Attualità

Sette stranieri nei musei d’Italia

Dirigono Uffizi, Capodimonte, Palazzo Ducale, Brera. Vengono da Francia, Germania, Canada. Li abbiamo intervistati a un anno dal loro insediamento.

di Azzurra Giorgi

L’anno scorso il MiBact ha nominato venti nuovi direttori per i musei italiani. Di questi, sette erano stranieri. Non sono mancate le polemiche, e a un anno di distanza dal loro insediamento gli abbiamo dedicato una serie di ritratti, cercando di capire che cosa hanno fatto e che cosa vorrebbero ancora fare nella loro gestione.

 

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Peter Assmann – Palazzo Ducale, Mantova

Dall’inizio del Trecento fino all’arrivo degli Asburgo nel Settecento, Palazzo Ducale è stata la residenza dei Gonzaga. Nel 1556 il duca Guglielmo ordinò che i vari edifici, da piazza Sordello al lago Inferiore, venissero collegati: così nacque un unico complesso architettonico, che con i suoi 34 mila metri quadri è uno dei più grandi d’Europa.

Peter Assmann 53 anni, austriaco, è arrivato alla direzione del complesso museale di Palazzo Ducale dopo dieci anni di presidenza dell’Associazione musei austriaci e dopo aver curato numerose mostre internazionali. Anche lui, come i suoi colleghi, è stato nominato in un clima di diffidenza, ma non si è mai abbattuto: «Sono uno che veniva dal buio, non ero un amico di un amico di qualcuno di influente, le persone dopo avermi incontrato hanno capito che ho un rapporto d’amore con la cultura italiana in generale e in particolare con Mantova. Capisco l’umore dei mantovani, il loro essere testardi e l’orgoglio di un centro che è stato europeo per almeno duecento anni». La sua filosofia è quella di lavorare in maniera precisa, puntuale per far diventare la città un polo internazionale. Quello che cerca è un cambiamento costruttivo, capace di guardare al futuro prendendo esempio dal passato, quello glorioso dei Gonzaga, che governarono Mantova per quattrocento anni: «Qui Vivaldi ha scritto le Quattro Stagioni e Rubens è diventato famoso, i Gonzaga hanno saputo allontanarsi dall’arte medievale attraverso una cultura legata all’eccellenza del contemporaneo». Per questo ha deciso di far vivere la zona del Palazzo Ducale, che conta mille stanze e bellissimi giardini: «Non è esattamente un museo, quindi va tenuto aperto perché altrimenti anche i restauri diventano inutili». Il suo intento è quello di guardare al lungo periodo, partendo dall’orgoglio di quelli che ci lavorano fino all’attenzione verso i turisti, assicurando «un cambiamento vero che però non mette a rischio niente, ma vuole garantire che le nostre eccellenze, come la Camera degli Sposi, siano sempre visitate».

 

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Cecile Hollberg – Galleria dell’Accademia, Firenze

Fondata dal granduca Pietro Leopoldo di Lorena nel 1784 come luogo di formazione per gli studenti della vicina Accademia delle Belle Arti, la Galleria dell’Accademia venne ampliata durante gli anni di Firenze capitale d’Italia. Nel 1872, poi, fu trasferito lì il David, situato precedentemente all’aperto in Piazza della Signoria.

