrittore grande e con storie immortali. (Silvia Ballestra)

Già nel suo romanzo d’esordio l’autore mostra di padroneggiare la scrittura in modo impressionante per un esordiente, e si scorgono i primi segnali di quell’ambiguità destinata a diventare il suo marchio di fabbrica. Nulla è vero e tutto è possibile nei libri di Ellis, eppure tutto suona cosi vero da non sembrare possibile. (Giuseppe Culicchia)

I corsivi sono quasi commoventi. È una sorta di upgrade del Grande Gatsby ma nel senso consumistico: avendo gli stessi scenari e gli stessi soldi cosa sarebbe accaduto? (Valeria Parrella)

Ricordate quando Blair si avvicina a Clay «con un gin tonic in una mano e una birra nell’altra» e, dopo avergli chiesto se ha «gli occhiali storti», che nel suo mondo vuol dire tanto, gli mette una mano sulla gamba, sussurrando all’orecchio qualcosa su Daniel? Bene, Bret Easton Ellis lascia passare otto righe prima di far dire a Clay, che narra in prima persona, che lui è «un po’ eccitato dal sussurro di Blair e da quella mano guantata sulla gamba», rivelandoci così, con naturalezza, molte cose. La sua eccitazione prima di tutto: del tutto erotica, nulla di amoroso. Poi, che la mano di Blair sulla sua gamba è guantata: segnale erotico e insieme di luogo, di appartenenza sociale, che il narratore si è guardato bene dallo sprecare otto righe sopra, sia per l’effetto erotico che voleva ottenere, tanto maggiore adesso, sia perché per il personaggio, Clay, è evidentemente abituale vedere Blair indossare i guanti nel caldo di L.A. Del resto, non era stato influenzato da Joan Didion, il giovanissimo Bret, non aveva riscritto due volte il suo romanzo di esordio? (Severino Cesari)

 

Trent’anni dopo

Riaprirlo oggi mi dà l’impressione di quelle foto ben fatte che racchiudono un’epoca, ma che faticano a trovare un ponte naturale con la nostra, di adesso. (Marco Missiroli)

Non è datato. Mi piace sentire che ciò che ci sembrava nuovo è vecchio, le marche, i videogame. Siamo uguali a quelli là. Meno soldi, io niente coca. Mi pare che il romanzo mi tenga nella sua età, sia del protagonista che dell’epoca. Se non fosse per i tempi di recupero forse davvero avremmo sempre tutti quell’età. (Valeria Parrella)

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Tullio Pironti Editore, la “prima” italiana

Oggi è un po’ invecchiato, certo, fors’anche perché ha fatto da pietra di paragone per troppi anni a tanti romanzi incapaci di raccontare quella stessa magia ma, del resto, siamo invecchiati anche noi. A mia figlia Angelica, che l’ha letto quest’inverno, è piaciuto molto, però. Così tanto da spingerla a leggere anche American Psycho. Speriamo bene. (Edoardo Nesi)

Lo apro oggi e non mi sembra invecchiato per niente, anche grazie alla traduzione perfetta di Marisa Caramella. Trovo un orecchio in una pagina e vado a veder che cosa avessi scelto di evidenziare. È la scena in cui Clay si sveglia accanto a Griffin, si infila le mutande, e i pantaloni, vede passare la cameriera in vestaglia blu e bigodini ed esce. Monta in macchina, si fa un tiro di coca sul cassetto del cruscotto e parte. Al semaforo, si accorge di avere dimenticato la sciarpa a casa di Griffin. Perché avevo segnato proprio questa scena? Forse perché dimenticare una sciarpa da qualche parte era l’unico gesto che riuscivo a capire, decifrare? (Elena Stancanelli)

Oggi riapro quel libro per rinfrescarmi le idee: voglio leggerne solo qualche pagina e mi ritrovo a finirlo. Mi rendo conto di alcune cose che, la prima volta che lo lessi, una quindicina di anni fa, non potevo sapere. Certo, Klay è sempre uno splendido Holden cocainomane e bisessuale, ma quello che adesso vedo è quanta Joan Didion ci sia nel giro di frase, nella sintassi. E nell’immaginario, nello stile. A volte quasi letteralmente: solo nelle prime tre pagine ci sono tre accenni al vento caldo di Los Angeles (pensate alle pagine sul Santa Ana in Slouching towards Bethlehem). Ecco, quello che la prima volta non avevo capito era quanta della sua forza e della sua modernità, della sua elegante sprezzatura, gli venisse dalla non-fiction. (Francesco Guglieri)

Credo di non aver mai riaperto Meno di zero, anzi penso di non averlo neanche. (Silvia Ballestra)

