Attualità

Il sentimento di Milano

Passeggiare sul cemento ammorbidito dall'afa, in una Milano estiva «più amica, più umana, più romantica», come Lucio Battisti la definiva nel 1969.

di Giulia Cavaliere

 
Continua la serie sulle città d’estate che sarà pubblicata lungo tutto il mese d’agosto sul nostro sito e che, oltre a Milano, toccherà a Napoli e Torino. Qui la prima puntata, Roma.

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La prima volta che sono entrata in contatto con l’estate a Milano era l’agosto del 2006. Occupavo con un sentimento tra l’imbarazzato e l’eccitato la casa dei genitori in vacanza del mio fidanzato di allora. Stavamo lì per via di quel lusso a sedici lettere che risponde al nome di aria condizionata e mentre lui lavorava di giorno io, studentessa di 21 anni con la sessione d’esami finita da poco, me ne giravo in mutande per la casa, navigavo annoiata su Internet, leggevo poesie, monografie di registi inglesi e guardavo i film orientali in dvd che ogni sera lui mi consigliava per il giorno dopo. Ricordo ad esempio distintamente la sensazione del divano in pelle nera che si appiccicava sempre di più alle mie gambe mentre sulla grande tv a cristalli liquidi scorrevano le immagini de Il gusto dell’anguria di Tsai Ming-liang.

Uscivo a fare piccole spese raggiungendo a piedi un enorme famoso supermercato di Milano sud, tracciavo strade a tappe nelle passeggiate intorno al condominio imparando coi miei occhi i nomi delle vie che fin dalle nostre prime telefonate lui mi aveva elencato con quella naturalezza inclusiva e amorevole di chi ti vuole da subito nella propria vita (e quindi nelle proprie strade). Mi immergevo nell’afa e nel luccichio delle lamiere brillanti delle automobili parcheggiate sotto la luce del primo pomeriggio, da sola, sentendo i miei sandali e le mie scarpe da ginnastica con la suola bassissima affondare lievemente nel cemento ammorbidito dal sole delle 14, osservando i passanti stancati dal sudore, capaci di creare una confidenza con la città corrispondente all’intimità che nasce tra due persone che si conoscono in un momento difficile: proprio così mi pareva che Milano conoscesse i suoi abitanti appiccicosi e fradici e che loro, trovandosi in pochi dopo le massicce partenze agostane, finalmente conoscessero un po’ di lei.

Una sera verso le sette me ne stavo affacciata al balcone e alzando la testa, dal quarto piano in cui mi trovavo, ho visto in lontananza il cielo rosso del tramonto pieno di gru, i balconi e le finestre vicini delle case di fronte con l’arancio del cielo riflesso dentro. Ricordo una sensazione irripetuta e totalizzante, fisica, appassionata di fronte a enormi palazzi gialli in costruzione e un momento di tensione assoluta pari a quella che si prova di fronte alle manifestazioni naturali più estreme o all’inevitabilità della Storia: insomma, un puro sentimento romantico.

Sento nuovamente le mie suole affondare nella stessa terra calda, vedo gli stessi bar e a volte noto gli stessi baristi

A distanza di poco meno di dieci anni mi ritrovo per ragioni lavorative a percorrere quelle stesse vie ogni giorno, più o meno sempre agli stessi orari: sento nuovamente le mie suole affondare nella stessa terra calda, vedo gli stessi bar e a volte noto gli stessi baristi di allora ancora in servizio, intenti ad asciugarsi la fronte già la mattina presto mentre i fattorini portano scatoloni nel punto vendita in versione express del Carrefour, che oggi sostituisce quello che nel 2006 era un punto vendita di Blockbuster.

Nell’arco di dieci anni l’estate milanese è stata ogni anno la mia unica costante, una breve fase storica della mia vita che, senza curarsi di ogni evoluzione o semplice cambiamento ha continuato a presentarsi identica allo scadere della mia primavera. “Com’è bella Milano d’estate”, lo sento dire ormai da chiunque come un loop stagionale impazzito in grado di sottolineare che è quando Milano si svuota progressivamente che diventa più bella e che quindi, per i cittadini milanesi, sono i vicini il problema, non certo la città. Ma pensare che Milano si svuoti davvero d’estate è un errore e lo è ogni anno di più, un errore che supera le mere questioni economiche, la crisi, i soldi contati per non andare in vacanza. La frenetica e matta Milano non si svuota mai davvero, ma quando arriva il caldo si guarda allo specchio, si slaccia la camicia e lascia da parte la cravatta, ricalibra le proprie pressioni e le ossessioni estetiche, le imposizioni fredde che dalle fredde stagioni si originano ogni anno.

Milanesi di nascita, pendolari come me che allungano di frequente la permanenza in città, cittadini acquisiti che vorrebbero presto rivedere le loro città natali, o al contrario sfuggono da loro anche in piena estate, sostano la sera sulle selle delle biciclette o seduti nei bar, stanchi, avvolti in una temperatura che per qualche oscuro e terrificante incantesimo della natura matrigna non è cambiata dalle 16 del pomeriggio; stanno agli angoli delle strade, fuori da pub dalle insegne anonime nelle vie nascoste dietro viale Abruzzi, nei locali dell’Isola che non vedevano l’ora di esplodere, accanto al baracchino delle salamelle che resta aperto tutto l’anno a trenta metri da Eataly e solo cinquanta dai ristorantoni di corso Garibaldi.