A Firenze non ci era mai stata, ma l’Italia la conosceva già molto bene Cecilie Hollberg, tedesca, direttrice della Galleria dell’Accademia, cioè nel 2015 il secondo museo italiano più visitato dopo gli Uffizi. «Ho fatto la prima elementare in una scuola vicino a Civitavecchia, poi sono stata in diversi posti, da sud a nord, tra Santa Marinella e Verona, per me è un Paese molto familiare e mi fa un po’ strano sentirmi dire che sono straniera». Non è difficile crederle: l’accento tedesco si sente pochissimo e il suo amore per l’Italia è evidente, così come la sua voglia di valorizzare quello che il suo museo offre, cioè tante collezioni – come la sala del Colosso, la gipsoteca Bartolini o il vicino Museo degli strumenti musicali – che spesso rimangono oscurate dalla grandezza e dalla attrattività del David di Michelangelo, che lo scorso anno è stato visto da quasi un milione e mezzo di persone.  Per lei il cambiamento passa attraverso giornate di studio e una grande mostra temporanea all’anno. In questi giorni, ad esempio, è stata inaugurata un’esibizione su Giovanni dal Ponte, «che ha fatto degli ori fantastici tra il tardo gotico e il Rinascimento, e in cinquecento anni non era mai stato celebrato con una mostra personale», racconta. Una novità che si ripeterà anche nei prossimi anni, e che non ha conosciuto particolari ostacoli: «Avevo sentito dire che i fiorentini erano molto chiusi e inaccessibili, ma forse è soltanto un cliché che può essere superato. La città è un grande museo rinascimentale e sono felice di poter sfruttare questa possibilità unica di cambiare qualcosa nella gestione».

 

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Eike Schmidt – Galleria degli Uffizi, Firenze

Intorno al 1560, Cosimo I de’ Medici chiese a Giorgio Vasari di costruire un edificio accanto a Palazzo della Signoria per riunire le tredici più importanti magistrature fiorentine che regolavano l’amministrazione dello Stato mediceo. Nacquero così gli Uffizi a cui, nel 1565, venne affiancata la costruzione del Corridoio Vasariano, voluto da Cosimo in occasione del matrimonio del figlio Francesco con Giovanna d’Austria.

Riaprire il Corridoio Vasariano, dedicare ai ritratti una sala apposita, rinnovare il ruolo dei vigilanti, spostare i grandi maestri in un unico piano: Eike Schmidt è lo storico dell’arte che da un anno guida il museo più visitato d’Italia, gli Uffizi. Tedesco, esperto d’arte fiorentina, ha già abitato qui per un lungo periodo tra gli anni Novanta e l’inizio del Duemila, ha una moglie italiana («che è speciale quanto l’arte, se non di più», dice) e ammette di amare la musica, da quella barocca ai cantanti anni Settanta e Vasco Rossi. Nel suo primo anno di mandato ha incontrato resistenze, lui dice che si era già preparato, perché «non sono né guelfo né ghibellino e non ho alcuna intenzione di diventarlo», e ha messo le basi per delle modifiche radicali all’interno del sistema. Che riguardano il Corridoio Vasariano, che collega il museo con Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti ed era la via di fuga dei Medici, ad esempio: «A me serve soltanto quando piove o per incontrare il sindaco, voglio che sia aperto a tutti», con i ritratti che saranno spostati in una sala a loro dedicata per conservarli meglio. Ma non solo: «Quando avrò finito vorrò andare agli Uffizi senza stare in fila tre ore. Vengo qua dagli anni Ottanta e conosco bene la situazione dei visitatori», dice, e per questo è iniziata una collaborazione con l’Università dell’Aquila per progettare un modo per eliminarla e far diventare il museo più facilmente accessibile. All’interno, invece, i cambiamenti riguardano le sale, dalla nuova area dedicata a Botticelli al lavoro dei vigilanti, che non funzioneranno più da telecamere viventi ma avranno un ruolo attivo per agevolare le visite. Delle novità che devono essere sperimentate con i visitatori con la speranza di migliorare anche altre situazioni: «Gli Uffizi sono un laboratorio di innovazioni, se quello che facciamo qui funziona potrebbe essere esportato anche in altri posti e a quel punto mi auguro che possano venire introdotte a livello nazionale».

 

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Sylvain Bellenger – Museo di Capodimonte, Napoli

Nel 1738 Carlo di Borbone iniziò i lavori di costruzione di un palazzo da adibire a museo in cui sistemare le opere d’arte ereditate dalla madre Elisabetta Farnese. Per lungo periodo la reggia – in cui il museo è inserito – ebbe soltanto un’utilità abitativa, tanto che l’inaugurazione ufficiale è stata nel 1957.

