Attualità

Nessuno vuole bere una birra con Hillary

Perché Clinton fa fatica a stare simpatica agli americani? Per qualcuno c'entra la sua appartenenza all'establishment, per altri semplicemente il suo essere donna.

di Anna Momigliano

Un tempo, quando tutto era più semplice, quando non s’era capito bene quale fosse la portata del ciclone Trump, quando un esercito di Millennials bianchi non era ancora stato sedotto da un settantenne del Vermont, un tempo, si diceva, la chiamavano “inevitable Hillary“: Hillary l’inevitabile, quasi la sua nomination democratica, se non addirittura l’elezione alla Casa Bianca, fosse già scritta, una questione d’ineluttabilità storica dalle implicazioni velatamente marxiane. Oggi c’è chi la chiama “unlikeable Hillary”, Hillary l’antipatica. Alcuni con un ghigno compiaciuto, altri sconsolati, spallucce e occhi alzati al cielo, cambia poco: Clinton sta antipatica agli americani, ed è una questione con cui stanno facendo i conti i suoi sostenitori tanto quanto i detrattori.

Secondo l’ultimo sondaggio, pubblicato dal Washington Post il 21 maggio e condotto insieme all’emittente Abc, soltanto il 41 per cento degli elettori statunitensi ha un’opinione positiva dell’ex segretario di Stato, mentre ben il 57 per cento ha di lei un’idea negativa: quanto a impopolarità, Hillary ha raggiunto per la prima volta Donald Trump (in compenso per indice di popolarità è davanti a lui di un misero punto percentuale). A peggiorare le cose, e mentre Hillary non ha ancora vinto la nomination del suo partito, arrivano le prime rilevazioni che simulano le elezioni nazionali; contro ogni previsione dei tempi-in-cui-tutto-sembrava-più-facile, dicono che la battaglia contro Trump sarebbe assai combattuta. Nessuna vittoria “inevitabile”.

Non sono pochi gli analisti che ritengono che il “fattore simpatia” (o la mancanza di) giochi un ruolo importante in questo affaticamento nei sondaggi. Alcuni dicono: è perché è donna, altri che è troppo algida, troppo seria, troppo secchiona. Altri ancora dicono che è troppo establishment. Fatto sta che è una questione che si trascina da anni e che si ripresenta ciclicamente. Fu centrale nelle primarie del 2008, quando Hillary si trovò ad affrontare ad armi impari l’uber-likable Barack Obama: un giornalista le domandò senza mezzi termini «cosa ha da dire agli elettori che apprezzano il suo curriculum ma non riescono a votarla perché la trovano antipatica?», e lei rispose: «Mi ferisce». Obama finse di rincuorarla: «Dai, sei abbastanza simpatica», e quello scambio di battute valse un intero dibattito.

Non è sempre stato così. Ci sono stati momenti, nella sua lunghissima carriera sotto i riflettori, in cui Clinton è stata infatti piuttosto amata. Quando era segretario di Stato (2008-2012) ha avuto un picco di popolarità del 66 per cento; alla conclusione del suo mandato, il suo indice di gradimento era del 65 per cento; ma nell’aprile dello scorso anno, quando ha formalizzato la sua candidatura alle primarie democratiche, era già sceso al 49 per cento. «Ci sono dei paradossi nella sua impopolarità. Uno di questi è che un tempo è stata popolare, ma ora che ha lanciato una campagna da svariati milioni di dollari per fare colpo sul popolo americano comincia a stargli antipatica», ha scritto in un recente editoriale sul New York Times David Brooks.

La tesi di Brooks è che il problema di Hillary starebbe tutto nella sua immagine di «workaholic», una stakanovista senza una vita privata e, di conseguenza, priva di un lato umano: «Sappiamo cosa fa Obama per divertirsi: golf, basket, eccetera. Sappiamo, purtroppo, anche quello che Trump fa nel tempo libero. Però quando la gente parla di Clinton, è sempre solo in termini professionali», scrive. «Come figura pubblica, trasmette una vibrazione esclusivamente professionale: laboriosa, calcolatrice, concentrata sul risultato, diffidente. È difficile farsi un’idea su di lei come persona». La lezione, secondo l’editorialista, è che «anche le personalità di maggior successo hanno bisogno di un rifugio, di uno spazio privato, per essere viste come persone vere. A quanto pare, non ci fidiamo dei candidati che non condividono con noi questi spazi privati».

La reticenza di Hillary a condividere la sua vita privata, insomma il suo lato umano, può spiegare in parte perché fatica a piacere, specie in un contesto, come quello statunitense, dove la personalità di un politico è fondamentale, tanto che spesso i sondaggisti per valutare le chance dei candidati presidenziali pongono la domanda: con quale dei due berresti una birra più volentieri? Difficilmente però si tratta dell’unico fattore.