L’estate a Milano inizia sempre come uno stato di prigionia da cui sfuggire è impossibile

Sembra che proprio per le strade abitate dell’estate in città si respiri l’aria di una spossatezza estrema, data dall’anno che sta finendo, sia stato esso lavorativo, disoccupato o a partite iva. Ma sembra poi che nello stesso momento quell’aria sfatta sprigioni una qualche forma di autentica forza, di spirito comunitario che finalmente stringe la ragnatela crudele e bellissima di Milano. Se sul Naviglio Grande, dalla porta spalancata di una tabaccheria storica che di Darsene vecchie e nuove sembra già averne viste molte, esce un classico Lato A di Edoardo Vianello, si frantuma allora l’ansia di scappare via e il pensiero della vacanza prenotata in Islanda, a Berlino, in Salento per una delle settimane in arrivo. Una cosa, infatti, va detta: l’estate a Milano inizia sempre come uno stato di prigionia da cui sfuggire è impossibile, una necessità da cui si deve passare in modo forzato in attesa della vacanza vera, qualcosa che non si desidera ma finisce sempre per trasformarsi in un passaggio necessario a costruire il ricordo futuro dell’estate finita.

Dunque l’estate smette di essere quella in cui scappiamo lontano per diventare quella in cui viviamo la stagione cercando di mantenere le nostre abitudini (lavoro, figli, impegni obbligati di varia natura) finendo inevitabilmente a condurre le giornate in uno stato di alterazione continua, come drogati dal calore da cui non possiamo sottrarci, dall’aria condizionata dei negozi, dai tram coi finestrini abbassati da cui entra aria calda mentre intravediamo uomini addormentati sui balconi delle case popolari.

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L’estate in città è iperabitudine e dunque diventa ossessiva nelle stesse stanze in cui l’inverno sembrava non finire mai offrendo la speranza della vacanza come atto liberatorio. Allo stesso modo iperossessive diventano pure le occupazioni con le quali entriamo in contatto. Per quanto mi riguarda negli ultimi anni queste ossessioni sono state il sunshine pop, ogni fotogramma in loop per giorni interi di ogni parola registrata in video da ogni singolo componente dei Beatles e poi un evergreen: il cinema italiano degli anni ’60 in cui l’estate è la protagonista: da La cotta di Ermanno Olmi a Estate violenta di Valerio Zurlini.

L’ossessione che mi accompagna in questa estate milanese anno solare 2015, tra giri serali da sud a nord della città, Summer on a solitary beach di Franco Battiato che mi rimbomba nei Campari soda, concerti bellissimi ai quali scelgo di non partecipare e lavori che non danno tregua, è la lettura di ogni intervista rilasciata da Lucio Battisti. Godo quotidianamente della mia personale apertura dell’archivio di uno degli artisti italiani più schivi di sempre: scopro chi era la Linda di Balla Linda, di quando suo padre gli spaccò una chitarra classica in testa e della notte che ispirò a Mogol la nascita di Acqua azzurra, acqua chiara. Se mi innamoro di un articolo telefono alle biblioteche rionali milanesi e cerco di reperirlo, parlo con un infinito numero di signore che mi dicono puntalmente che con questo caldo non ce la fanno più, che non vedono l’ora di tornare in Puglia/Sicilia/Calabria e mi aiutano a capire se il rotocalco che ospita la vecchia intervista è o meno reperibile.

BOLERO3-1Ho scoperto dunque un pezzo pubblicato dal settimanale di gossip, tv e fotoromanzi Bolero Teletutto il 17 agosto 1969, qui Battisti è innamorato e fresco di fidanzamento con quella che diventerà sua moglie, Grazia Letizia Veronese e in attesa di tornare con lei nel suo paese natale (Poggio Bustone), nel mese di settembre, trascorre felicemente un’estate a Milano. Il suo posto preferito della città è un piccolo chiosco attrezzato alla vendita di angurie e meloni al centro del Parco Lambro, lo stesso spazio che a partire dal 1974 per tre anni ospiterà il Festival del proletariato giovanile e che progettato con l’intento di offrire alla città uno spazio verde, rigoglioso e ricco di acque, verrà molto presto lasciato a morire di siringhe infilzate nei tronchi per tornare ospitale soltanto alle porte del nuovo millennio. Ma è il 1969 e Parco Lambro ha ancora l’aria di qualcosa di selvaggio, Battisti ama passarci le sue giornate d’agosto: «io mi sistemo qui dietro, proprio accanto alla botte dei cocomeri e controllo quando vengono tagliati. Il più bello e saporito me lo mangio. Me ne sto in questa capanna solo soletto, faccio scorpacciate magnifiche di anguria e melone: uno spasso che, fra l’altro, costa anche poco».

L’articolo, che si dedica poi a percorrere con il cantautore i suoi ultimi successi artistici e sentimentali, è circondato di fotografie che non hanno avuto seconda vita sul web: Battisti che addenta un melone e che se ne sta fermo ad assistere al taglio. Il cantante definisce la Milano estiva «più amica, più umana, più romantica» come se dunque, a distanza di poco meno di quarant’anni dalla mia prima estate in questa città, la percezione di questa confidenza e questo romanticismo estivo tra uomini e città non fosse cambiata. Attratta come un’ape dal miele da queste fotografie di un’Italia perduta mi riconnetto all’oggi pensando che meno perduta, essa mi appare, in questa mia nuova estate romatica, fatta di cornicioni dei palazzi sempre più altri che invadono il blu del cielo, di ventilatori pressoché inutili, di hit scritte da cantanti che, come ogni anno da che sono nata, non sono mai Lucio Battisti e che passano dalle radio di bar e automobili e ammorbidiscono l’afa, rafforzando il sentimento di Milano nella canicola.

 

Tutte le immagini sono tratte da Bolero Teletutto del 17 agosto 1969.