Capodimonte è un museo particolare: insieme alle sale piene di opere che coprono circa cinque secoli di storia dell’arte, partendo da Michelangelo, Caravaggio, Raffaello per arrivare a Burri, Warhol e Jodice, ci sono anche l’armeria, gli appartamenti storici, i presepi e le porcellane della Real Fabbrica. Per la sua guida è stato scelto Sylvain Bellenger, nato in Normandia e con un passato in molti musei tra la Francia e gli Stati Uniti, e un’esperienza anche a Palazzo Farnese a Roma. Nel 2010, poi, per studiare Canova si trasferisce a Napoli: «Qui riconosco un particolare senso di spiritualità, mistico e allo stesso tempo irriverente, e un modo di intendere la vita che esula da logiche strettamente cartesiane e che forse, proprio per questo, risulta particolarmente affascinante», dice. Nel suo progetto c’è quello di far diventare Capodimonte un «luogo di costruzione identitaria, un centro attrattivo di energie culturali che possa superare la posizione defilata rispetto al tessuto urbano» e farlo diventare anche un luogo di interesse internazionale. Ovviamente ci sono cose da aggiustare, come quella del personale che è esperto ma sottodimensionato, mentre per il futuro spera che l’intero sistema italiano riesca a sfruttare le sue potenzialità partendo dai bambini: «La conoscenza del patrimonio, la storia e l’arte devono essere considerati cardini delle politiche scolastiche dei prossimi anni, immaginando una rete che possa coinvolgere anche i musei. L’Italia può contare su una rara complessità storica e artistica e deve sfruttarla, affiancando i giovani a persone esperte».

 

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Peter Aufreiter – Palazzo Ducale, Urbino

Voluto da Federico da Montefeltro nella metà del Quattrocento, il Palazzo Ducale di Urbino è ora la sede della Galleria Nazionale delle Marche. Negli anni venne ampliato e nel 1631 passò nelle mani della chiesa e molte delle collezioni finirono altrove, soprattutto agli Uffizi e al Louvre.

Chi conosce bene il territorio che dirige è Peter Aufreiter, quarantenne tedesco laureato in storia dell’arte e filologia germanica. «Fin da quando avevo cinque anni i miei genitori mi portavano due volte l’anno in vacanza in Italia. Io e i miei fratelli avevamo un patto con loro: avremmo dedicato un giorno alla cultura e uno al mare», dice, spiegando che anche per questo vede il nostro come un Paese con un mix perfetto di cultura e svago, in cui ha passato anche i mesi dell’Erasmus, che ha fatto a Urbino diciassette anni fa e dove ha conosciuto la moglie. Vede la Galleria Nazionale e il Polo Museale delle Marche con gli occhi di un turista e opera in questo senso, cercando di venire incontro a chi decide di visitare il Palazzo Ducale di Urbino, sede di tutta la Galleria, che lo scorso anno ha accolto più di 190 mila persone. La costruzione della seconda metà del Quattrocento, nonostante abbia perso molte delle sue opere a causa delle spoliazioni – più o meno legittime – avvenute durante i secoli, mantiene delle eccellenze: come la Veduta della città ideale nella sala degli Angeli, le opere di Piero della Francesca nella sala delle Udienze e quelle di Raffaello nel Salotto della Duchessa. Quello che Aufreiter ha in mente è un progetto a lungo termine, che ha come obiettivo quello di coinvolgere tutti: aziende locali, turisti e, ovviamente, i giovani «con cui sarà necessario instaurare un rapporto di fiducia in modo da invogliarli a tornare nei nostri musei più volte per ripetere l’esperienza», dice. Per far questo, secondo lui, è fondamentale l’effetto del passaparola ma anche strategie comunicative efficaci e la collaborazione con enti locali.

 

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Gabriel Zuchtriegel – Parco Archeologico, Paestum

Il nome della città, Paestum, è stato dato dai romani nel 273 a.C circa, ma le sue origini sono molto più antiche, e risalgono probabilmente a un periodo intorno al VII secolo a.C. Negli anni venne poi abbandonata, ritrovando una definitiva riscoperta soltanto con Carlo di Borbone. Nel 1998 il parco è stato incluso nel patrimonio mondiale Unesco.