A rileggerlo ora, lo stile minimalista ha perso un po’ di quella forza dirompente, di chi aveva amato Hemingway e Carver. Ma restano intatti la vitalità espressiva, lo spaesamento di fronte al mondo, un cinismo che era disperazione esistenziale e critica sociale. (Alessandro Trocino)

Bisognerebbe rileggere Meno di zero per sorprendersi di come trent’anni fa un ventunenne americano abbia scritto meno di duecento pagine che per forma e contenuto – per la grazia delle parole, la vulnerabilità messa a nudo, il talento che trabocca, per l’illusione che ci dà, di poter scrivere sempre la stessa storia in mille modi diversi e ogni volta renderla unica – sono più moderne della metà dei libri che si scrivono oggi. (Natalia La Terza)

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Trent’anni dopo, questa preziosa prima persona, che è insieme autobiografia perfino autoidolatrica, maschera, consapevolezza, stile, tecnica, senso giornalistico del dettaglio e della notizia, alto artigianato, pazienza e perché no tanto narcisismo, questa composita, complessa, fintamente semplice e naturale prima persona è tuttora e sempre preziosa per chi scrive, e in questa forma credo sia nata proprio lì. Proprio la paura, il misterioso terrore di un dio ignoto che si stava avvicinando, mi sembrò la nota più struggente di Meno di zero, coyote scambiati a prima vista per strani cani, e snuff movies, cadaveri nei vicoli, sconosciuti fuori di casa nella notte, e forse stanotte la casa scivola nel burrone, forse domani proprio non c’è più casa, non c’è protezione: altro che minimalismo. (Severino Cesari)

 

L’eredità

Quanto alla fortuna di Meno di zero, penso che, fra quelli che all’epoca venivano etichettati come postminimalisti, Ellis fosse di gran lunga il più importante, e si è visto negli anni successivi quanto valesse Leavitt, per dire, e quanto Ellis. Come tutti i grandi innovatori, Ellis ha avuto effetti molto positivi da un lato e molto negativi dall’altro. I negativi: ha convinto una folla di aspiranti scrittori che bastasse scimmiottare un videoclip, oppure nominare un sacco di marche di vestiti e simili per fare dell’apprezzabile letteratura generazionale che invece è, in genere, una vera schifezza (in Italia, per dire, un ellisiano della prima ora fu Gaetano Cappelli, che poi per sua e nostra fortuna cambiò strada diventando l’amabile romanziere che è). Il fatto positivo è che Meno di zero è un libro innovativo, di rottura, che da subito si candidò a essere un modello. Non era chissà che, in fondo: però se uno legge Glamorama e i successivi si rende conto del fatto che Ellis è davvero bravo, secondo me, anzi, il più bravo (anche dei più giovani scrittori venuti dopo, tipo Foster Wallace). (Francesco Durante)

Quanto all’influenza sulla narrativa italiana, direi dunque che lo vedo messo accanto agli altri della sua generazione come parte di una bella spinta arrivata in quegli anni dagli States come possibilità, come aria sicuramente fresca che riguardava i più giovani (scuole di scrittura, scouting, antologie di esordienti: il periodo era quello). Di certo aveva un titolo forte che, più di quelli dei suoi colleghi, sarà servito appunto a circoscrivere la tendenza, il movimento e la generazione, insomma buono per i titoli dei giornali e le etichette. Comunque Ellis era uno dei più corteggiati dai giornali per la sua sfrontatezza, la mondanità e tutta quella roba che funziona in superficie. Polemiche, pettegolezzi ecc. Stiamo parlando di pieni anni Ottanta. Ricordo che mi colpì di più il suo secondo libro, Le regole dell’attrazione, che aveva una struttura un po’ più robusta. E più tardi, naturalmente, American Psycho. (Silvia Ballestra)

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Tascabile tedesco

È stato imitato da un’intera generazione, non solo nella narrativa, anche in certo giornalismo contundente (pensiamo a cos’è stato il politicamente scorretto negli ultimi vent’anni, a come ha perso la sua funzione decostruttiva per diventare in fretta una posa estetizzante). Nonostante tutto, credo che anche il lettore di oggi possa accorgersi della superiorità dell’originale. La brutale purezza di quel nichilismo al Valium o alla Torazina. (Mauro Covacich)

Che dietro tanto e ben lavorato stile – forse l’eredità maggiore di quel libro, per cui da quel momento non fu più possibile, alla lettera, scrivere in modo consapevole senza tener conto di Less than Zero, ci fosse davvero il genuino terrore per una inevitabile caduta, perdita, scomparsa a venire, forse furono le Torri Gemelle a spiegarcelo bene, dopo. (Severino Cesari)

 

Fine

Fa una volata verso la fine. A volte i giovani la fanno. È la stessa cosa che dice Proust di Flaubert. Sembra un foglio che si accartoccia, questo romanzo. (Valeria Parrella)