Hillary Clinton Testifies Before House Select Committee On Benghazi Attacks

Secondo alcuni analisti, infatti, uno dei problemi di Clinton consiste nell’essere “troppo Washington”, un politico di professione, di alto livello e di lungo corso, insomma l’antitesi del candidato di rottura, che è invece la carta che si stanno giocando Trump e Bernie Sanders (Bernie, è vero, è in politica dalla notte dei tempi, ma ha sempre ricoperto ruoli da outsider). E cosa c’è più antipatico di un politico-politico, specie in questi tempi Trump-grillini? «La sua vita pubblica, le cariche che ha ricoperto, fanno di lei una creatura dell’establishment, in una fase storica in cui gli elettori vedono quest’immagine con una profonda antipatia», nota Geff Greenfeld su Politico.

Dunque, lo stakanovismo, con la conseguente immagine algida, e l’effetto-establishment in un clima di antipolitica. C’è però chi sospetta che si sia pure dell’altro, che Hillary sia antipatica anche in quanto donna; e più precisamente, in quanto donna di potere. «Dare la colpa al sessismo è forse un po’ troppo facile, ma ci sono stati casi di misoginia rampante. Clinton è stata attaccata per avere alzato la voce, per non sorridere abbastanza, tutti argomenti che nessuno ha sfoderato contro i candidati maschi» ha scritto Jay Parini sul sito della Cnn. È un tropo ricorrente, quello delle donne di potere che stanno antipatiche, perché il potere è una qualità maschile, e di conseguenza ci sono due pesi e due misure: gli uomini di potere sono “autorevoli”, le donne “autoritarie”; quando un uomo alza la voce è un leader, quando lo fa una donna è un’isterica.

Era la tesi di fondo di Sheryl Sandberg, quando aveva lanciato due anni fa la campagna «ban bossy», in cui invitava genitori ed insegnanti a non sgridare le bambine quando dimostrano un carattere forte: viviamo in una società che tiene in gran conto i valori della leadership, l’affermazione dell’individuo, ma non appena una donna comincia ad assumere toni di comando ci sembra poco elegante e le diamo della prepotente: i maschi sono “capi” le femmine “capetti”. Chi sostiene questa argomentazione, spesso tira in ballo un celebre esperimento di psicologia sociale condotto nel 2003 dalla Harvard Business School: i ricercatori hanno scritto a tavolino la storia di un imprenditore di successo e l’hanno fatta leggere a due gruppi di studenti in due versioni identiche, salvo che per una piccola differenza: nel primo caso l’imprenditore si chiamava Howard, nel secondo Heidi. Alla fine gli studenti provavano simpatia per Howard e non per Heidi; i ricercatori hanno concluso che il successo rendeva gli uomini più simpatici e le donne più antipatiche.

Democratic Presidential Candidate Hillary Clinton Campaigns In Southern California

L’esperimento ha avuto il pregio di portare alla luce un doppio standard inconscio. Il problema però è che oramai ha più di dieci anni e dal 2003 a oggi le attitudini verso le donne in ruoli di potere si è evoluta. Infatti quando un giornalista ha provato a replicare l’esperimento nel 2013, i risultati sono stati molto diversi. La conclusione più plausibile sembra essere che un doppio standard probabilmente esiste ancora, che per una donna riuscire simpatica nonostante la sua posizione di potere è un po’ più difficile che per un uomo, ma che la questione non è determinante come lo era qualche decennio fa.

Proprio confrontando la sua popolarità come capo della diplomazia americana con la sua impopolarità come candidata, la giornalista Sady Doyle ha analizzato l’immagine di Hillary come donna di potere da un angolo interessante, in un pezzo su Quartz. La tesi di Doyle è che la società statunitense non ha più grandi problemi con le donne di successo, ma ha ancora qualche problema con le donne che puntano ad avere successo; da lì, le difficoltà di Hillary in campagna elettorale: «Fare campagna non vuol dire avere successo. Vuol dire chiedere di avere successo, chiedere potere. È dire pubblicamente che sei migliore di altre persone che vogliono lo stesso posto di lavoro che vuoi tu. E questo è un atto in qualche modo trasgressivo per una donna». Doyle sostiene insomma che esiste una doppia morale non quando si tratta di giudicare l’operato femminile una volta ottenuto un lavoro, ma quando si tratta di giudicare la loro ricerca di quel compito.

Nelle immagini: Hillary in campagna in California, dove si vota alle primarie il 7 giugno (Justin Sullivan/Getty Images); durante la commissione su Bengasi nel 2012 (Chip Somodevilla/Getty Images)