Attualità

Elogio del portinaio ai tempi di Amazon

Lamento per la scomparsa dei custodi di una volta, quelli raccontati da Gadda e Simenon. Non è passatismo: chi li ritira i pacchi ordinati online?

di Arianna Giorgia Bonazzi

Meno male che non mi sono mai decisa a abbonarmi al co-working, perché oggi, come la maggior parte dei giorni, mi fermo a scrivere in casa, in attesa che mi consegnino un pacco. In passato, l’ho chiesto alla pizzeria dirimpetto, ma l’ultima volta hanno dimenticato di avvisarmi del ritiro, e ho ritrovato la merce mesi dopo aver denunciato lo smarrimento al corriere di Amazon. L’ho chiesto anche al negozietto di alimentari, ma non è esattamente carino appoggiarsi a loro quando aspetti le verdure di Cortilia.

Nell’umido androne che immette alla corte di ringhiera dove affaccio, c’è la porticina murata che un tempo, molto prima che mi trasferissi qui, ospitava il bugigattolo del custode. Mi rimanda alla fantasmagorica genìa delle portinaie della casa al mare, un catalogo completo di tutte le varietà umane tipicamente associate a quel ruolo: la grassona coi baffetti neri e il marito tuttofare; la giovane mamma amante di mocio e profumante l’atrio di fritti e torte; la cattivissima gattàra con le veneziane semichiuse e la tendenza a chiamare compulsivamente i carabinieri; la mitomane attacca-bottone che spingeva gli abitanti del pianoterra a rientrare in casa dalla finestra, pur di evitarla. Tutte, comunque, con un pezzettino di Dna della sfuggente portinaia dei gialli di Simenon, con qualcosa nel sangue della sora Manuela Pettacchioni del Pasticciaccio brutto di Gadda, e un pizzico dell’astuzia e voglia di riscatto sociale della Madame Cibot di Balzac: tutte depositarie di storie e di segreti da poter scagionare, condannare, e mistificare attraverso il pettegolezzo le vite degli inquilini veri o immaginari.

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L’attuale custode, invece, manda via Messanger il conto delle pulizie extra (come il geniale e futile lavaggio terrazzi con l’idropulitore), e la cabina telefonica da cui parlavo coi fidanzatini negli anni Novanta è stata murata. Sulla mia stessa onda nostalgica, pochi anni fa i giornali piangevano la chiusura progressiva delle mitiche conciergerie parigine, depositarie di tanta narrativa da sottoscala, fucine di tanta commedia umana. Giuseppe Marcenaro, in un articolo uscito nel 2012 sul Venerdì in morte al concierge, cita Céline, a proposito di Manhattan: «Una città senza portinai è una zuppa senza pepe né sale, una ratatouille amorfa».

Anche a Milano, negli ultimi anni, con la diffusione dei videocitofoni e della pratica di appaltare le pulizie ad esterni, il portinaio è diventato un lavoro part-time, concetto quanto più possibile lontano da questo mestiere totale, come ci ricordano ogni giorno i moribondi e angusti appartamenti (o meglio appostamenti), che l’architettura di fine Ottocento e primi Novecento prevedeva affacciati negli androni. Circa dieci anni fa, quando frequentavo la scuola di scrittura creativa, un professore consigliò a noi aspiranti scrivani di trovarsi uno di questi lavori: l’investigatore privato o il portiere di notte; spettatori, da diverse prospettive, delle torbidezze occulte del quotidiano. Qualche fuorisede particolarmente curioso o spiantato seguì il consiglio: al mattino aveva troppo sonno per frequentare le lezioni, ma la notte si lasciava ispirare da quell’andirivieni carico di mistero.

Allora, piangiamoli i custodi; non con lo spirito passatista, bensì per reinventarne la funzione lavorativa, sociale e narrativa.

Pochi mesi fa, leggevo che alcuni bar-tabacchi in fallimento si offrono di fare da ritiro pacchi per i palazzi di zona sforniti del servizio. Intanto, osservo la famiglia a me ormai fraterna dei corrieri sudamericani di Amazon creare una rete di tacite intese con complici negozianti e sedentari vicini di casa, sempre pronti a tendere una mano per falsificare la firma del destinatario assente, e ad ospitare per qualche ora il piccolo involto bramato dall’e-shopper. Sui campanelli, compaiono (assurdi, in mezzo alla digitalizzazione generale) i post-it gialli che chiedono di “suonare Reyes per il pacco di Consoli”, sempre sperando che la pioggia non lavi via la segnaletica. Allora, piangiamoli i custodi; ma non con lo spirito passatista con cui si rimpiangono l’acquaiolo o il lustrascarpe, in una società che ha superato il bisogno dei loro ruoli, bensì per reinventarne la funzione, sia lavorativa, che sociale e narrativa.

A quest’ultima, ci ha già pensato Muriel Barbery, col best-seller del 2006 L’eleganza del riccio, dove lo stereotipo della bignole grassa, coi calli e l’alitosi è confermato dalla descrizione fisica di Renée Michel, ma ribaltato dalla sua identità segreta di inedita pipelette erudita. Perché «da qualche parte sta scritto che le portinaie sono vecchie, brutte e bisbetiche [..] guardano ininterrottamente la televisione mentre i loro gatti sonnecchiano, e che l’atrio del palazzo deve olezzare di zuppa di cavolo» e «siccome non è molto frequente che dalla sua guardiola escano le note di Mahler […]», la protagonista ascolta musica e legge libri di nascosto.

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Intanto, nella nostra realtà urbana, i custodi stanno ricomparendo in nuove vesti e forme. Non sono più là per ordinare provvidamente la bombola del gas, spiare e smistare cartoline nelle buche, sorridere al dottore, o dar lustro al palazzo, ma sono indispensabili per una fluida accoglienze a libri, abiti, alimenti, articoli che ogni giorno attraversano la città per raggiungere persone sedute alle loro scrivanie a sfogliare cataloghi lontani, e a ridere da soli di battute in differita. Ogni tanto, queste persone abituate a desiderare a distanza, però, hanno ancora bisogni senza tempo come canarini da nutrire e piante da innaffiare d’estate, o semplicemente figli da far giocare in cortile.

Interviene qui una nuova funzione sociale, individuata da Repubblica in un articolo dedicato al silenzioso ritorno dei custodi: quella di integrazione delle nuove generazioni. Non c’è più la Sora Manuela di Gadda, rappresentata nel suo ruolo sociale dal dialetto romano che la vuole «tutta de prescia, smovenno er culo come una quaja». Ci sono, invece, nuovi odori speziati, diversi dal cavolo pungente, che si spandono negli androni dei nostri palazzi. Nuove cadenze ispaniche o cingalesi, che modulano l’avviso urlato di non camminare sulla scala bagnata. Sulle televisioni in guardiola, stanno pope ortodossi elargenti benedizioni, e dalle radioline, nell’ora della siesta, salgono nenie arabeggianti. Sul cemento o sul prato comune, sotto l’occhio insondabile e bonario dei nuovi portinai immigrati, i nostri figli e i loro si amalgamano tra babeli di filastrocche, universali palle che volano e spinner che ruotano. Aspettano, col fare sommesso delle mute comparse di una commedia, di essere ringraziati per quel pacco Dhl e, poi, magari, raccontati.

Foto di Ilaria Orsini: le immagini sono state pubblicate in un più ampio portfolio, curato da Anticamera Location, sul numero 23 di Studio, primavera 2015