Gabriel Zuchtriegel è il più giovane tra i direttori nominati lo scorso anno dal ministro Franceschini. Ha 34 anni, è tedesco e ha lavorato tanto in Italia, sia come professore all’Università della Basilicata, sia come archeologo, collaborando al Grande Progetto Pompei e partecipando a molti scavi, dall’area Siris-Herakleia in Basilicata a quella di Gabii, vicino a Roma, fino a  Selinunte, in provincia di Trapani. Si è laureato a Berlino in Archeologia classica, preistoria e filologia greca e vede il Mediterraneo come «uno spazio mitico e reale al tempo stesso, ricco di storie e tradizioni, con gli Appennini e le colline coperte di oliveti e la macchia mediterranea che si estende fino al mare». Al Parco Archeologico di Paestum, che lo scorso hanno ha superato i 300 mila visitatori, Zuchtriegel ha portato tante novità: i profili social, le aperture notturne, i concerti tra i templi, le guide gratuite, la restaurazione della sala con la Tomba del Tuffatore, tornata dopo il prestito a Expo e al Museo archeologico nazionale di Napoli. Ma non solo: a marzo scorso è stato riaperto dopo vent’anni il Tempio di Nettuno, costruito nel V secolo a.C, e il mese dopo è stata la volta di quello di Hera, cioè il più antico del parco, conosciuto soprattutto con il nome di Basilica di Paestum, e quello di Atena. «Dal territorio ho ricevuto un grande sostegno», dice il direttore, che ogni mattina raggiunge il parco in treno. Queste iniziative sono la base per un futuro che, secondo lui, deve concentrarsi anche su un più forte legame col territorio: «Siamo qui per i cittadini, e i musei non devono essere né torri di avorio né mere attrazioni turistiche, ma centri culturali e sociali dove ricerca e pubblico si incontrano».

 

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James Bradburne – Pinacoteca di Brera, Milano

Aperta nel 1776, la Pinacoteca di Brera – con Milano capitale del Regno Italico – diventò il museo in cui confluivano le opere provenienti dai territori conquistati da Napoleone. Dopo la sua caduta dovette cedere alcune opere ma continuarono le donazioni e nel 1926 venne creata l’Associazione degli Amici di Brera grazie alla quale vennero acquistati vari capolavori.

La Pinacoteca di Brera, per James Bradburne, anglo-canadese, è stato un viaggio di circa 300 km dal suo precedente incarico, quello a Palazzo Strozzi, che ha diretto per otto anni a partire dal 2006. A Firenze Bradburne ha portato grandi mostre, su Cézanne, Pontormo, Picasso, il Rinascimento, facendo diventare il complesso una realtà internazionale. A Milano, dove dirige anche la Biblioteca braidense, l’innovazione è passata dai biglietti serali a due euro e gli orari prolungati il giovedì, il riallestimento delle sale – iniziato con quelle di Raffaello, Mantegna e Caravaggio e che continuerà finché tutte e 38 non saranno pronte – con colori più emozionanti e nuove didascalie di fianco alle opere. Ma non solo. Quello che Bradburne cerca è la centralità del visitatore, che possa non soltanto andare a Brera ma anche tornarci. Lo scorso anno la Pinacoteca è stata ammirata da circa 285 mila persone, non così tante se si pensa ai capolavori che vi sono contenuti: il Cristo Morto del Mantegna, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, la Cena in Emmaus di Caravaggio, per citarne alcuni. Un numero che Bradburne vuole aumentare con un progetto triennale, che vedrà nel 2017 l’apertura della caffetteria e del bookshop e del vicino Palazzo Citterio nel 2018, dove saranno destinate le opere del Novecento che adesso sono collocate in uno spazio sacrificato. Per realizzare questi e altri progetti, spera che «l’Italia abbracci la trasparenza e il principio dell’autonomia» e che  «si allontani da una gestione centralizzata e quasi sovietica della cultura», in modo da dare più libertà di azione per realizzare nuovi progetti senza perdersi nei vicoli ciechi della burocrazia.

Ritratti di Cosimo Piccardi, Claudio Morelli, Andy Massaccesi, James O’Mara
Dal numero 29 di Studio